2021-02-24
Negli Usa più contagi con le scuole chiuse
Per l'Agenzia di Salute americana la didattica a distanza e le chiusure rallentano il patogeno, tuttavia una ricerca rivela l'abbaglio. Tra dicembre e febbraio la maggioranza dei casi e dei decessi si è registrata dove gli studenti non restano nei campus, ma in casaChiudere tutto e imporre alla popolazione restrizioni di vario tipo rappresenta senza dubbio la soluzione più gettonata fin dall'inizio della pandemia. Tra i dilemmi più grossi, quello relativo alla riapertura o meno delle scuole e delle università. Un dibattito che infiamma non solo l'Europa, ma anche gli Stati Uniti. Secondo il monitoraggio svolto da Education Week, autorevole organizzazione che fornisce dati sulla scuola americana, solo 4 Stati su 52 (compresi il Distretto di Columbia e Porto Rico) hanno disposto la riapertura degli istituti, 5 hanno chiuso parzialmente, e 41 lasciano libertà alle singole realtà locali. Vista l'importanza del tema, il parere espresso da parte del Centro di controllo e prevenzione delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti, l'agenzia federale che si occupa di proteggere la salute e la sicurezza pubblica, non poteva di certo passare in sordina. «Le contee nelle quali le università hanno svolto lezione in presenza hanno fatto registrare un incremento dell'incidenza dei casi di coronavirus del 56%», recita uno studio che prende in esame l'andamento dei contagi da luglio a settembre del 2020 pubblicato l'8 gennaio scorso dal Cdc, mentre «l'incidenza è diminuita nelle contee non universitarie (-5,9%) e nelle contee nelle quali le lezioni si sono svolte a distanza (-17,9%)». Soluzione? «L'ulteriore implementazione di efficaci misure di mitigazione nei college potrebbe ridurre al minimo la trasmissione di Covid-19 e ridurre l'incidenza a livello di contea». Un chiaro endorsement nei confronti della didattica a distanza, e più in generale di un approccio a favore delle chiusure e della limitazione dei contatti.Una ricetta che tuttavia, numeri alla mano, spesso non restituisce i risultati sperati. Chi lavora i dati, infatti, sa bene che correlazione e casualità non sempre si muovono sullo stesso binario: anche se due variabili sembrano essere legate, non è detto che una rappresenti la causa dell'altra. Tradotto, bisogna prestare grande attenzione a come si combinano le informazioni, diversamente si rischia di prendere delle grosse cantonate. Regola ancora più valida quando si parla di coronavirus, dal momento che sul patogeno e la malattia da esso causata rimane ancora tantissimo da scoprire. E infatti le conclusioni del Cdc non hanno convinto Youyang Gu, giovane data scientist indipendente autore della piattaforma online covid19-projections.com, utilizzata da diversi media nazionali per il tracciamento della pandemia. I modelli sviluppati dallo scienziato laureato al Massachusetts institute of technology si sono rivelati particolarmente precisi, al punto da essere citati dallo stesso Cdc per informare sull'andamento dei contagi e dei decessi. Lunedì, Gu ha pubblicato un thread - cioè una serie concatenata di tweet - nei quali evidenzia come nell'ondata successiva di contagi, quella verificatasi tra dicembre e febbraio, la maggiore incidenza di casi si sia verificata nelle contee nelle quali le lezioni erano tenute da remoto. «Contrariamente a quanto si potrebbe credere», ha twittato Gu, «le lezioni a distanza non hanno contribuito a far diminuire l'incidenza a livello di contea nel corso dell'ondata autunnale, paragonata con la didattica in presenza». Stesso discorso per i decessi, minori nelle zone con gli studenti nei campus rispetto a quelle nei quali gli alunni frequentavano i corsi al computer da casa propria. Secondo Gu non si tratta del primo abbaglio preso dall'agenzia americana: «Quanto descritto oggi è simile allo studio del Cdc sull'obbligo di utilizzo delle mascherine». Una ricerca pubblicata lo scorso novembre era arrivato alla conclusione che «la decisione di introdurre l'obbligo delle mascherine sembra aver contribuito a mitigare la diffusione del Covid nelle contee che hanno fatto questa scelta». Lo studioso osservava in quel caso che non solo entrambe le tipologie di contee avevano subito un incremento dei casi, ma per logica quelle contee nelle quali i contagi salivano di più erano anche più propense a introdurre l'obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione. «Spero che si possa essere più prudenti sulla confusione tra correlazione e causalità», scriveva allora Gu. Più o meno la stessa critica che rivolge oggi all'ente di controllo americano: «Le correlazioni a breve termine non portano necessariamente a relazioni causali nel lungo termine». Da vero scienziato, Gu si oppone all'utilizzo strumentale dei dati, spiegando che «non dovrebbero essere usati per impostare o influenzare le politiche, specie in un campo di fondamentale importanza come quello dell'educazione».Una posizione ben lontana sia dal negazionismo che dal «forza lockdown» ideologico, come quello al quale stiamo assistendo nel nostro Paese. La posizione più saggia sembra quella portata avanti dal direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, il quale dice no «all'utilizzo delle varianti come clava politica», e sì alla scienza «libera da interessi economici e politici».
Crollano le forniture di rame, mercato in deficit. Trump annuncia: l’India non comprerà più petrolio russo. Bruxelles mette i dazi sull’acciaio, Bruegel frena. Cina e India litigano per l’acqua del Tibet.
Elly Schlein (Imagoeconomica)