2018-07-30
Neanche un prete per chiacchierare. Ma 9 italiani su 10 vogliono don Camillo
Sacerdoti con venti parrocchie e con quadrupli incarichi. In futuro ne avremo uno ogni dieci comunità. È l'effetto della crisi delle vocazioni. Ma ci sono segnali in controtendenza nelle fraternità «all'antica».«Giocavo a volley ed ero fidanzata, ma mi mancava qualcosa Il mio unico cruccio? Non riabbraccio mia madre da 17 anni».Lo speciale contiene due articoli«Ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar...», cantava Celentano una vita fa senza rendersi conto che esagerava. Sì, perché quando uscì Azzurro, nel maggio del 1968, i preti ancora c'erano: è oggi che sono spariti. In gran parte a causa del vertiginoso calo delle vocazioni di cui diremo, in parte anche per altri fattori, tipo un abbandono della talare e ultimamente pure del clergyman che ha reso il clero rimasto mimetizzato, quasi invisibile. Sui preti ancora vestiti da prete però non esistono statistiche: meglio così, dato che a sconsolare basta e avanza la situazione complessiva che vede sempre meno sacerdoti sempre più oberati. Giusto un anno fa, per dire, in Trentino veniva ufficializzata l'assegnazione a don Maurizio Toldo, classe 1973, di ben 19 parrocchie. Probabilmente un record, anche se nel Belpaese i sacerdoti chiamati a guidare fino a 15 comunità, con messe «non garantite» causa mancanza del dono dell'ubiquità, iniziano a non fare più notizia. Emblematico, in proposito, il caso della diocesi di Torino che già tempo addietro, a fronte di 355 parrocchie sparpagliate in 158 comuni, si è accorta di poter contare su 260 sacerdoti. Il che si è tradotto in 46 doppi incarichi, 14 tripli e 3 quadrupli. La stagione del prete sotto casa, avvertono sociologi come Franco Garelli, è insomma tramontata: in futuro, saranno uno ogni dieci comunità. Insieme a loro, intanto, stanno sparendo pure le parrocchie: tra il 2012 e il 2016, nel nostro Paese, è stata tolta personalità giuridica a 55 di esse, quasi una al mese. Ciò nonostante, il primo problema rimane la carenza di sacerdoti: su 224 diocesi italiane, le parrocchie sono 25.610 e i parroci solo 16.905. Significa che all'appello mancano suppergiù 9.000 preti, emorragia che neppure le vocazioni adulte ed estere stanno arrestando. Altro che «neanche un prete per chiacchierar»: ne manca uno, ormai, pure con cui pregar.Il punto è che neppure l'Annuario pontificio 2018 e l'Annuarium Statisticum Ecclesiae 2016, da poco distribuiti nelle librerie, tracciano uno scenario migliore. Tutt'altro. A livello globale viene infatti segnalato come le vocazioni sacerdotali, in linea con la flessione già riscontrata anni addietro, si siano ulteriormente ridotte, coi 116.843 seminaristi maggiori del 2015 che, un anno dopo, sono risultati 116.160. Quasi 700 in meno quindi, calo guidato dall'America meridionale con appena 5,13 seminaristi ogni 100.000 cattolici. Pur malconcia, l'Italia rispecchia quindi un trend globale. Già, ma come si è arrivati a questo? Quand'è iniziata la cupa stagione attuale?In realtà già nei mitici anni Cinquanta, se si pensa che in Italia tra il 1941 e il 1950 ci furono 11.925 ordinazioni del clero diocesano poi scese, tra il 1951 e il 1960, a 8.265. L'inverno della fede vero e proprio però, anche se non è politicamente corretto dirlo, scoppiò negli anni successivi al Concilio vaticano II. Tra il 1964 e il 1974 si stima infatti siano stati 40.000 i sacerdoti che hanno abbandonato la loro vocazione. Un numero che lievita a 70.000, se si estendono le rilevazioni al 2004, anche se uno su sette pare ci abbia poi ripensato negli anni a seguire, riprendendo il ministero religioso. Per quanto riguarda le vocazioni, c'è da dire che se in Italia nel 1970 i seminaristi erano complessivamente 6.337, vent'anni dopo erano scesi a 3.588, e nel 2010 sono risultati 2.940: più che dimezzati.Una flessione netta di cui i primi testimoni sono i seminari, che oggi tendono a somigliarsi un po' tutti presentandosi come palazzoni dagli sterminati cortili: a volte semidiroccati, altre restaurati, ma quasi sempre vuoti, chiusi o destinati ad altro. Come quello degli scalabriniani di Bassano del Grappa, Vicenza, così chiamato dal fondatore, il beato Giovanni Battista Scalabrini, che una decina di anni fa, dopo sette decenni, è stato chiuso: oggi è un centro missionario nei cui corridoi è però ancora possibile ammirare foto in bianco e nero di centinaia di giovani seminaristi, tutti assiepati davanti al fotografo. Una cosa che stringe il cuore. Pure a Venegono, il prestigioso seminario ambrosiano che entusiasmò il giovane Giacomo Biffi («c'era di che restare incantati»), l'andazzo è quello: un tempo felicemente affollato, ora conta i reduci.Ma cos'ha portato, ci si chiedeva poc'anzi, a tutto questo? Per cominciare, c'è da dire che il calo delle vocazioni non è qualcosa di isolato, ma un fenomeno che riflette la più generale secolarizzazione della società, che ha colpito anche le vocazioni matrimoniali come dimostra il fatto che i matrimoni religiosi sono passati dal 386.589 del 1970 agli appena 138.199 del 2010. I seminari vuoti e svuotati, però, sono simbolo anche, anzi soprattutto d'altro: della perdita di fede.Lo attesta una pioneristica ricerca francese del 1962 a cura di Fernand Boulard che, analizzando 455 casi di abbandono del sacerdozio tra il 1905 e il 1960, ha visto come la gran parte di essi riguardasse uomini di poca fede, che in fondo non ci credevano. Analogamente, un più esteso lavoro di Emilio Colagiovanni su 8.287 abbandoni di sacerdoti diocesani e religiosi ha rilevato come le percentuali di quanti domandarono la dispensa per «perdita di fede» tra il 1964 e il 1969 sia cresciuta di oltre otto volte. Il problema è che, nonostante simili evidenze, si seguita spesso a imputare crisi delle vocazioni ad altro, come il presunto ritardo dottrinale di una Chiesa restia a mettersi «al passo coi tempi». Alla perdita della fede, come se non bastasse, si somma così quella del raziocinio.Tutto finito, allora, per i preti italiani? Fortunatamente no. Anche nella notte delle vocazioni di questi anni alcune luci brillano. Si tratta però dei sacerdoti che non t'aspetteresti: quelli all'antica, dell'Istituto del Verbo Incarnato, dei francescani dell'Immacolata e dell'Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, di origine francese ma ultimamente arricchito da varie vocazioni italiane. Degna di nota, in quel di Ferrara, è poi la Fraternità sacerdotale della Familia Christi, il cui riconoscimento canonico risale al giugno 2014, che può già contare su sei sacerdoti giovani, età media 35 anni, e su sette seminaristi, tutti usi a vestire l'abito talare, i quali alla messa domenicale in latino oggi attirano una cinquantina di fedeli: non così pochi e comunque più del triplo di un anno fa, con peraltro diversi ragazzi.Altro esempio emblematico è quello di don Luigi Maria Epicoco, classe 1980, sacerdote scrittore spesso in clergyman e talvolta in talare, che su Facebook conta oltre 40.000 follower, e i cui post sul Vangelo totalizzano migliaia di «mi piace» e centinaia di condivisioni; per non parlare delle sue conferenze, sempre affollatissime. L'abito ecclesiastico è abitudine anche di padre Maurizio Botta, sacerdote prefetto dell'oratorio di san Filippo Neri, il quale a Roma, con i pellegrinaggi notturni alle Sette Chiese, arriva a coinvolgere qualcosa come 900 persone, gran parte giovani. Che la popolarità di questi preti all'antica non sia causale lo conferma don Massimo Vacchetti, altro sacerdote spesso in talare, che nella sua tesi di licenza in teologia ha riportato gli esiti di una ricerca compiuta in uno studio di Scienze religiose: alla domanda «Le piacerebbe avere in parrocchia un prete come don Camillo?», il 90% ha risposto «sì». Come mai? Forse perché il personaggio di Giovannino Guareschi parla con Cristo ma anche di Cristo, e di salvezza delle anime prima che di salvataggi, di fede prima che di filantropia: perciò affascinava ed affascina. Come i sacerdoti controcorrente di oggi i quali, cresciuti a pane e Ratzinger o pane e Chesterton, sfidano la cultura dominante. Non abbiamo più tutti i preti di un tempo, insomma, però ci sono rimasti i preti di una volta, i soli che si ancora si soffermano sulle verità eterne anziché sui soliti, tiepidi consigli morali. Per questo, anche se sembrano venire dal passato, sono il futuro. Giuliano Guzzo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/neanche-un-prete-per-chiacchierare-ma-9-italiani-su-10-vogliono-don-camillo-2590673386.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cosi-io-a-27-anni-sono-diventata-suora-di-clausura" data-post-id="2590673386" data-published-at="1760488637" data-use-pagination="False"> «Così io, a 27 anni, sono diventata suora di clausura» Il 16 luglio si è svolto un evento importante nella piccola chiesa del monastero delle carmelitane scalze di Vicenza, dove vive suor Caterina, che ho incontrato in quell'occasione. Se non ci siete mai stati, quel luogo merita una tappa. Se non altro per vedere i sorrisi di questa monaca e delle sue 18 consorelle che ogni giorno pregano per noi. Quando arriva in parlatorio sta sorridendo. Ha 44 anni suor Caterina di Gesù, ma ne dimostra dieci in meno perché la sua pelle non è segnata nemmeno da una ruga. Un metro e 74 centimetri. Snella. Sportiva. Prima di entrare in clausura, infatti, giocava a pallavolo, ruolo schiacciatrice. Poi ha abbandonato lo sport. E la carriera medica. Ho potuto intervistarla grazie al permesso straordinario che ci ha concesso la priora. A dividerci, una grata. Suor Caterina di Gesù, come ti chiamavi prima di entrare qui? «Erika». Volevi fare la dottoressa? «Sì, sono entrata in clausura subito dopo essermi laureata. Avevo 27 anni. Anziché specializzarmi in pediatria ho deciso di entrare nella specializzazione spirituale». Avevi mai pensato prima di allora di farti suora? «Ogni volta che nella mia vita dovevo fare delle scelte importanti, mi veniva il dubbio che il Signore mi chiamasse. Ma lo sentivo come un pensiero fastidioso, una mosca che io mandavo via perché dicevo no, non fa per me. Da ragazza frequentavo la chiesa ma non andavo a messa tutte le domeniche». Com'era la tua vita prima di entrare in convento di clausura? «Come quella di tante altre ragazze. Mi divertivo, andavo a ballare, avevo anche un fidanzato, uno studente di ingegneria, più grande di me di sei anni. Siamo stati insieme per circa due anni». Sei stata anche in Africa in quel periodo… «Sì, al secondo triennio di studio ho fatto uno scambio internazionale, tipo Erasmus. Ma in Africa. Là però ho avuto parecchi problemi di salute». Quando hai capito che volevi farti suora? «Durante le feste di Natale. Sentivo che mi mancava qualcosa. Senza il rapporto con Gesù non mi sembrava Natale. Da lì ho iniziato ad avere nostalgia di lui, così sono andata a confessarmi e ho pianto a lungo. Non sapevo cosa mi stesse succedendo. Il parroco mi disse di fare un esercizio e di pensare quando ero stata realmente felice nella mia vita». E che risposta ti sei data? «Ho riflettuto molto. Ricordo che nel giorno dell'Epifania ho aperto il Vangelo e mi sono messa a leggere, da quel giorno è iniziato un vero e proprio corteggiamento. Come due innamorati, io e lui. Man mano che passava il tempo Dio si faceva sempre più strada dentro di me, era un vero e proprio innamoramento. Non riuscivo quasi più a studiare avevo sempre il suo pensiero fisso. Così ho lasciato il mio ragazzo. Lo amavo, fino a quel momento pensavo alla vita matrimoniale con lui, ma dentro sentivo che non potevo renderlo felice perché avevo una sete più grande». Perché hai scelto di diventare proprio una monaca di clausura? «Non è stato facile. Quando ho intuito che Dio mi voleva nella vita contemplativa, c'è stata una vera lotta interiore. Ma come? Io così attiva, io dottoressa, io che mi laureo per aiutare gli altri… Perché, mi dicevo, devo cambiare tutti i miei progetti di vita? Perché devo chiudermi in un convento? Poi mi sono arresa…». I tuoi genitori come hanno preso questa scelta? «La mia è una famiglia è religiosa, mia madre insegnante e mio padre commerciante, ma quando ho cercato di spiegare loro quello che mi stava capitando, non se lo aspettavano. È stata una doccia fredda. Il più restio era mio fratello, che è un po' più giovane di me. Mi disse che se io fossi entrata in convento lui non sarebbe mai venuto a trovarmi. Ha fatto di tutto per convincermi a non farlo, mi ricattava affettivamente. Poi, alla fine, ha capito pure lui». Ora ti viene a trovare? «Sì, spesso. Alla domenica». Qual è stato il momento più difficile? «Il giorno in cui sono entrata in monastero abbiamo fatto una cerimonia in chiesa e poi siamo venuti in processione davanti alla porta dove possono entrare solo le postulanti. Quando mi sono girata ho visto mia mamma che piangeva abbracciata alla priora e, vedendola così, veniva da piangere pure a me». Noi ci stiamo parlando da una grata, ma quando tua mamma ti viene a trovare hai l'opportunità di abbracciarla? «Le tengo le mani ma non posso abbracciarla. L'ultima volta l'ho fatto durante la messa, il giorno della professione». Sono diciassette anni fa… «Sì, nel 2001». Diciassette anni senza abbracciare la mamma. «Lo rifarò quando ci sarà il 25esimo anniversario delle mia professione, se ci sarà ancora…». Ti è mai venuta la nostalgia delle cose che ti piaceva fare fuori? «No, perché entrare qui era il mio desiderio e quello del Signore. È vero, però, che amavo molto nuotare, andare in montagna, specialmente in notturna con il mio gruppo di amici. Figurati che i primi tempi che ero qui, mi mettevo a correre nel giardino del monastero. Con la veste, però, non era molto semplice». E ora corri ancora? «No, non lo faccio più. Non ne ho più bisogno. All'inizio però tutto è difficile è quasi un trauma. Anche il silenzio durante la giornata». È difficile abituarsi al silenzio? «Sì, anche per le cose normali. Per esempio, appena arrivata mi chiedevo se andasse bene quello che facevo e nessuno mi diceva nulla. Poi nessuna delle altre suore mi chiedeva: “Come stai?" oppure “hai dormito bene?". All'inizio mi sembrava tutto così strano». Sorride spesso suor Caterina di Gesù, ha una voce limpida, suadente ma soprattutto serena. Devo ringraziarla perché ha sopportato le mie domande per due ore. Alcune mi sono parse subito sciocche, appena uscite dalla mia bocca. Come quando mi viene la curiosità di sapere se c'è un giorno in cui può dormire di più. Ma anche la domenica devi alzarti alle 5.30 del mattino? «No, alla domenica possiamo dormire di più». E quando vi svegliate? «Alle 5.45. Un quarto d'ora in più». Ilaria Dalle Palle
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In Murdaugh: Morte in famiglia, Patricia Arquette guida il racconto di una saga reale di potere e tragedia. La serie Disney+ ricostruisce il crollo della famiglia che per generazioni ha dominato la giustizia nel Sud Carolina, fino all’omicidio e al processo mediatico.