Eppur si muove. L’Europa che, per anni, ha creduto di poter affrontare il problema dell’immigrazione scaricandolo sugli Stati mediterranei, finalmente ha fatto qualche passo avanti. Prima, il via libera al Patto sull’asilo, che entrerà in vigore a giugno 2026. Ieri, il cdm avrebbe dovuto approvare il disegno di legge per attuarlo, però la discussione è slittata. Intanto, la commissione Libertà civili (Libe) del Parlamento Ue ha votato la revisione dell’elenco dei Paesi sicuri. Obiettivo: velocizzare i respingimenti. Se la plenaria di Strasburgo confermerà l’orientamento emerso mercoledì, potranno partire i negoziati con il Consiglio, per rendere operative le nuove norme. Che potrebbero persino anticipare il regolamento sulle migrazioni, riformato nel 2024. È stata l’ennesima scomposizione della maggioranza Ursula, la grande coalizione tra popolari e socialisti che sostiene la Commissione, a permettere la svolta. Per l’intesa, con 40 suffragi a favore e 32 contrari, si sono alleati Ppe e conservatori.
Cosa potrebbe cambiare? Innanzitutto, è stato stilato un elenco di nazioni che l’Unione europea non considera pericolose e nelle quali, dunque, sarebbe lecito rispedire i migranti. Oltre ai candidati all’ingresso nell’Ue, ci sono Kosovo, India, Colombia, Marocco, Tunisia, Egitto e Bangladesh. Diventerebbero leciti l’esame e anche il diniego rapido delle richieste d’asilo, formulate pure da persone provenienti da Paesi non presenti nella lista, che però abbiano legami familiari o linguistici con gli Stati sicuri, o che siano transitate di lì e che, lì, avrebbero potuto presentare domanda di accoglienza.
In pratica, diventerebbe più semplice rimandare indietro i subsahariani che, per sbarcare sulle nostre coste, a Malta o in Spagna, si imbarcano in Tunisia o in Marocco; rimane fuori la Libia, sempre sull’orlo di un’ennesima guerra civile. Stesso discorso varrebbe per siriani o afgani che, per arrivare in Germania, tentano la traversata dell’Egeo e seguono la rotta balcanica. Il fine ultimo è realizzare i «return hub» di cui hanno parlato sia Ursula von der Leyen, sia il commissario agli Affari interni, Magnus Brunner. Sul piano giuridico, sarebbero strutture differenti rispetto a quelle realizzate dal governo Meloni in Albania. Il polo di smistamento di Shengjin e i centri costruiti a Gjadër sono delle specie di enclave italiane al di là dell’Adriatico, frutto di un protocollo con Triana, ma sottoposte alla nostra giurisdizione. L’Ue sembra piuttosto orientata a esternalizzare la gestione delle richieste d’asilo. Il che, tra l’altro, le risparmierebbe la fatica di stipulare dei trattati con la miriade degli Stati di partenza. Non sempre retti da autorità affidabili.
Tuttavia, si potrebbe sbrogliare anche la matassa dei rimpatri da Gjadër e dai Cpr dello Stivale. Nella fase di massimo scontro con l’esecutivo, le nostre toghe annullavano i trattenimenti, sindacando la lista dei Paesi sicuri che il governo, inizialmente, aveva inserito in un decreto interministeriale e, poi, in un vero e proprio decreto legge. Ora sarebbe l’Europa stessa a stabilire quali siano le nazioni sicure. E nell’elenco figurano Bangladesh ed Egitto, dai quali arrivavano quasi tutti i migranti destinati al centro balcanico.
Com’è ovvio, i deputati Ue non si sono mossi a casaccio; si sono basati sulle valutazioni dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa). Nel documento approvato l’altro ieri, del Bangladesh si dice, ad esempio, che «non vi sono indicazioni di espulsioni, allontanamenti o estradizione di cittadini verso Paesi nei quali ci sia rischio di pena di morte, tortura, persecuzione, oppure trattamento inumano o degradante. In generale, non c’è rischio di subire mali gravi». Il Bangladesh non sarà evoluto come la Norvegia, però è «una Repubblica parlamentare governata da una Costituzione, che prescrive la separazione dei poteri». E benché preveda la pena capitale, le esecuzioni avvengono «di rado». Simili le osservazioni sull’Egitto: «Non c’è alcun conflitto armato in atto» né alcuna «minaccia di violenze indiscriminate». Il governo di Abdel Fattah al-Sisi ha manifestato la disponibilità a limitare la detenzione preventiva, a migliorare le condizioni carcerarie, a ridurre i reati punibili con la morte e «ad accrescere la cultura dei diritti umani nelle istituzioni».
È l’esatto opposto di quanto hanno più volte affermato i nostri tribunali. Solo che, con i loro criteri, nemmeno l’Italia sarebbe sicura. In virtù di una sentenza della Corte di giustizia Ue, i magistrati conservano la facoltà di esaminare caso per caso i ricorsi degli immigrati e di contestare le classificazioni dei Paesi d’origine. Ma l’intervento di Bruxelles restringerebbe i loro margini di discrezionalità. È il primato del diritto europeo, bellezza.


