2019-12-22
Nel derby di Netflix tra «I due Papi» va in scena la sfida tra caricature
La pellicola di Fernando Mereilles racconta Benedetto XVI come un teologo ottuso e bigotto che non ha vissuto la vita. L'incontro con il gesuita lo convincerà a lasciare il testimone a un pastore popolare, ma pieno di ombre.Chi si illude di poter assistere a uno scontro tra Titani vestiti di bianco, gustandosi I due Papi di Fernando Mereilles, resterà deluso. Niente pop corn, su Netflix va in scena il derby delle macchiette. Da un lato la caricatura di Joseph Ratzinger, servita ad arte dal veterano Anthony Hopkins, dall'altro il santino stropicciato di Jorge Mario Bergoglio, interpretato da Jonathan Pryce (dotato, non c'è che dire, di una notevole somiglianza con l'attuale Pontefice).I luoghi comuni del film, basato sull'opera teatrale di Anthony McCarten, The Pope, non si contano. Nella pellicola, che alterna abilmente le scene girate nel cuore di San Pietro, nei musei vaticani e nel Palazzo pontificio di Castel Gandolfo alle immagini di repertorio, Benedetto XVI è il «Pastore tedesco» (il copyright è del Manifesto), il «rottweiler di Dio», ottuso, bigotto e un po' rintronato. Vive immerso nel lusso, mangia da solo i tremendi piatti della cucina tedesca accompagnati dall'aranciata e non ride nemmeno alle barzellette perché, ovviamente, non le capisce. Il popolo lo sopporta come può e lo chiama delicatamente «il nazi». D'altra parte ha raggiunto il suo scopo, brigando dalla morte di Giovanni Paolo II per occupare il suo posto, pilotando con maestria il conclave del 2005. Bergoglio in quell'elezione arriva secondo perché non passa il tempo a fare politica ecclesiastica nei corridoi della Santa Sede, ma abita nelle villas miseria di Buenos Aires, «ha l'odore delle pecore» e con loro guarda le partite di calcio e balla il tango. Fin qui niente che si discosti dalla narrazione mainstream. Ma il film ne ha anche per gli ultrà del Papa latinoamericano «che arriva dalla fine del mondo» e per chi crede che nel 2013 la Chiesa sia passata dalle tenebre alle luce. Dietro l'anziano cardinale progressista che fischietta Dancing queen degli Abba mentre entra nella Cappella Sistina per eleggere il successore di Wojtyla, infatti c'è il giovane gesuita (interpretato da Juan Minujin) amico dei militari, che beve il tè con i capi della dittatura che negli anni Settanta insanguinò l'Argentina, abbandonando alla tortura i suoi fratelli. Per il regista, che gioca in maniera spregiudicata e in equilibrio precario tra storia e dicerie, sono gli scheletri nell'armadio del cardinale tifoso del San Lorenzo a cambiarlo nel profondo, nel carattere e nelle convinzioni più profonde. Portandolo dalle certezze granitiche dell'ortodossia a una concezione più aperta e liberale: una conversione insomma resa possibile dal senso di colpa («Non eri diverso da me». «No, ma sono cambiato», si dicono i duellanti nel loro scontro più acceso). L'artificio narrativo con cui Mereilles fa incontrare i due prima della grande rinuncia di Benedetto XVI è piuttosto banale: Ratzinger invita Bergoglio a Castel Gandolfo, perché quest'ultimo vuole abbandonare la porpora per tornare a fare il parroco di strada. Ma dall'incontro-scontro tra due visioni opposte della Chiesa si fa strada lentamente un'amicizia. E nella testa di Ratzinger nasce una pazza idea: lasciare la barca di Pietro nelle mani di chi ha successo con la gente comune. È proprio nei dialoghi tra i due uomini di fede che il film risulta più caricaturale. Quando il teologo tedesco con lo smartwatch al polso si confessa dal pastore argentino che veste le stesse scarpe da 20 anni si pente di non aver vissuto («Da bambino ti ho deluso Signore perché non ho avuto il coraggio di assaporare la vita. E mi sono nascosto dentro i libri e lo studio»), ma soprattutto si libera del peso che lo tormenta: non aver lottato a dovere per sanare la ferita della pedofilia nella Chiesa. Un colpo basso, perché fu proprio Ratzinger ad applicare la tolleranza zero in Vaticano nei confronti dei preti responsabili di abusi, firmando la De delictis gravioribus come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e poi da Papa spretando 400 sacerdoti, solo tra il 2011 e il 2012. Come tra l'altro gli riconoscono anche i più acerrimi nemici. Se il reale intento dello sceneggiatore, Anthony McCarten, era quello di trovare una «via di mezzo» tra conservatori e progressisti, visto che al momento scorre «rabbia e vetriolo», il risultato finale è sconfortante. I ponti costruiti sulla banalizzazione delle differenze e dei punti di contatto sono destinati a franare, anche se si parla di teologi. «Avere una fede chiara, secondo il credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni», disse il vero Joseph Ratzinger prima di essere eletto Papa. Se nel film parlasse così, la risposta di papa Francesco sarebbe anche interessante da ascoltare.
«Murdaugh: Morte in famiglia» (Disney+)
In Murdaugh: Morte in famiglia, Patricia Arquette guida il racconto di una saga reale di potere e tragedia. La serie Disney+ ricostruisce il crollo della famiglia che per generazioni ha dominato la giustizia nel Sud Carolina, fino all’omicidio e al processo mediatico.