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2021-11-17
Nasce il fronte dell’apartheid
Il governatore della Liguria Giovanni Toti e il governatore del Piemonte Alberto Cirio (Ansa)
Se il sonno della ragione genera mostri, quello delle Regioni produce incubi. Contro ogni buon senso, il fronte (bipartisan, da Italia viva, al Pd, ai leghisti) dei favorevoli a restrizioni solo per i non vaccinati, come avviene in Austria, è guidato proprio da alcuni presidenti di Regione. Inclusi molti di quelli di centrodestra. Sembra prendere piede l'idea che relegare chi non è vaccinato in una sorta di riserva indiana possa bloccare la diffusione del Covid: tesi che fa a pugni con un dato di fatto, ovvero che i vaccinati si contagiano e contagiano. Anzi: da un certo punto di vista, far passare il messaggio che i vaccinati possano fare tutto quello che vogliono è pericoloso, in quanto può portare chi si è fatto inoculare le due dosi ad abbassare la guardia. Certo, chi ha completato il ciclo vaccinale ha scarsissime probabilità di essere colpito da una forma grave di Covid, ma nessuno può escludere che possa contagiare una persona fragile, un non vaccinato.
Il tutto, mentre i governatori danno già per scontate ulteriori restrizioni: «Chiederemo al governo come Regioni», dice il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «che le misure restrittive legate alle fasce di colore valgano per le persone che non hanno fatto il vaccino, non per le persone che lo hanno correttamente fatto. Se qualcuno deve essere convinto sono coloro che non si sono vaccinati, le misure che devono essere prese, lo devono essere solo per i non vaccinati», aggiunge Toti, «non certo per chi ha fatto fino in fondo il suo dovere». Toti esterna dopo aver sentito al telefono Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli Venezia Giulia e leader della Conferenza delle regioni, che si riunirà domani per discutere dell'argomento. Il quale Fedriga non ha dubbi sulla necessità di distinguere vaccinati e non vaccinati se si andrà verso nuove zone gialle: «La mia idea è che le restrizioni della zona gialla non valgono per i vaccinati. Chi si è protetto, ha partecipato alla campagna vaccinale, limita le ospedalizzazioni, salvaguarda il sistema di sanità pubblica non può pagare un prezzo di cui non ha nessuna colpa, perché ha creduto nella scienza e nello Stato».
«Se si dovessero rendere necessarie nuove restrizioni», evidenzia da parte sua il presidente della Calabria, Roberto Occhiuto, di Forza Italia, «e il vero gradone è rappresentato a mio avviso dalla cosiddetta zona arancione - queste dovrebbero coinvolgere esclusivamente coloro che non si sono vaccinati. La stragrande maggioranza degli italiani ha dato fiducia alla scienza e con senso di responsabilità nei confronti della comunità si è sottoposta al vaccino. Non sarebbe giusto far pagare a questa maggioranza», aggiunge Occhiuto, «la scelta incomprensibile di una minoranza, In questo senso concordo con il presidente Fedriga e con il presidente Toti». «Chi si è vaccinato», incalza il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, di Forza Italia, «ha dato prova di fiducia nelle istituzioni e io credo che questa fiducia debba essere ripagata sempre, per questo se ci dovessero essere nuove restrizioni queste non potranno essere pagare da coloro che si sono vaccinati perché sarebbe un'ingiustizia e questa fiducia debba essere ripagata sempre». In casa Fi, gli dà manforte la senatrice Licia Ronzulli: «Il governo ascolti le giuste richieste delle Regioni. Non si possono far ricadere su un intero Paese le conseguenze del comportamento irresponsabile di una sparuta minoranza di cui, oltretutto, fanno parte manifestanti no vax e no pass che si assembrano nelle piazze per protestare senza mascherina e senza rispettare il distanziamento, contribuendo così all'aumento dei contagi». Il presidente leghista della Lombardia, Attilio Fontana, paventa il rischio di «tensioni sociali», ma si allinea: «Va valorizzato l'atteggiamento degli oltre 8 milioni di lombardi che hanno con convinzione e senso di responsabilità aderito alla vaccinazione. Non possiamo pensare a restrizioni per questi cittadini, che hanno dimostrato fiducia, consapevolezza e senso del bene comune».
A cavalcare il mantra c'è anche il leader di Italia viva, Matteo Renzi: «Mi piacerebbe», sottolinea a L'Aria che tira, su La7, «che l'Italia adottasse lo stesso modello dell'Austria: in lockdown vada chi non ha fatto il vaccino». Mentre, in casa dem, si fa avanti il presidente toscano, Eugenio Giani: «I contagi stanno risalendo. Ciò impone misure rigorose [...]. Se chi non è vaccinato vuole partecipare alla vita di comunità, deve immunizzarsi. Se non lo fa, approfitta di quello che hanno fatto gli altri. In questo caso credo sia giusto, come qualcuno ha proposto, assumere provvedimenti restrittivi nei confronti dei non vaccinati, per limitarne la mobilità negli spazi pubblici».
Ufficialmente, il governo non raccoglie l'assist. Stefano Patuanelli, ministro grillino dell'Agricoltura, però incalza: «Siamo favorevoli a tutte le misure che ci aiutano ad abbassare i contagi». E Guido Rasi, microbiologo consulente del commissario Francesco Paolo Figliuolo, tuona: «Se i no vax hanno comportamenti che facilitino la circolazione virale, questo deve essere oggetto di una riflessione importante».
Sta tornando l’incubo dei «semafori». Le regole sui colori vanno aggiornate
Con rassegnazione, più che rabbia, gli abitanti del Friuli Venezia Giulia attendono che scatti il giallo per sentirsi nuovamente ammoniti. Forse già da lunedì prossimo il monitoraggio «a semaforo», messo a punto un anno fa dal ministero della Salute durante l'ex governo Conte, definirà la Regione in livello di rischio moderato. A temere l'abbandono della zona bianca sono anche Veneto, Provincia autonoma di Bolzano, Liguria, Valle d'Aosta (in bilico le Marche).
La curva epidemiologica sale ma senza grandi impennate (ieri +162 ricoveri e +6 ingressi in terapia intensiva su tutto il territorio nazionale), eppure la parola d'ordine è accettare maggiori divieti, altrimenti il virus non ci lascia. Una vergognosa bugia, il Covid non se ne andrà, diventerà endemico, ma l'ennesimo inganno sortirà l'effetto di convincere molti a scegliere la via del terzo richiamo, con grande caos per i centri vaccinali ridotti di numero e già in affanno per somministrare l'antinfluenzale, mentre per chi rifiuta il farmaco anti Covid si profilano segregazioni all'austriaca. Nella persona inoculata, «clinicamente la protezione dal contagio diminuisce, dal 95%, dapprima al 70%, poi al 60%, quindi al 50% e infine al 45%, ma rispetto alla malattia grave rimane oltre il 90%», spiegava ieri Giorgio Palù, presidente dell'Aifa, in una diretta della Regione Veneto. Anche i vaccinati contagiano, per questo pensano di ridurre la validità del green pass da dodici a nove mesi, altrimenti la beffa di positivi con tanto di lasciapassare rischia sì di aumentare a oltranza i casi di contagio.
Ma veniamo al nuovo cambio di colorazione. Quando in una Regione l'incidenza di positività settimanale è superiore ai 50 casi ogni 100.000 abitanti, il tasso di occupazione dei posti letto Covid in area non critica (malattie infettive, medicina generale e pneumologia) supera il 15% e quello nelle terapie intensive va oltre il 10%, si accende la luce gialla e ricomincia l'ansia. Con le restrizioni in atto dovute al green pass, in questa fascia di colore non entrano molte nuove regole, a parte l'obbligo di mascherina all'aperto. Per eventi sportivi, teatri, sale, concerti all'aperto il limite della capienza diventa del 50%, al chiuso del 35% e forse si profilano restrizioni in tema di pranzi conviviali nelle prossime festività, tema assai dolente.
Ma sono i parametri, già cambiati a luglio dalla cabina di regia affiancando all'incidenza dei contagi il tasso di ospedalizzazione, a rivelarsi inadeguati per la situazione attuale. Prima di tutto, il numero di tamponi giornalieri si è moltiplicato: intorno a 200.000 a luglio, intorno a mezzo milione a novembre. E ciò contribuisce a far schizzare l'incidenza dei casi: andrebbero valutati nuovi parametri per tenere conto del boom di test dovuto al green pass. E poi, si continuano a considerare i pazienti positivi, non chi si è «negativizzato» e rimane ancora ricoverato, e chi è in ospedale per altre patologie. Ieri in Friuli, con 249 nuovi contagi e una percentuale di positività del 3,97%, le persone ricoverate in terapia intensiva erano 25 (+2) e 168 (+10) i pazienti con Covid in altri reparti, ma non c'è trasparenza rispetto a quanto prima osservato. Per non finire in giallo, inoltre, le Regioni cercano di evitare la criticità consentendo la conversione di posti letto da altri reparti che penalizzano i pazienti non Covid. Per tornare alla non colorazione bisogna dimostrare di conservare per 14 giorni gli indicatori validi in zona bianca.
Con l'attenzione solo sul coronavirus, si dimentica che l'influenza non è mai stata una passeggiata. Secondo i dati dell'Iss, ogni anno le sindromi simil influenzali, con sintomi riconducibili al male di stagione, coinvolgono circa il 9% degli italiani «con un minimo del 4%, circa 2,4 milioni di persone, osservato nella stagione 2005-2006, e un massimo del 15% registrato nella stagione 2017-18, quasi 9 milioni». A gennaio 2018 si parlava già di tre milioni di persone colpite dal virus. Però non ci furono allarmi in terapie intensive, non si pensò di imporre restrizioni per limitare i contagi.
Eppure tra il 2007 e il 2017 l'influenza è stata la causa iniziale di morte per un totale di 5.060 decessi, una media di 460 l'anno. «A seconda delle stime dei diversi studi, vanno poi aggiunti tra le 4.000 e le 10.000 morti “indirette", dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari, legate all'influenza», spiegò a febbraio dello scorso anno il virologo Fabrizio Pregliasco. Dal 14 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020, il numero di casi simil influenzali fu di più di 5 milioni. Tra il 28 ottobre e il 3 novembre 2019, il primo bollettino stagionale della Rete Influnet dell'Istituto superiore di sanità segnalava senza preoccupazione 89.000 persone colpite da influenza. In Italia adesso c'è allarme per 7.698 nuovi casi di coronavirus in un giorno.
«Cosa succederebbe se scoprissimo che la copertura dall'infezione dura meno di un anno?», si chiedeva ieri Il Foglio, tornando sulla questione efficacia del richiamo. In una prospettiva di più dosi annue, veniva affermato che «sarebbe opportuno valutare un mix di misure non farmacologiche di contenimento e di vaccinazioni, bilanciato e pensato in modo diverso dall'attuale». Ipotesi ventilata anche perché «con i vaccini attuali non potremmo continuare a lungo, e più che mai si renderebbe necessario investire su tipi di vaccini diversi e di possibile lunga durata». Le aziende farmacologiche, e governi come il nostro che non vuole mettere la parola fine all'emergenza, sono interessati a investire in questi farmaci, chiediamo noi, con tutto quello che stanno spendendo per i sieri in circolazione?
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Da Forza Italia al Pd, passando per Matteo Renzi e molti governatori di centrodestra, si chiede a gran voce che le prossime restrizioni riguardino solo i non vaccinati. In barba al fatto che chi ha avuto la doppia dose può infettare. E che non farsi la puntura è un diritto. Ma sono le regole delle Regioni a colori che vanno cambiate per evitare chiusure inutili.Cinque Regioni verso il giallo: il boom di tamponi fa schizzare l'incidenza. Da rivedere pure i tassi d'occupazione dei reparti.Lo speciale contiene due articoli.Se il sonno della ragione genera mostri, quello delle Regioni produce incubi. Contro ogni buon senso, il fronte (bipartisan, da Italia viva, al Pd, ai leghisti) dei favorevoli a restrizioni solo per i non vaccinati, come avviene in Austria, è guidato proprio da alcuni presidenti di Regione. Inclusi molti di quelli di centrodestra. Sembra prendere piede l'idea che relegare chi non è vaccinato in una sorta di riserva indiana possa bloccare la diffusione del Covid: tesi che fa a pugni con un dato di fatto, ovvero che i vaccinati si contagiano e contagiano. Anzi: da un certo punto di vista, far passare il messaggio che i vaccinati possano fare tutto quello che vogliono è pericoloso, in quanto può portare chi si è fatto inoculare le due dosi ad abbassare la guardia. Certo, chi ha completato il ciclo vaccinale ha scarsissime probabilità di essere colpito da una forma grave di Covid, ma nessuno può escludere che possa contagiare una persona fragile, un non vaccinato.Il tutto, mentre i governatori danno già per scontate ulteriori restrizioni: «Chiederemo al governo come Regioni», dice il presidente della Liguria, Giovanni Toti, «che le misure restrittive legate alle fasce di colore valgano per le persone che non hanno fatto il vaccino, non per le persone che lo hanno correttamente fatto. Se qualcuno deve essere convinto sono coloro che non si sono vaccinati, le misure che devono essere prese, lo devono essere solo per i non vaccinati», aggiunge Toti, «non certo per chi ha fatto fino in fondo il suo dovere». Toti esterna dopo aver sentito al telefono Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli Venezia Giulia e leader della Conferenza delle regioni, che si riunirà domani per discutere dell'argomento. Il quale Fedriga non ha dubbi sulla necessità di distinguere vaccinati e non vaccinati se si andrà verso nuove zone gialle: «La mia idea è che le restrizioni della zona gialla non valgono per i vaccinati. Chi si è protetto, ha partecipato alla campagna vaccinale, limita le ospedalizzazioni, salvaguarda il sistema di sanità pubblica non può pagare un prezzo di cui non ha nessuna colpa, perché ha creduto nella scienza e nello Stato».«Se si dovessero rendere necessarie nuove restrizioni», evidenzia da parte sua il presidente della Calabria, Roberto Occhiuto, di Forza Italia, «e il vero gradone è rappresentato a mio avviso dalla cosiddetta zona arancione - queste dovrebbero coinvolgere esclusivamente coloro che non si sono vaccinati. La stragrande maggioranza degli italiani ha dato fiducia alla scienza e con senso di responsabilità nei confronti della comunità si è sottoposta al vaccino. Non sarebbe giusto far pagare a questa maggioranza», aggiunge Occhiuto, «la scelta incomprensibile di una minoranza, In questo senso concordo con il presidente Fedriga e con il presidente Toti». «Chi si è vaccinato», incalza il presidente del Piemonte, Alberto Cirio, di Forza Italia, «ha dato prova di fiducia nelle istituzioni e io credo che questa fiducia debba essere ripagata sempre, per questo se ci dovessero essere nuove restrizioni queste non potranno essere pagare da coloro che si sono vaccinati perché sarebbe un'ingiustizia e questa fiducia debba essere ripagata sempre». In casa Fi, gli dà manforte la senatrice Licia Ronzulli: «Il governo ascolti le giuste richieste delle Regioni. Non si possono far ricadere su un intero Paese le conseguenze del comportamento irresponsabile di una sparuta minoranza di cui, oltretutto, fanno parte manifestanti no vax e no pass che si assembrano nelle piazze per protestare senza mascherina e senza rispettare il distanziamento, contribuendo così all'aumento dei contagi». Il presidente leghista della Lombardia, Attilio Fontana, paventa il rischio di «tensioni sociali», ma si allinea: «Va valorizzato l'atteggiamento degli oltre 8 milioni di lombardi che hanno con convinzione e senso di responsabilità aderito alla vaccinazione. Non possiamo pensare a restrizioni per questi cittadini, che hanno dimostrato fiducia, consapevolezza e senso del bene comune».A cavalcare il mantra c'è anche il leader di Italia viva, Matteo Renzi: «Mi piacerebbe», sottolinea a L'Aria che tira, su La7, «che l'Italia adottasse lo stesso modello dell'Austria: in lockdown vada chi non ha fatto il vaccino». Mentre, in casa dem, si fa avanti il presidente toscano, Eugenio Giani: «I contagi stanno risalendo. Ciò impone misure rigorose [...]. Se chi non è vaccinato vuole partecipare alla vita di comunità, deve immunizzarsi. Se non lo fa, approfitta di quello che hanno fatto gli altri. In questo caso credo sia giusto, come qualcuno ha proposto, assumere provvedimenti restrittivi nei confronti dei non vaccinati, per limitarne la mobilità negli spazi pubblici». Ufficialmente, il governo non raccoglie l'assist. Stefano Patuanelli, ministro grillino dell'Agricoltura, però incalza: «Siamo favorevoli a tutte le misure che ci aiutano ad abbassare i contagi». E Guido Rasi, microbiologo consulente del commissario Francesco Paolo Figliuolo, tuona: «Se i no vax hanno comportamenti che facilitino la circolazione virale, questo deve essere oggetto di una riflessione importante». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nasce-fronte-apartheid-2655747631.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sta-tornando-lincubo-dei-semafori-le-regole-sui-colori-vanno-aggiornate" data-post-id="2655747631" data-published-at="1637096936" data-use-pagination="False"> Sta tornando l’incubo dei «semafori». Le regole sui colori vanno aggiornate Con rassegnazione, più che rabbia, gli abitanti del Friuli Venezia Giulia attendono che scatti il giallo per sentirsi nuovamente ammoniti. Forse già da lunedì prossimo il monitoraggio «a semaforo», messo a punto un anno fa dal ministero della Salute durante l'ex governo Conte, definirà la Regione in livello di rischio moderato. A temere l'abbandono della zona bianca sono anche Veneto, Provincia autonoma di Bolzano, Liguria, Valle d'Aosta (in bilico le Marche). La curva epidemiologica sale ma senza grandi impennate (ieri +162 ricoveri e +6 ingressi in terapia intensiva su tutto il territorio nazionale), eppure la parola d'ordine è accettare maggiori divieti, altrimenti il virus non ci lascia. Una vergognosa bugia, il Covid non se ne andrà, diventerà endemico, ma l'ennesimo inganno sortirà l'effetto di convincere molti a scegliere la via del terzo richiamo, con grande caos per i centri vaccinali ridotti di numero e già in affanno per somministrare l'antinfluenzale, mentre per chi rifiuta il farmaco anti Covid si profilano segregazioni all'austriaca. Nella persona inoculata, «clinicamente la protezione dal contagio diminuisce, dal 95%, dapprima al 70%, poi al 60%, quindi al 50% e infine al 45%, ma rispetto alla malattia grave rimane oltre il 90%», spiegava ieri Giorgio Palù, presidente dell'Aifa, in una diretta della Regione Veneto. Anche i vaccinati contagiano, per questo pensano di ridurre la validità del green pass da dodici a nove mesi, altrimenti la beffa di positivi con tanto di lasciapassare rischia sì di aumentare a oltranza i casi di contagio. Ma veniamo al nuovo cambio di colorazione. Quando in una Regione l'incidenza di positività settimanale è superiore ai 50 casi ogni 100.000 abitanti, il tasso di occupazione dei posti letto Covid in area non critica (malattie infettive, medicina generale e pneumologia) supera il 15% e quello nelle terapie intensive va oltre il 10%, si accende la luce gialla e ricomincia l'ansia. Con le restrizioni in atto dovute al green pass, in questa fascia di colore non entrano molte nuove regole, a parte l'obbligo di mascherina all'aperto. Per eventi sportivi, teatri, sale, concerti all'aperto il limite della capienza diventa del 50%, al chiuso del 35% e forse si profilano restrizioni in tema di pranzi conviviali nelle prossime festività, tema assai dolente. Ma sono i parametri, già cambiati a luglio dalla cabina di regia affiancando all'incidenza dei contagi il tasso di ospedalizzazione, a rivelarsi inadeguati per la situazione attuale. Prima di tutto, il numero di tamponi giornalieri si è moltiplicato: intorno a 200.000 a luglio, intorno a mezzo milione a novembre. E ciò contribuisce a far schizzare l'incidenza dei casi: andrebbero valutati nuovi parametri per tenere conto del boom di test dovuto al green pass. E poi, si continuano a considerare i pazienti positivi, non chi si è «negativizzato» e rimane ancora ricoverato, e chi è in ospedale per altre patologie. Ieri in Friuli, con 249 nuovi contagi e una percentuale di positività del 3,97%, le persone ricoverate in terapia intensiva erano 25 (+2) e 168 (+10) i pazienti con Covid in altri reparti, ma non c'è trasparenza rispetto a quanto prima osservato. Per non finire in giallo, inoltre, le Regioni cercano di evitare la criticità consentendo la conversione di posti letto da altri reparti che penalizzano i pazienti non Covid. Per tornare alla non colorazione bisogna dimostrare di conservare per 14 giorni gli indicatori validi in zona bianca. Con l'attenzione solo sul coronavirus, si dimentica che l'influenza non è mai stata una passeggiata. Secondo i dati dell'Iss, ogni anno le sindromi simil influenzali, con sintomi riconducibili al male di stagione, coinvolgono circa il 9% degli italiani «con un minimo del 4%, circa 2,4 milioni di persone, osservato nella stagione 2005-2006, e un massimo del 15% registrato nella stagione 2017-18, quasi 9 milioni». A gennaio 2018 si parlava già di tre milioni di persone colpite dal virus. Però non ci furono allarmi in terapie intensive, non si pensò di imporre restrizioni per limitare i contagi. Eppure tra il 2007 e il 2017 l'influenza è stata la causa iniziale di morte per un totale di 5.060 decessi, una media di 460 l'anno. «A seconda delle stime dei diversi studi, vanno poi aggiunti tra le 4.000 e le 10.000 morti “indirette", dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari, legate all'influenza», spiegò a febbraio dello scorso anno il virologo Fabrizio Pregliasco. Dal 14 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020, il numero di casi simil influenzali fu di più di 5 milioni. Tra il 28 ottobre e il 3 novembre 2019, il primo bollettino stagionale della Rete Influnet dell'Istituto superiore di sanità segnalava senza preoccupazione 89.000 persone colpite da influenza. In Italia adesso c'è allarme per 7.698 nuovi casi di coronavirus in un giorno. «Cosa succederebbe se scoprissimo che la copertura dall'infezione dura meno di un anno?», si chiedeva ieri Il Foglio, tornando sulla questione efficacia del richiamo. In una prospettiva di più dosi annue, veniva affermato che «sarebbe opportuno valutare un mix di misure non farmacologiche di contenimento e di vaccinazioni, bilanciato e pensato in modo diverso dall'attuale». Ipotesi ventilata anche perché «con i vaccini attuali non potremmo continuare a lungo, e più che mai si renderebbe necessario investire su tipi di vaccini diversi e di possibile lunga durata». Le aziende farmacologiche, e governi come il nostro che non vuole mettere la parola fine all'emergenza, sono interessati a investire in questi farmaci, chiediamo noi, con tutto quello che stanno spendendo per i sieri in circolazione?
Vladimir Putin (Ansa)
Di tutt’altro tenore è invece la sua posizione nei confronti del presidente americano, Donald Trump: affermando di essere «in dialogo» con l’amministrazione Trump per le trattative, ha precisato che Mosca «accoglie con favore i progressi compiuti» nel dialogo tra Cremlino e Casa Bianca.
Sulle conquiste territoriali lo zar si è mostrato fiducioso, con le truppe che «avanzano con sicurezza e schiacciano il nemico». Ha quindi annunciato che quest’anno rappresenta «la pietra miliare per il raggiungimento degli obiettivi dell’operazione militare speciale», visto che sono stati «liberati» più di 300 insediamenti. L’avanzata è evidente: Mosca ha comunicato di aver preso il controllo della città di Kupyansk. E secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, sta preparando un’altra offensiva con 710.000 soldati russi.
La reazione del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, non è tardata ad arrivare. Pare convinto che la guerra continuerà anche nel 2026: «Oggi abbiamo ricevuto da Mosca ulteriori segnali che indicano che il prossimo sarà un anno di guerra. E questi segnali non sono solo per noi. È importante che i partner lo vedano. Ed è importante che non solo lo vedano, ma che reagiscano, in particolare i partner negli Usa, che spesso dicono che la Russia sembra voler porre fine alla guerra».
In ogni caso, le trattative proseguono, con Mosca che attende di essere informata sull’esito dei summit di Berlino. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, pur spiegando che non è in programma la visita dell’inviato americano, Steve Witkoff, ha dichiarato: «Ci aspettiamo che i nostri omologhi statunitensi ci informino sui risultati del loro lavoro con gli ucraini e gli europei quando saranno pronti».
Ma mentre la Russia attende le comunicazioni da parte della delegazione americana, sono intanto trapelate sul New York Times e su Bloomberg alcune indiscrezioni sulle iniziative occidentali. Secondo il quotidiano statunitense, a Berlino i funzionari americani ed europei hanno raggiunto un accordo su due documenti inerenti alle garanzie di sicurezza per l’Ucraina in cui si prevede un rafforzamento importante delle forze armate ucraine, oltre allo schieramento di truppe europee e un uso maggiore dell’intelligence americana. Il primo documento annuncia i principi generali, il secondo è un «documento operativo mil-to-mil», ovvero da forze armate a forze armate. Bloomberg ha invece rivelato che gli Usa stanno «preparando un nuovo ciclo di sanzioni contro il settore energetico russo» con lo scopo di aumentare la pressione su Putin, qualora non accettasse l’accordo di pace. Il Cremlino non ha commentato le rivelazioni sulle garanzie di sicurezza, ma è intervenuto subito sulle sanzioni, sostenendo che potrebbero «nuocere al miglioramento delle relazioni tra i due Paesi».
A riconoscere che le trattative di pace sono «complesse» è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Le pretese irragionevoli» russe, soprattutto «sulla porzione di Donbass non conquistata» da Mosca, sono «lo scoglio» più difficile da superare. Parlando alla Camera ha colto l’occasione per ripetere che «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina», anche perché «l’ipotesi di dispiegamento di una forza multinazionale in Ucraina» prevede «la partecipazione volontaria». La linea italiana resta quella di «non abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Al contrario di Meloni, il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, è stato piuttosto vago sull’invio di soldati tedeschi nella cornice di una forza multinazionale, limitandosi a dire che la Coalizione dei volenterosi non include solamente gli Stati europei.
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Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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