2024-12-27
Natale nelle trincee ucraine. «Abbiamo invaso il Kursk ma ci uccidono a casa nostra»
Borsch, ravioli e niente alcol. Le tragiche festività nel sottosuolo dei soldati di Kiev bersagliati dai droni: «I comandanti sono degli inetti e la corruzione dilaga». da ToreskIl rosso e il nero sono i colori della bandiera dei soldati ucraini. Rosso come il sangue che scorre sul fronte del Donetsk; nero come l’umore, le speranze infrante, il buio che cala già dalle 16.15, avvolgendo tutto in un’oscurità gelida.Il nostro ritorno a Kiev è segnato dall’incontro con un vecchio contatto, che fa parte del direttivo di una brigata in prima linea vicino a Pokrovsk. Lo intercettiamo appena uscito dagli uffici del ministero della Difesa, dove ogni mese si reca dal fronte per consegnare documenti fondamentali alla complessa e spesso inceppata macchina burocratica militare. Il racconto di Victor (un nome di fantasia che usa per proteggersi) è un misto di rassegnazione e rabbia: «Stanno facendo un gran casino. La situazione è assurda e non capisco come potrà andare avanti così». Da mesi, moltissime brigate lamentano problemi di comunicazione tra i ranghi sul fronte e i burocrati della capitale. Non ci sono abbastanza volontari e i giovani si nascondono, spaventati o disillusi. La distanza tra chi combatte e chi comanda è sempre più grande. Victor parla senza prendere fiato: «Molti comandanti sono stati mandati a gestire battaglioni d’assalto privi di qualsiasi esperienza sul campo. Hanno nel loro bagaglio solo studi militari, quel tanto che basta per ottenere un grado superiore e tenersi lontani dalla trincea. Una volta, i nostri comandanti combattevano fianco a fianco con i soldati. Adesso, tutto è confuso: le brigate cambiano struttura e posizione di continuo, e nessuno capisce più chi risponda a chi».La corruzione, ci dice, non è scomparsa. Anzi, sembra essere cresciuta: «Il business delle armi ha creato un esercito di bastardi che pensano solo ad arricchirsi invece che a difendere il Paese». Victor impreca tra i denti: «Stiamo perdendo il Donbass, chilometro dopo chilometro, uomo dopo uomo, posizione dopo posizione. Per cosa? A che cosa è servito invadere il Kursk? Secondo le mie informazioni, siamo pronti a lasciarlo. È stata un’operazione politica e mediatica che non ha fatto altro che togliere risorse dal Donbass e dalla regione di Kharkiv, la vera città da difendere. E intanto i missili e i droni arrivano comunque. Qual è il senso di allungare un fronte già troppo lungo e sguarnito, invadendo chilometri dentro i confini russi? A meno che non ci siano giacimenti d’oro nascosti là, nessuno ne comprende il motivo». Si ferma e il silenzio che segue è pesante. Poi alza lo sguardo. Ha gli occhi lucidi e il volto scavato dalla stanchezza: «Questo è il momento più delicato. Se entro due mesi non ci sarà un cambiamento radicale, potrebbe succedere di tutto. E mi riferisco al futuro del nostro Paese».Con queste parole che ci rimbombano nelle orecchie, ci avviciniamo al fronte. La vigilia di Natale facciamo tappa in un quartier generale allestito in una villetta ancora intatta, ai margini di un villaggio a soli dieci chilometri dalle prime linee. Qui, i soldati comandati dal carismatico comandante «Viking» si godono un raro momento di riposo. Il menù del cenone è semplice, ma simbolico: borsch (la zuppa nazionale), vareniki (ravioli tradizionali) e una selezione di dolci, compresi dei cioccolatini a forma di Babbo Natale. Di alcol, però, neanche una goccia: ogni momento potrebbe trasformarsi in un’emergenza e una squadra di evacuazione deve essere sempre pronta a entrare in azione. Nella sala ci sono anche i nuovi arrivati, soldati inesperti chiamati a rimpiazzare le perdite dell’ultima settimana. Sotto l’albero di Natale c’è qualche pacchetto arrivato per posta: sono i regali dei parenti, le scatole con i souvenir che i bambini delle scuole fanno per i soldati. I ragazzi li aprono, scherzano e ridono, poi mostrano in video call il regalo ai parenti che non incontrano da mesi.Le radio continuano a trasmettere senza sosta. Le comunicazioni con le trincee e con il comando centrale si alternano a messaggi dai battaglioni vicini. Queste voci raccontano una realtà crudele, fatta di morti, dispersi, posizioni sul punto di cedere. Dai settori più caldi del fronte arrivano notizie di perdite inimmaginabili. Un comandante, con la voce spezzata, racconta di sette uomini caduti in una sola notte, in una sola postazione. Il 25, appena cala il buio, anche se è Natale, ci dirigiamo verso il fronte di Toresk, a poche centinaia di metri dai russi. Ci spostiamo dentro al cassone di un pick-up, stipato di viveri e munizioni per il mortaio, l’arma che distingue questa postazione dalle altre sparse nella zona.Il viaggio dura circa quaranta minuti, nel buio più totale. L’autista guida con un visore notturno calato sugli occhi, mentre l’antenna Reb, un inibitore di frequenze, emette un segnale che dovrebbe proteggere il mezzo dai droni nemici. Il condizionale è d’obbligo, perché non sempre funziona. Per questo motivo i viaggi verso il fronte si svolgono in un silenzio irreale. All’arrivo ci caliamo dentro a un piccolo rifugio che misura quattro metri per quattro, dove un gatto è l’unico alleato contro l’incessante invasione dei ratti.È una buca scavata nel terreno tra due case semidistrutte. Nove giorni di lavoro incessante, turni di due squadre composte da quattro uomini ciascuna, hanno permesso di realizzare un labirinto sotterraneo fatto di cunicoli e stanze, creato per nascondere i soldati e l’arma strategica, protetta da un pavimento mobile.Qui i turni di servizio durano cinque giorni, almeno in teoria. Spesso, il cambio arriva con grande ritardo. La regola più importante è questa: non si può stare all’aperto. Mai. I bisogni si fanno dentro i secchi o i vasi da notte nelle stanze della casa soprastante, si vive nell’ombra cercando di non lasciare tracce: nessun segno visibile dal cielo, neanche la spazzatura. Tutti i combattimenti avvengono o nei cunicoli o dentro agli edifici. La terra estratta durante gli scavi è stata nascosta nella casa semidistrutta sopra di noi, la stessa che funge anche da toilette. Per ora, ci dicono, i droni russi non hanno individuato questo rifugio. «Come fai a saperlo?» chiediamo. Ivan, nome di battaglia «Magnate», il comandante dell’unità, risponde con un sorriso amaro. «Non ci stanno bombardando».Ma Ivan sa bene che è solo questione di tempo. Il nemico avanza su più fronti e, se le postazioni più avanti dovessero cadere, i cingolati russi potrebbero essere qui in meno di dieci minuti. Sul tavolo della piccola cucina un bollitore con l’acqua per il tè gorgoglia. Intorno ci sono un salame tagliato a fette e un sacchetto di caffè, entrambi italiani, spediti dalla mamma del comandante, una signora che risiede nel nostro Paese.Con Ivan eravamo già stati su un altro fronte, mesi fa. Ma ora tutto è cambiato: della vecchia squadra sono morti in molti. I volti che vediamo oggi sono nuovi, almeno per noi.Anche a Santo Stefano all’improvviso scatta l’allarme. Due soldati si alzano improvvisamente dalle brande e prendono in mano i loro kalashnikov. Pensano di avere sentito passi di soldati russi nel giardino. Per fortuna non è così.All’ora di pranzo, dalla radio, viene richiesto l’intervento del mortaio. In meno di 30 secondi quattro uomini, muovendosi tra i cunicoli, raggiungono il cannone e spostano il tetto scorrevole di lamiera che lo protegge, una copertura mimetizzata dalle sterpaglie.Dal comando vengono inviate le coordinate del bersaglio. I soldati inseriscono il primo colpo. Arriva l’ordine di sparare un secondo proiettile, che viene, immediatamente, caricato nella canna. Si procede con altri colpi, fino a quando il comando annuncia: «Missione compiuta».I soldati richiudono il tetto e tornano a letto a chattare con le fidanzate. Poco dopo, su WhatsApp, arriva un breve filmato: si vedono il cadavere di un militare russo e i suoi commilitoni in fuga. Il commando aveva tentato di attaccare due soldati ucraini nascosti in una casa a un paio di chilometri di distanza.Uccidere un giovane uomo il giorno di Santo Stefano è costato 2.500 euro, 500 euro per ogni colpo esploso. Come un paio di quei telefonini che noi in terra di pace abbiamo trovato sotto l’albero.
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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