
Il termine cotoletta è errato. Il famoso piatto milanese non ha niente a che vedere con l'orecchia da elefante, che è propria della Wienerschnitzel austriaca. Nata nove secoli fa dalla lombata, fu impanata per dare al cibo una patina considerata curativaIniziamo col mettere i puntini sulla... «esse». Si dice «costoletta alla milanese» e non «cotoletta alla milanese». Non solo perché lo certifica la denominazione comunale (Deco) voluta dal sindaco Letizia Moratti nel 2008 per consacrare l'origine di uno dei piatti meneghini più tipici, ma perché lo testimoniano nove secoli di storia, di tradizione documentata od orale, di ricerche, oltre che studiosi della cucina, scrittori, cuochi celebri. L'illuminista milanese Pietro Verri, nella sua Storia di Milano, racconta che il 17 settembre 1134, per la festa di San Satiro, fratello di Sant'Ambrogio, l'abate della basilica dedicata al grande vescovo protettore dei milanesi, offrì ai canonici un pranzo di nove portate. Tra queste figuravano i «lombulos cum panitio», lombatine avvolte nel pangrattato. Sono le antenate della costoletta alla milanese.L'impanatura serviva, nel medioevo, non solo e non tanto per variare il sapore dei cibi, ma per dar loro quella taumaturgica patina aurea considerata benefica, curativa. Mangiare oro, metallo puro, luminoso, eterno, o almeno cibi di quel colore, assumeva un forte significato simbolico, beneaugurante. Non nacque così anche il risotto allo zafferano, pur esso milanese?La tecnica dell'impanatura, risalendo i secoli, la troviamo descritta alla fine del 15° secolo da Maestro Martino, cuoco del patriarca di Aquileia, nel Re coquinaria: «Piglia un pane bianco et grattugialo menuto, et con esso pane mescola tanto sale quanto te pare necessario per lo arrosto; poi gitta questa mescolanza sopra lo arrosto in modo che ne vadi in ogni loco; poi dalli una bona calda de foco, facendolo voltar presto; et in questo modo haverai el tuo arrosto bello et colorito». Bartolomeo Scappi, cuoco di due papi Pio, il quarto e il quinto, nell'Opera, consiglia come friggere la carne, ma sceglie di impanarla con la farina, indorarla con «rossi d'ova sbattute», friggerla nello strutto e servirla calda con succo di melangole (arance amare), zucchero e cannella. Il primo a dire pane al pane e costoletta alla milanese, fu nel 1855, Giuseppe Sorbiatti pubblicando nella Gastronomia moderna la ricetta delle «Costoline di vitello fritte alla milanese». La consacrazione arriva con Pellegrino Artusi, padre salvatore della cucina regionale italiana, che ne La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, mette il suo prestigioso sigillo sulla «esse» della lombata impanata nella ricetta 538: «Costolette di vitella di latte alla milanese».Renzo Pellati, specialista in scienze dell'alimentazione, nella Storia di ciò che mangiamo, punta il dito contro i ristoranti che nel menu scrivono «cotoletta alla milanese». «È sbagliato», spiega. «La vera milanese è ricavata dalla lombata del vitello che si dice «costola» quindi si deve dire «costoletta alla milanese». Il termine cotoletta è di origine francese, deriva da cote, costola. Certi ristoranti, per colpire l'attenzione del cliente, servono un pezzo di carne battuta allargata a orecchia di elefante, una normale scaloppina impanata». La vera milanese, ribadisce Pellati, è dotata di osso, intinta nell'uovo non salato e poi fritta nel burro. Ma sulla scelta del grasso per la friggitura le opinioni sono diverse. L'osso, dunque, fa la differenza. Cesare Marchi, giornalista e scrittore, dedica alla costoletta il primo capitolo di Quando siamo a tavola, bestseller da oltre 100.000 copie. L'attacco è esplicito. «Innanzitutto deve avere l'osso, il manico. Senza il manico la costoletta (per carità, non chiamatela cotoletta) è un fiore senza stelo, una bandiera senz'asta, una spada senza impugnatura, un elmo senza pennacchio». A illuminare Marchi fu Alfredo Valli, cuoco milanese considerato nella seconda metà del secolo scorso il re dell'autentica costoletta ambrosiana che aveva servito, tra gli altri vip, a Maria Callas (da mezzo chilo!), Mario Soldati, Gianni Brera, Bettino Craxi.Il cuoco confidò a Marchi il segreto della perfetta costoletta alla milanese: «Per prima cosa la materia prima: un vitello sui 90 giorni nutrito solo con il latte di mamma mucca. Le migliori costolette sono le prime quattro. Ognuna deve avere uno spessore di 6/7 centimetri. Bisogna batterle bene, senza stancarsi: 50 colpi, non uno di meno, fino a ridurle a un centimetro, uno e mezzo. Si frusta con la forchetta un uovo, vi si intinge la carne, la si passa nel pane grattugiato in modo che la polvere vi aderisca come una seconda pelle. Farina? Assolutamente no. Né latte né formaggio. Soffriggo in un tegame metà olio e metà burro e, quando diventa biondo, vi cuocio la costoletta a fuoco moderato, cinque minuti per parte. Il fondo di cottura non va riutilizzato né versato sulla costoletta che va asciugata in un tovagliolo assorbente». Marchi, attento gourmet, trae le conclusioni: «Ruvida, quasi scontrosa nel suo malinconico aspetto di foglia morta, nasconde sotto la corteccia d'oro brunito una polpa rosea e mansueta come il cuore d'una maddalena pentita».Il soffritto. Valli parla di metà olio e metà burro, Artusi e Pellati di burro, Luisa Bernardi, la cuoca gardesana che per cinquant'anni ha «costretto» i camionisti in transito sulla Serenissima a uscire al casello di Peschiera per gustare la sua celeberrima costoletta, usava l'olio di semi di arachidi. Anche Delia Scala, donna di spettacolo, che cucinava la costoletta alla milanese per l'amica e collega Rossella Falck, suggerisce il burro. Chi ascoltare? Personalmente seguiamo il consiglio di Luigi Carnacina. Il maestro gastronomo ne I lombardi e l'allegra mangiata, libro scritto con l'umorista Carlo Silva, detta la ricetta delle costolette di vitello giovane (di latte) suggerendo di usare il burro chiarificato. Consiglio ripreso e consacrato da Slow food. Nel Dizionario delle cucine regionali italiane, a proposito della «cotoletta» (ohibò!) alla milanese, il volumone precisa che «è con l'osso, spessa un centimetro e mezzo, ricavata dalla lombata di un vitello da latte e fritta con risultati migliori nel burro chiarificato».Burro chiarificato anche per un altro grande maestro milanese, Gualtiero Marchesi, che ci ha lasciato la rivisitazione della costoletta tagliata a cubetti. Questi, impanati sulle sei facce, risultano a fine frittura meravigliosamente croccanti. E l'osso? È rigorosamente presente nel piatto, servito con quel pezzo di carne che gli si lascia attaccato. Eccoci alla vexata questio: la costoletta è nata sui Navigli o sul bel Danubio blu? Milanese o viennese? Costoletta o Wienerschnitzel? Ricordiamo, innanzitutto, che la milanese ha nei lombi il Dna di quei lombulos cum panitio serviti nel 1134. Indirizziamo, poi, chi è convinto che a insegnarci la ricetta siano stati gli austriaci durante la loro dominazione sul Lombardo-Veneto (1815-1866), alla missiva inviata dal feldmaresciallo Radetzky al conte Attems, aiutante di campo dell'imperatore Francesco Giuseppe. In essa il vecchio comandante militare del Lombardo-Veneto descrive un piatto delizioso gustato a Milano, la costoletta fritta.Marchi ipotizza che milanese e viennese siano nate autonomamente, obbedendo a normali esigenze popolari. A parte impanatura e frittura, sono, in effetti, due cose diverse. La costoletta meneghina è ricavata dalla lombata di vitello, quella viennese dalla coscia o, in certe zone, dalla lonza del maiale. La prima ha l'osso, la seconda no. La Wiener viene avvoltolata nella farina e fritta nello strutto, come suggeriva Scappi. Se la Wienerschnitzel non può vantare la primogenitura nei confronti della costoletta milanese, può però gloriarsi di aver suscitato l'entusiasmo di Johann Strauss figlio. Il musicista che ha fatto danzare generazioni di ballerini sulle note del celebre valzer Sul bel Danubio blu, inneggiò alla bistecca viennese con un ballo molto popolare, la polka. Il titolo? Cotolekt-polka. Un po' di movimento per digerire il fritto fa sempre bene.
La transizione energetica non è più un concetto astratto, ma una realtà che interroga aziende, governi e cittadini. Se ne è discusso al primo panel dell’evento de La Verità al Gallia di Milano, dedicato a «Opportunità, sviluppo e innovazione del settore energetico. Hub Italia», con il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, la direttrice Ingegneria e realizzazione di Progetti di Terna Maria Rosaria Guarniere e la responsabile ESG Stakeholders & Just Transition di Enel Maria Cristina Papetti.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Giuseppe Cruciani (Ansa)
Il giornalista: «In tv l’intellighenzia progressista mostrifica la vittima. Bisognerebbe scendere in piazza in difesa del libero pensiero: vedremmo chi davvero vuole il dialogo».
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
Cresce la tensione tra Etiopia ed Egitto. Il governo di Addis Abeba ha recentemente inaugurato la più grande diga idroelettrica dell’Africa: una mossa che ha notevolmente irritato Il Cairo.