2022-07-03
Invece a Milano fanno danni: Sala riconosce i «figli» dei «genitori» omo
Solito copione per il Pride di Milano tra (finta) felicità esibita e strumentalizzazioni. Il sindaco arcobaleno prende a schiaffi tribunali e parlamento: non potevo aspettare.Khaled è sconvolto. La risorsa africana arrivata a Milano dopo lo sbarco a Lampedusa e il viaggio in treno sbuca da una via secondaria e si ritrova in piazza Repubblica, dove prende forma il circo ambulante del Gay pride. Colorato, smutandato, provocatorio, alternativo per la felicità del sindaco Giuseppe Sala, dell’europarlamentare Pierfrancesco Majorino, del deputato Emanuele Fiano che da anni sponsorizzano il carrozzone della felicità transgender. E che dipingendo con i colori dell’arcobaleno la fermata della metro a Porta Venezia pensano di aver avvicinato la metropoli a San Francisco. Khaled è sconvolto perché non sa chi sia e cosa rappresenti tutta quella gente. In Senegal, Paese sobrio, civile e con problemi lievemente più stringenti, non aveva mai visto niente di simile. «È la festa della città?», «È un corteo per l’estate?», chiede perplesso davanti ai falli finti e alle drag queen tremolanti sui tacchi. Il cronista ha l’unica risposta possibile: «È la sfilata della comunità gay». Qualcuno lo invita: «Offrono anche la birra». Non afferrando il privilegio d’essere al centro di una manifestazione per i diritti universali (sciccheria californian-europea) e non cogliendo - tapino - il surplus di inclusione e resilienza, lui fa la smorfia di chi ha inghiottito un limone intero e risvolta l’angolo. Torna nella penombra sociale scuotendo il capo e comincia a capire, non senza preoccupazione mista a stupore, i nuovi valori dell’Occidente. Il Gay pride di Milano somiglia a tutti gli altri visti in questo mese e sembra l’ultima puntata di una noiosa serie Tv; il modernariato è identico, la tristezza che fa capolino dentro la gioia esibita è solo stemperata dall’afa e dalla musica assordante. Gli organizzatori parlano di 300.000 partecipanti, ma in questi casi gli zeri contano zero. I problemi del mondo omosessuale sono reali e attendono d’essere affrontati con interventi più seri, approfonditi, rispettosi del pasticciato ddl Zan che voleva solo togliere voce al dissenso. Ma quei problemi si sciolgono, si annullano, vengono azzerati dalla solita esibizione teatrale e politica della sinistra dem (Pd, Cgil più variopinte associazioni), che strumentalizza la moltitudine in cammino nel carnevale fuori stagione. Qui contano solo l’esteriorità e la caricatura, anche quella della pace con la sovrapposizione cervellotica delle bandiere arcobaleno a quelle ucraine e a quelle della Nato. A Kiev, vedendo le immagini, si chiederanno che diavolo di alleati hanno. Fedez l’aveva annunciato: «Il Gay pride è come la Pasqua». E ancora una volta, a differenza dell’ambasciata italiana a Washington che ha voluto esporre la bandiera arcobaleno, la Regione Lombardia non se l’è sentita di dare il patrocinio al carro di Tespi con i tanga in libera uscita. La blasfemia sottintesa e qualche volta esibita (Gesù gay, la Madonna prostituta, messaggi di depravazione di Stato) hanno tenuto alla larga l’istituzione regionale, che ha comunque previsto di illuminare Palazzo Pirelli a sostegno dei diritti, distinguendo le problematiche sociali di un mondo che chiede riconoscimento e rispetto dallo sguaiato luna park progressista. La posizione del centrodestra è articolata, quella della Lega è espressa dall’assessore regionale Stefano Bolognini: «Ogni anno il Gay pride è una manifestazione politicizzata di una sola, minoritaria parte della comunità omosessuale. Una parte che tollera la ridicolizzazione dei simboli religiosi. La parte che ha cercato introdurre nel nostro sistema un grave reato d’opinione con il ddl Zan, che promuove l’aberrante pratica dell’utero in affitto, che disconosce il valore della famiglia e della maternità. Patrocinare il Gay pride avrebbe significato avallare tutto questo». Per eccitare la folla Lgbtq, il sindaco Sala (immortalato sui giornali con le mitiche calze arcobaleno) ha deciso di riservare al mondo gay una sorpresa dal palco all’Arco della Pace. «Da ieri abbiamo riattivato il riconoscimento dei figli nati in Italia da coppie omogenitoriali. Con grande gioia ho firmato il documento nel mio ufficio». È la classica forzatura di facciata, il Comune aveva da tempo riconosciuto i figli delle coppie gay, ma era stato bloccato dal tribunale e dalla «vacatio legis». È curioso che un rappresentante delle istituzioni non avverta il minimo freno nel prendere a calci altre istituzioni: «Avevamo avuto sentenze avverse e il parlamento doveva legiferare. Ho aspettato che lo facesse ma non si sono mossi e dovevo fare la mia parte». Il vicerè della Martesana fa il trasgressore, ma senza ananas in testa. Sul ddl Zan, Fiano ha rilanciato l’ormai frusta battaglia piddina: «Bisogna approvare il disegno di legge perché i membri della comunità vengano protetti dalla violenza omofoba e omotransfobica. Perché questo è lo Stato dell’arte nel nostro Paese. Questa è la festa di chi vuol essere quello che è». Difficile convincere il clandestino Khaled, che tra l’altro è scomparso. La festa sudata continua mentre a Montalcino (noblesse oblige) va in scena l’appendice vip del pride: il matrimonio fra la cantante Paola Turci e la miracolata (da Silvio Berlusconi) Francesca Pascale, che prima dell’outing veniva dipinta dall’illuminato mondo progressista come una cortigiana da calippo. Ma adesso è un’icona da santificare.
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