2024-02-03
Nelle carte segrete di Bergamo le bugie di Conte, Speranza e Pd
A inizio 2020, circoscrivere la Bergamasca poteva contenere il contagio. L’ex premier incolpa la Regione, ma da carte esclusive emerge che a evitare la stretta fu il governo centrale, anche su impulso dei dem lombardi.Martedì, presentando il suo libro alla Camera, Roberto Speranza ha avuto il coraggio di pavoneggiarsi. Alla faccia del record di morti e dell’inutile compressione dei diritti civili, ha proclamato che quella del contrasto alla pandemia è «una storia da rivendicare». La sua pregevole opera, Perché guariremo, d’altronde è zeppa di autoelogi del genere. A Giuseppe Conte, se non altro, è scappata una mezza verità: ha ammesso che, all’inizio dell’emergenza, il governo si trovò a «improvvisare». Tuttavia, anche lui s’è attribuito pieni voti. Anzi, ha dirottato le critiche sulle Regioni. E ha giurato che, nonostante il tentativo della destra di tenerle al riparo dalla commissione d’inchiesta sul Covid, le opposizioni, alla fine, le inchioderanno: «Non possono sfuggire». Tra le altre cose, l’ex premier ha lamentato la contraddittorietà delle accuse che gli sono state rivolte: gli hanno rimproverato sia di aver chiuso troppo - il lungo lockdown della primavera 2020 - sia di aver chiuso troppo poco - i ritardi nell’istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro. Che lui, ovviamente, considera una responsabilità esclusiva del governatore lombardo, Attilio Fontana.Peccato che, proprio in questi giorni, siano spuntate nuove carte. Documenti che gettano una luce diversa su quelle tragiche e fatidiche settimane. Si tratta di un’informativa dei carabinieri di Bergamo, risalente al 6 aprile 2020 e debitamente trasmessa alla Procura, che La Verità ha consultato in esclusiva. Le carte contengono un sunto di materiale proveniente da un’altra inchiesta bergamasca riguardante questioni migratorie, in cui il sindaco dem, Giorgio Gori, era evidentemente intercettato. Gli inquirenti, imbattendosi quasi casualmente in una notevole mole di informazioni relative alla gestione dell’emergenza sanitaria, hanno deciso di girare il tutto ad altri colleghi. Nondimeno, a quanto risulta, il materiale non è poi entrato nella smisurata inchiesta sulla pandemia condotta dalla stessa Procura di Bergamo. A partire dall’esame delle conversazioni telefoniche del primo cittadino orobico, riassunte nelle carte, si dipinge un quadro imbarazzante per gli uomini che dovevano occuparsi della nostra salute. I paladini del tremendo «modello Italia», campione di lutti e vessazioni. Riavvolgiamo il nastro. Siamo alla fine di febbraio dell’annus horribilis. Dopo i casi della coppia cinese a Roma e i focolai del Lodigiano, è ormai chiaro che pure la Bergamasca è minacciata dal coronavirus. Andrebbero messi in quarantena i Comuni più colpiti, prima che il morbo si diffonda nell’intera Regione (probabilmente sta già accadendo) e nel resto del Paese. Il sindaco Gori è angosciato. E sul problema della zona rossa si confronterà con suoi compagni di partito, esponenti del governo, il prefetto, gli esperti (compreso suo fratello Andrea, infettivologo al Policlinico di Milano) e con i grandi imprenditori del posto. Tra i quali spiccano alcuni suoi sponsor elettorali.Gori appare mosso da una duplice preoccupazione: da un lato, evitare che il patogeno dilaghi nel capoluogo, anche perché, dagli ospedali, gli arrivano notizie allarmanti; dall’altra, scongiurare la serrata delle attività produttive. Già il 21 febbraio, al telefono con Massimo Giupponi, direttore dell’Ats, viene informato di un imminente confronto tra quest’ultimo e il direttore della Confindustria locale, Paolo Piantoni, nel quale si dovrebbe decidere «come comportarsi con le aziende bergamasche che operano nel lodigiano», territorio infetto. Due giorni dopo, esce un decreto legge che prevede la possibilità di vietare gli assembramenti, di chiudere le scuole, i musei e i negozi. Il 23 febbraio, però, Gori e Giupponi sono ancora concordi: sarebbe una «cosa eccessiva» fermare tutto «per un solo caso di contagio». Il sindaco è in apprensione, perché la Regione sembra intenzionata ad adottare la linea dura. Al direttore dell’Eco, Alberto Ceresoli, confessa: spero «che Bergamo non venga inquadrata in zona rossa, ma solamente gialla». Pertanto, mentre s’intensifica il pressing delle aziende, il primo cittadino inizia a coinvolgere gli esponenti piddini della zona: da Maurizio Martina, ex ministro dell’Agricoltura e originario di Calcinate, fino al viceministro dell’Economia, Antonio Misiani, nato e cresciuto nel capoluogo.La ricostruzione offerta dagli inquirenti evidenzia il dilettantismo, l’impreparazione e la pavidità dell’esecutivo giallorosso dinanzi all’emergenza sanitaria. Per forza: l’Italia, in quel momento, non ha un piano pandemico aggiornato; quello esistente, mai toccato dal 2006, viene citato in una riunione tecnica e poi rimesso nel cassetto; non ci sono mascherine e respiratori; non si sa manco di preciso quanti posti in terapia intensiva ci siano a disposizione e quanti se ne possano attivare alla svelta. Forse, circoscrivere rapidamente le aree in cui si stava spargendo la malattia avrebbe potuto mitigarne l’impatto. Proprio così: il prolungato lockdown nazionale fu inservibile e dannoso. Semmai, bisognava intervenire in maniera tempestiva e chirurgica. Non fu fatto. Mal ce ne incolse.Dalle annotazioni degli inquirenti, si scopre che, mentre i vertici della Regione Lombardia insistevano per interventi energici, il governo cincischiava. Peggio: remava in direzione ostinata e contraria. Qualche esempio? Il 26 febbraio, Misiani, al telefono con Gori, spiega che le misure di contenimento adottate in Lombardia, come l’interruzione anticipata delle attività alle 18, «non hanno senso». Lui «eliminerebbe le restrizioni già la prossima settimana». Fa impressione leggere certe affermazioni, alla luce della successiva conversione chiusurista del Pd. Il 9 novembre di quell’anno, il numero due del Mef avrebbe duramente attaccato Fontana, che lamentava l’inserimento in zona rossa della regione: «Dichiarazioni irresponsabili». Gli attivisti del «Non si ferma», a quel punto, erano diventati gendarmi delle chiusure. In tale frangente, al cellulare con Misiani, financo il primo cittadino di Bergamo (che fino quasi alla metà di marzo s’impegnerà per ottenere dispense a beneficio delle aziende) storce il naso. E prova a sensibilizzare il collega «su quanto appreso dal fratello virologo, ovvero che se entro due settimane non ci sarà un rallentamento dei contagi, tutte le forze dovranno essere dirottate sul potenziamento degli ospedali». La situazione è grave. Ma non seria. Già, perché, poco dopo, lo stesso Gori chiama Lorenza Bonaccorsi, sottosegretario piddino alla Cultura, «alla quale chiede la possibilità di riapertura dei musei». Alzata di spalle: li ha chiusi la Regione…Il primo marzo, Andrea Gori, il medico, svela al fratello un dettaglio inquietante: «Dice di essere a conoscenza che da Roma stanno facendo pressioni al presidente Fontana per riaprire le attività». L’infettivologo è convinto della necessità di provvedimenti di contenimento e afferma che «anche Fontana è su questa linea, al contrario di Roma (governo)». Il 3 marzo, poi, a Gori, che teme la quarantena per Bergamo, Misiani fornisce una rassicurazione che oggi appare clamorosa: «Il ministro Speranza gli riferiva che Bergamo città dovrebbe essere al riparo dalla zona rossa», anche se essa va istituita «al più presto perché i contagi stanno dilagando». Tuttavia, la zona rossa non scatterà mai. Occhio alle date: due giorni dopo la conversazione captata, carabinieri, poliziotti, finanzieri e militari vengono alloggiati in vari alberghi della Bergamasca. Sono in stato d’allerta. Sembra tutto pronto per la stretta. Ma l’ordine non arriva. Il 5 marzo, Andrea si lamenta con Giorgio. Un «loro conoscente» - probabilmente un impiegato della Regione, annotano gli inquirenti - sostiene che «l’unico a essere lucido in merito alla gravità della situazione è il presidente Fontana, che riportava l’esatta criticità degli eventi al governo. Sembra però che lo stesso governo non abbia recepito appieno il messaggio nonostante Fontana si sia rapportato con loro in maniera diretta». Negli ospedali, intanto, «i medici stanno utilizzando i respiratori in base alla fascia d’età». Praticamente, devono scegliere chi vive e chi muore. Pertanto, alla deputata pd Elena Carnevale, Gori rivela che, a suo parere, «il presidente del Consiglio Conte non vuole assumersi questa responsabilità». Il 6 marzo, glielo dice pure il governatore Fontana, che ribadisce «di aver richiesto» le chiusure «già da giorni ma che non ha avuto risposta da Roma e che la politica sta prendendo alla leggera questa cosa perché non si rende conto di quello che sta avvenendo». Il sindaco orobico inizia a scoraggiarsi. Conversando con l’omologo milanese, Beppe Sala, «fa presente che ormai la situazione bergamasca è sfuggita di mano e che non ha quasi più senso fare zona rossa la Val Seriana in quanto il virus si è diffuso in larga scala». La finestra d’opportunità s’è chiusa. È accaduto l’irreparabile. Ma nella Capitale non lo capiscono. Lo lascia intendere proprio l’inquilino di Palazzo Marino. In un’altra conversazione, Sala racconta di aver illustrato la situazione al ministro della Cultura, Dario Franceschini. Costui, però, «non era a conoscenza su quanto stava avvenendo in Lombardia». Incredibile: al Nazareno non leggevano i giornali? Non guardavano i tg? Di qui in avanti, le versioni divergono. Parte il rimpallo delle colpe. Il 7 marzo, Misiani, con Gori, fa scaricabarile su Fontana: è lui che «si sta cagando addosso». È lui che ha paura di chiudere, perché teme «denunce che potrebbe subire per procurato allarme e danno all’economia». Eppure, le carte mostrano che anche i dem stanno mediando, per accertarsi certe aziende vengano escluse dai diktat.L’8, tocca al presidente della Fondazione Fiera Milano, Enrico Pazzali, difendere l’operato del governatore. Pazzali comunica a Gori che da una settimana Fontana esorta Conte a varare una stretta, ma quest’ultimo gli avrebbe «riso in faccia». Il manager sgancia una bomba: giura «di avere assistito alle conversazioni telefoniche» e aggiunge che «solamente la comunicazione avvenuta tra il presidente Fontana e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale venivano riferiti i dati delle proiezioni di contagi, ricoveri e decessi, faceva sì che il presidente Conte adottasse misure più restrittive». Le misure, in effetti, arrivano quel giorno: il governo chiude la Lombardia. Ricordate? Il dpcm viene preceduto da una fuga di notizie da Palazzo Chigi, che innesca un rocambolesco esodo di fuori sede verso il Sud. Il 9 marzo, il premier battezza l’ora più buia. Inizia il lockdown totale.Nondimeno, il 10, Fontana ribadisce che a Roma non hanno compreso l’entità del disastro: le restrizioni sono «troppo leggere». Quando, 24 ore dopo, il sindaco di Bergamo gli riporta la replica dell’avvocato pugliese - che lui «non ha ancora ricevuto da parte della Regione Lombardia alcuna richiesta di chiusura delle attività produttive» - Fontana sbotta: l’esecutivo «non vuole assumersi detta responsabilità».La diatriba riguarda il fermo delle aziende. Il 12 marzo, Gori presenta delle rimostranze al ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, poiché nel famigerato dpcm di Conte «non erano indicati i criteri che potevano determinare il blocco delle attività produttive», tanto che «tale decisione era legata ad accordi e pressioni da parte di Confindustria». Secondo il titolare del dicastero, la colpa delle titubanze, invece, è tutta del Pirellone: il governo ha chiesto «a Regione Lombardia quali aziende avrebbero dovuto chiudere», ma la Regione «aveva risposto dopo 7/8 ore senza dare indicazioni». Lo scambio di accuse, adesso, indigna pure il sindaco di Bergamo, che invita Boccia a «“non tirarsi la palla” tra governo e Regione».Il resto è storia. È conferenze stampa di Conte. È editti di Palazzo Chigi. È la risposta al Covid «caotica e creativa», come la definì il funzionario Oms Francesco Zambon. È il bizzarro ribaltamento dei fronti: quelli che si preoccupavano per il razzismo anticinese, quelli che non volevano piegarsi alla paura, quelli che non volevano chiudere, presto si sarebbero trasformati nei secondini di un’intera nazione. Cos’era successo nel frattempo? Avevano intravisto la chance di ricostruire l’egemonia culturale della sinistra, come scrive Speranza nel suo libro? Forse è ora che ne rendano conto.Ne sono convinti gli avvocati Piero Pasini e Consuelo Locati, noti esponenti del gruppo di legali che assiste circa 630 familiari delle vittime Covid in causa davanti al Tribunale civile di Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulle carte che abbiamo consultato. «Oltre a quanto già emerso dall’indagine chiusa dalla Procura della Repubblica di Bergamo, questi documenti aggravano la posizione di chi poteva e doveva decidere tempestivamente la chiusura della Val Seriana e della Bergamasca e invece ha deciso di non intervenire», ci dicono. «Pare che la scelta consapevole sia stata quella volta a tutelare l’economia e gli interessi economici degli imprenditori più importanti bergamaschi, violando e ledendo il diritto costituzionalmente garantito alla salute e alla vita. Di fatto questi documenti e il loro contenuto confermano ulteriormente la fondatezza delle domande svolte dai familiari delle vittime in causa avanti il Tribunale di Roma e ci chiediamo come si possa ancora resistere in giudizio negando fatti acclarati e, ancor peggio, negando le responsabilità che ormai sono sempre più incontestabili. Nel Regno Unito si chiede scusa, in Italia si nega e si archivia». Già, qui si nega e si archivia. Anzi, peggio: si rivendicano gli errori.
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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