2023-08-19
        Nel ventre di Napoli andando a scoprire la cucina garibaldina
    
 
Dai maccheroni tricolore post Unità d’Italia ai «fanfelicchi». I sapori partenopei hanno stupito anche i grandi scrittori.Il viaggio antropologicamente goloso per i vicoli di Napoli è una miniera di scoperte e sapori, tuttora vivi per chi ha la pazienza di andarseli a cercare. Nella città madre e regina della pasta la sosta conseguente presso i maccarunari. Una professione nata per necessità e arguzia. Molte madri di famiglia, per arrotondare le scarse entrate domestiche, offrivano ai passanti dei maccheroni a nu doie allattante, cioè due soldi. Un quadretto ben descritto da Matilde Serao ne II ventre di Napoli. In pratica conditi con pecorino piccante di Crotone e un residuo allattante, frutto dell’acqua ricca di amido posto che, nella stessa, venivano cotti maccheroni in costante rotazione. Si usavano delle capaci caldaie, à caurara, che ben presto divennero ambulanti sui carretti dei maccarunari di professione. Chi poteva si pappava nu tre, cioè porzioni ben più abbondanti. Ai primi dell’ottocento si aggiunse anche la salsa di pomodoro che divenne, dopo l’unità d’Italia, ’o tre calibbarde, cioè alla garibaldina, un tricolore di cacio, pummarò e fogliolina di basilico. Uno spettacolo nello spettacolo, ben descritto da Alexandre Dumas: «il mangiatore del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i maccheroni e poi ve li caccia dentro senza sporcarsi né scottarsi». Ci vuole talento ispirato, come ben sottolineato da Raffaele Bracale «i maccheroni si mangiano guardando in cielo». Mai mettere limite alla provvidenza tra spaccanapoli e quartieri spagnoli, ad esempio con gli spaghetti alla puverella, cacio e pepe arricchiti da un bell’uovo alla coque ’n coppa. C’è anche la versione penitenziale, à pasta scaurata, cioè rigorosamente in bianco, giusto ripescata e scolata dalla sua culla bollente, ’a caurara, tanto che, se uno si confessava pudico «sto magnanno scaurato», significava che stava a dieta. Dato che a Napoli non ci si è mai negati nulla nell’accoppiare fantasia applicata alla vita quotidiana ecco che ’o scaurachiove non era tanto il golosone impenitente di pasta scaurata, quanto uno scaldachiodi, persona che si dedica ad attività inutili, come ad esempio scaldare chiodi nella caurara. Difficile compilare una top ten del cibo di strada partenopeo, ognuno con le sue storie, tradizioni, colori vividi che trasmettono lo spirito di un popolo. Un esempio le castagne, considerate parte centrale dell’alimentazione di strada nel dare calore autunnale con vista Vesuvio. Ci aiutano ancora le pagine di Matilde Serao. Vendute lesse, in coppi di carta che si imbrattavano all’istante del sugo di contorno. Panelle e allesse la colazione del mattino per gli operai che pucciavano il pane nella scodella ricca del loro brodo rossastro. Un mix di zucchero e calorie che dava un ristoro simile al caffè. Brodo di allesse consigliato anche dall’illustre clinico Antonio Cardarelli per curare chi soffriva di «mal di petto». Tanto gradito il piatto quanto «me pare ’nu cuoppo allesse» stava ad indicare una donna particolarmente brutta. Una delle icone tra gli ambulanti era ’o castagnaro, il quale vi consolava con ’a verola (la caldarrosta) sapientemente abbrustolita nel verularo, l’apposito padellone bucherellato. Mani d’amianto? Certamente, ma attenzione perché questo poteva anche indicare «persona che vuol far le cose a proprio tornaconto senza sporcarsi le mani», ovvero «di uno che caccia le castagne dal fuoco con le mani degli altri». Inattaccabile nella sua versatilità stagionale Carmine il Mago, in via dei Tribunali. Il mago della granita in estate, da lui il brodo di polpo in autunno e le castagne invernali. Nella memoria collettiva un posto per sempre quello del Fanfellicaro, una professione quasi scomparsa. Suoi i franfellicchi, cilindretti di miele con un velo di zucchero. Era la calamita per i giovani scugnizzi che lo seguivano lungo i vicoli dei quartieri. Chi poteva permetterselo si sfidava in diretta. Un franfellico posto l’uno contro l’altro e poi l’attesa. Vinceva la sfida chi aveva la mosca golosa che si posava per prima sul suo. Ma il pezzo forte era un altro. Spesso usava appostarsi nei pressi dei teatrucoli delle marionette e lì viaggiava di suo. Sfidava i ragazzini che si accalcavano attorno. La scommessa era quella di «porsi un franfellico sulla fronte e da lì, senza l’uso delle mani e abili motilità della muscolatura facciale, abbinata a variazioni di postura, doveva arrivare a inghiottirlo». Una mimica che avrebbe intrippato Nanny Loi. Un’esperienza verificata dallo scrivente. Narrando tale episodio ad un vissuto amico napoletano la facies conseguente, con relativa motilità di lingua e capoccia, a conferma che certi imprinting restano indelebili, per sempre. Fanfellicaro vero e proprio imprenditore. Al vincitore ovviamente veniva reso omaggio di un altro franfellico oltre a quello ingoiato. Ma grazie a queste sfide tra ragazzini, attorno al teatrino in diretta si formava in breve tempo una piccola folla di spettatori, con relative scommesse a seguire. Ed era così che, il nostro, si guadagnava onestamente la sua giornata con questo innocente azzardo di cubetti dolci. È ora di sedersi a tavola. Una tradizione ben descritta, nel 1858, da Francesco De Bourcard nel suo «Usi e costumi di Napoli». «Tra Santa Lucia (il quartiere dei pescatori) e Posillipo la sola differenza è che qui si spende il doppio», laddove per molti, più che il gustare a tavola, vi era l’ambizione di esibire «uno stemma da incollare sulla carta da visita», per una cucina che offriva comunque, sapendola scegliere, materia prima di eccellenza, come la frittura di pesce «allora allora sottratto all’onda e che guizzi nella padella». Per generazioni meta sicura Pallino, alias Nicola Micera, chiamato così per le sue rotondità diffuse. Già monzù (cuoco di fiducia) dei nobili Tricase, aprì la sua piccola enclave golosa nel 1840. Ben presto Pallino diventò sede di numerosi sodalizi, su tutti La Società dei Nove Musi, una sorta di aristocrazia intellettuale di artisti e letterati fondata da Benedetto Croce. Il simbolo araldico una forchetta e un coltello incrociati su fondo bianco. La motivazione ufficiale quella che, all’uscita di ogni suo libro, il rispettivo autore avrebbe offerto minestra maritata e capretto al forno ai suoi compari. A Posillipo regnava lo Scoglio di Frisio, della famiglia Musella. Talmente romantica la vista sul Golfo che Gabriele d’Annunzio vi dedicò un sonetto: «al par di Saffo mi inabisserò sullo scoglio di Frisio lanciandomi dall’alto di una fumante caldaia di vermicelli alle vongole». Gli fa eco Carlo Dal Balzo, a cena con la bella di turno «il mare cantava la sua vecchia canzone alle onde nascoste tra gli scogli». La citazione della staffa dedicata a Teresa Fusco, Zì Teresa per tutti. Il padre, Gennaro Fusco, già marinaio della flotta borbonica, divenne pescatore in quel di Santa Lucia. La piccola Teresa, nata nel 1860, era molto abile nel vendere i suoi profumatissimi taralli a chi era in attesa di polpi e orate freschi di lenza. La vita la sottopose a sfide importanti. Persi via via il marito e i figli ancora piccoli venne ospitata da una cugina, anche lei vedova di guerra, con tre ragazzini da mantenere. Zì Teresa, come la chiamavano i nipoti, era abile in cucina e ben presto aprì un locale che divenne leggenda. Celebre un articolo nel New York Times che la vide ritratta assieme a Winston Churchill come Greta Garbo o Arturo Toscanini. Quando fu il momento di passare la mano agli eredi controllava ogni giorno che tutto procedesse come da tradizione, armata di binocolo dal balconcino di casa. Quando venne a mancare, il 25 maggio 1953, a darle l’ultimo saluto, assieme alla folla di chi ne aveva apprezzato le doti abbinate a una straordinaria semplicità quotidiana, oltre una settantina di inviati speciali di giornali e agenzie internazionali.
        Edmondo Cirielli (Imagoeconomica)
    
        Il palazzo dove ha sede Fratelli d'Italia a Parma
    
        Marcello Degni. Nel riquadro, Valeria Franchi (Imagoeconomica)
    
        Giuliano Pisapia, Goffredo Bettini, Emma Bonino e Anna Paola Concia (Ansa)