2024-08-04
«Nelle scuole bisogna educare al coraggio»
Il poeta Franco Arminio: «La società di oggi fugge dal dolore e diserta la vita, invece i bambini devono essere avviati a osare, a fare cose grandi. Va riattivata la libertà d’espressione, con parole estreme e pure, che non si curino delle reazioni di chi si offende per qualsiasi cosa».Franco Arminio è uno dei più importanti poeti italiani, e di sicuro quello di maggior successo commerciale. E non solo perché la sua poesia è accessibile, benché estremamente profonda. Ma anche perché sa toccare corde che molti non osano suonare, batte sentieri dimenticati che non è alla moda percorrere. Sta per uscire suo nuovo libro che si intitola Accorgersi di essere vivi. Un breviario per chi ha perso la via (Ponte alle Grazie, scritto con Guidalberto Bormolini).In effetti, Arminio, la sensazione è che la nostra civiltà abbia dimenticato che cosa significhi essere vivi, che cosa sia la vita vera, il contatto con la realtà.«Un po’ ci si addormenta, paradossalmente a volte abbiamo bisogno di piccoli contrattempi, addirittura di piccole sventure per risvegliarci un po’. Ci accorgiamo che quando la vita viene in qualche modo oltraggiata, rimessa a rischio, ecco che riappare. Altrimenti è come stare in una sorta di stato leggermente comatoso. Il problema è che noi dovremmo essere vivi senza incorrere in questi incidenti, anzi dovremmo ravvivare il patto con la vita attraverso la gioia, l’amore, l’amicizia, senza incorrere nello spavento che ci può dare una malattia o un problema. Ma questo è il paradosso: ci sentiamo più vivi quando siamo più feriti»Il un filosofo Byung-Chul Han sostiene che noi si viva in una «società senza dolore», terrorizzata dalla fatica e dalla sofferenza, una società che soffre di algofobia.«Ovviamente non tutti gli individui si comportano allo stesso modo, ma in questo momento storico mi sembra che ci sia una tendenza alla rimozione del dolore e della morte, che poi alla fine è una rimozione della vita. Perché la vita prende senso proprio dal fatto che ha un limite, che in qualsiasi momento può finire dall’altra parte, finire nel mistero, in questo baratro che possiamo chiamare morte. La partita purtroppo è questa: non lo abbiamo deciso noi, quindi per vivere veramente bisogna sapere che si muore e si soffre, e non si soffre solo singolarmente, cioè quando ci ammaliamo, quando abbiamo problemi personali. Si soffre anche per gli altri: dovremmo riattivare la sofferenza e pure la compassione, quindi soffrire anche per il pericolo degli altri». Cosa che invece sembra che non riusciamo più a fare.«È un’invalidità di massa, la possiamo chiamare così. Tutta la società vive in questa rimozione del dolore che diventa un una anestesia collettiva, una sorta di diserzione dalla vita. È un problema serio, di cui si discute poco».Lei ha dedicato tante poesie al corpo, anche nelle sue parti più minute. Oggi tendiamo ad avere con il corpo un rapporto quasi patologico. Avendo perduto l’anima, viene da dire, non ci resta altro che il corpo e siamo terrorizzati all’idea che smetta di funzionare.«Lo specialista all’interno della clinica, dell’ospedale, ha occupato il posto che prima era del prete. Viviamo come in difesa, ma la vita va messa in gioco continuamente. Non sono le analisi continue a salvarci, ma la capacità di investire nell’amore, nella passione, nella lotta. La salute si conserva lottando, non riposandosi, ho questa sensazione. Per stare veramente bene bisogna andare dentro la vita con coraggio, il corpo ha bisogno di questo: non ci possiamo mettere in convalescenza prima di ammalarci. Io per esempio dormo mediamente, 4 ore in notte, faccio viaggi, studio, faccio tante cose… Ho 64 anni, per certi aspetti mi sento meglio adesso che 30 anni fa. Ora, certo non so quando finirà il mio viaggio: ma bisogna viaggiare, spendere l’energia che abbiamo… Un tempo c’erano gli ipocondriaci, ora abbiamo una specie di ipocondria di massa». Ho la sensazione che in fondo ci manchi il coraggio. E non solo nell’uso del corpo, ma pure in quello della mente. Ad esempio abbiamo paura delle parole, il timore costante che possano offendere qualcuno…«C’è questo delirio per cui non si può dire più niente, perché tutti ti ritengono offesi… Se vado in un paese e dico che non è bello, mi denunciano. Tocca fare pubblicità a tutti: devi dire che tutti sono belli, che tutti sono buoni, anche se non è così. Dobbiamo riattivare la libertà di espressione. Se ci pensiamo, tutte le grandi opere letterarie rimaste nel tempo sono tutte state scritte da persone estremamente coraggiose che hanno detto la verità fino in fondo. Oggi abbiamo scrittori che la dicono così a metà, la dicono per tenersi a galla. Ma non è questo che chiediamo alla letteratura, o alla politica e alla filosofia».Che cosa chiediamo invece?«Chiediamo uomini che osano, che cercano di acciuffare una verità più estrema, una verità ulteriore che non abbiamo ancora raggiunto. Tutto questo però, nel nostro attuale scenario, non lo vedo. C’è piuttosto un opinionismo di massa, come un colluttorio che ci passiamo di bocca in bocca, fa pure un po’ schifo a pensarci… Invece servirebbe una parola pura, una parola estrema, una parola che non si cura appunto di compiacere, non si cura anche delle reazioni di questo o di quell’altro».Edvard Limonov, già qualche decennio fa, sosteneva che viviamo nel «Grande ospizio occidentale».«Sto guardando la ginnastica ritmica alle Olimpiadi e vedo queste ragazze che, come tutti gli sportivi a un certo livello, fanno delle cose straordinarie. Eppure appartengono alla nostra specie: lì c’è appunto la scelta estrema, il sacrificio enorme. Le Olimpiadi possono essere un grande stimolo se uno le guarda con quest’occhio. Purtroppo molte persone si mettono in pensione prima del tempo, tra l’altro la vita digitale aiuta questo atteggiamento: fa sì che non ci si metta mai a rischio. Anche quando qualcuno polemizza, non rischia di prendersi un calcio in culo. Il digitale permette di evadere dalla vita, e pure dall’amore. Si corteggia, ma magari non ci si incontra mai. È una spinta alla viltà, ad allungare il brodo. Il fatto, però, è che anche i vili muoiono».Che fare dunque?«Credo che bisognerebbe parlarne nelle scuole, servirebbe una specie di educazione al coraggio: l’educazione civica, il fatto di rispettare le regole, a che servono se non si è coraggiosi, se non si dà alla società il proprio eroismo, se non ci si sacrifica profondamente? Tutti rispettiamo le regole, ma poi investiamo pochissimo, nessuno mette il suo legno sul fuoco collettivo e il fuoco collettivo si spegne».Forse dipende dal fatto che se si vive in una società in cui tutto è commerciabile, anche la vita umana, inevitabilmente si perde la spinta a donarsi, a darsi gratuitamente. «Tutti sono in qualche modo impresari della propria fama, pubblicitari di sé stessi. Ma che cosa si pubblicizza? Il fatto di esserci e basta. Ma non dobbiamo gioire del fatto di esserci semplicemente, bensì del contributo che ciascuno dà. Una volta anche un semplice contadino faceva cose estreme, due ore per andare in campagna su un asino, due ore per tornare e poi 10 ore di lavoro… Ora abbiamo miliardi di persone che stanno negli uffici, che stanno al chiuso, che hanno il mal di stomaco, che reprimono i loro impulsi… L’umanità non è mai stata così povera di slancio, fa atto di presenza per tenersi in vita. Viviamo in una società che tende a risparmiarci tutte le esperienze, tutti i rischi. Ma la vita è bella perché è pericolosa. Il motto potrebbe essere: nessun giorno senza un rischio, già dalle scuole elementari. Perché è lì che si comincia a essere coccolati, iper preservati. Invece i bambini debbono essere avviati a osare, a fare cose grandi. Poi ognuno fa secondo i suoi talenti, ma adesso è tutta una infermeria di massa. Viviamo in un crepuscolo perenne. Ci siamo guastati: però siamo una macchina che si è guastata nel garage».
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