2018-03-26
Napoleone II, la tragedia dei figli che hanno in eredità un fallimento
«La gloria lo attende», esclamò Bonaparte quando venne al mondo Francesco Carlo detto l'«Aquilotto». Ma il ragazzo visse solo 21 anni, con il padre in disgrazia e la casata materna, gli Asburgo, che lo disprezzava.In un'afosa giornata di fine luglio 1832 il palazzo di Schönbrunn, residenza estiva degli Asburgo, si riempie di gente di corte. Contrariamente ad altre volte, l'autorevole parterre non è lì per celebrare un fausto evento. Si è riunito per dare l'ultimo addio a un giovane di 21 anni, che agonizza nel suo letto. Quasi incapace di respirare, il volto madido di sudore, il corpo ridotto a uno scheletro, il ragazzo ha smesso di lamentarsi e attende il momento in cui arriverà la tanto agognata pace. Il fatto che intorno a lui ci sia tanta ressa lo lascia indifferente. E del resto, sino alla notte precedente è stato lasciato solo con il cameriere. Nemmeno la madre, pure giunta appositamente da Parma, si è data il disturbo di vegliarlo.Qualche settimana prima, contemplando la fastosa culla che era stata ideata per lui neonato da Prud'hon, il ragazzo aveva sospirato: «Fra la mia culla e la mia tomba, c'è un grande zero». Per poi aggiungere, con amara consapevolezza: «Non sono che un imbarazzo». Purtroppo per lui, ha detto il vero. La sua dipartita sarà motivo di malcelato sollievo per molte persone a lui vicine, a cominciare dal nonno, l'imperatore Francesco, per arrivare alla madre, Maria Luisa d'Austria. Una delle poche eccezioni sarà la giovane arciduchessa Sofia (da poco genitrice del futuro Francesco Giuseppe e dello sfortunato Massimiliano) che sverrà nell'apprendere la notizia. Ma quell'unico affetto - c'è chi parla di amore - non basta a giustificare un'esistenza intera.Soprattutto un'esistenza che si era aperta all'insegna delle più straordinarie aspettative. Quando, il 20 marzo 1811, il fanciullo era venuto al mondo nel fastoso scenario delle Tuileries di Parigi, sembrava che gli fosse stato riservato unicamente il meglio, che la mitologica cornucopia lo avesse ricoperto di doni. Il più felice era stato il padre, che aveva detto: «Lo invidio, la gloria lo attende, mentre io ho dovuto correrle dietro! Io sono stato Filippo, lui sarà Alessandro. Per afferrare il mondo, non dovrà che tendere le braccia...». Era sempre il padre che, tempo prima, aveva ideato per lui il titolo di re di Roma, dichiarando: «Ho unito Roma all'impero ». Per secoli, solo il pontefice aveva incarnato il ruolo di «sovrano» della caput mundi. Adesso, invece, faceva la sua comparsa un «ottavo re di Roma» a cui era stato offerto il titolo e il regno che avevano come capostipite Romolo.C'era un unico uomo, in Europa, che aveva il potere di immaginare e concretizzare un'idea del genere. Quell'uomo era Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi.L'ascesa del piccolo corso, nato ad Ajaccio il 15 agosto 1769 e salito al vertice grazie al genio, alla velocità, alla spregiudicatezza, trovava così il suggello definitivo. La posterità significava la fondazione di una dinastia, l'ereditarietà dell'impero: qualcuno a cui lasciare ciò che era stato edificato in tempi rapidissimi grazie a talento, fortuna e fatica.Per Bonaparte, venuto dal nulla, la legittimazione formale, la costruzione di un sistema politico stabile con la sua famiglia come perno, era una sorta di ossessione cominciata già nell'ultimo periodo del Consolato. Gli attentati, le pressioni del clan corso, le preoccupazioni per l'avvenire della Francia, il bisogno di «durare oltre la morte», le suggestioni dei ministri, lo avevano convinto della necessità di fondare una dinastia che promanasse da lui direttamente. Dopo i Borbone, i Bonaparte.Per tale motivo aveva divorziato dalla prima moglie Joséphine, e aveva cominciato un esame delle famiglie regnanti europee, nel cui seno intendeva trovare la novella sposa. A dire il vero, quella necessità di accreditarsi presso il gotha assomigliava a uno scivolone da parvenu. Uno scivolone che avrebbe pagato poi a caro prezzo tanto che, oramai prigioniero a Sant'Elena, avrebbe commentato: «Il mio matrimonio! Un precipizio dagli orli bordati di fiori».Inconsapevole dei pentimenti successivi, Napoleone allora aveva tirato dritto, optando per Maria Luisa d'Austria, primogenita dell'imperatore Francesco. Evidentemente aveva rimosso il ricordo delle molte figlie sacrificate per interesse dalla dinastia Asburgo, ultima delle quali Maria Antonietta. O forse si credeva più forte di tutto ciò, confidando nel fatto che la sua buona stella lo avrebbe sempre protetto.Il matrimonio era stato celebrato per procura a Vienna il 13 marzo 1810 e poi, più fastosamente, a Parigi. Un anno dopo nasceva l'erede Napoleone Francesco Carlo, futuro Napoleone II. L'Aiglon, il figlio dell'Aquila, secondo il successivo mito romantico.C'erano stati quindi tre anni durante i quali il bambino aveva vissuto nel meraviglioso mondo edificato per lui dal padre. Un mondo di giocattoli favolosi e vestiti su misura, di applaudite apparizioni pubbliche e sfilate militari, di suppliche dei sudditi rivolte direttamente a lui, di governanti, nutrici, cullatrici e cameriere a sua disposizione. Il piccolo, inoltre, era diventato il centro della ossessiva propaganda napoleonica e su di lui si era incentrata una vastissima iconografia, un'operazione di «marketing» mai vista prima. Poi, all'improvviso, con il crollo dell'impero paterno, il piccolo re aveva perso tutto. Dopo la battaglia di Lipsia, Napoleone aveva comunque tentato «l'abdicazione condizionata», subordinata cioè alla nomina del figlio quale imperatore Napoleone II. Purtroppo, però, Maria Luisa era già fuggita da Parigi, portando con sé il bambino a Vienna. Mancava dunque una carta di scambio fondamentale nel tavolo delle trattative. I molti tradimenti subiti da Bonaparte avevano fatto il resto, e lui si era dovuto imbarcare alla volta dell'Elba.Con la fuga dell'anno successivo e i Cento giorni, la partita si era riaperta, ma ancora una volta mancava all'appello la sposa, decisa a non rimettere più piede in Francia, e il figlio, sorvegliato strettamente da Francesco I e da Metternich. Senza di loro, le possibilità di una trattativa si riducevano drasticamente e la sconfitta di Waterloo, del giugno 1815, le avrebbe azzerate.Mentre Bonaparte, sul Bellerofonte, prendeva la strada per Sant'Elena, il suo erede veniva sottoposto a una vera e propria rieducazione, in nome della quale gli sarebbe stato cambiato il nome - niente più Napoleone - e gli sarebbe stato proibito a lungo l'uso del francese. Agli Asburgo, a Metternich, a tutte le potenze faceva troppa paura l'ombra di Napoleone, che si proiettava dietro la sagoma del figlio. A quest'ultimo, dunque, si sarebbe presentato il conto delle colpe vere o presunte del padre. Col passar degli anni, con l'annuncio dei primi moti indipendentisti, la situazione era addirittura peggiorata. L'Aiglon non era più un bambino e il rischio che diventasse un simbolo di libertà, che fosse messo a capo ideale di qualche movimento, si faceva sempre più concreto. Per tale motivo, la sua prigionia si era fatta ancor più rigorosa, pur nell'apparente agiatezza, fra i divertissement e i formalismi protocollari d'obbligo. L'estrema solitudine del giovane erede di Napoleone - oramai Franz duca di Reichstadt -, il suo essere una figura scomoda, l'abbandono in cui era stato lasciato da sua madre, la claustrofobica situazione in cui era costretto a Vienna: tutto aveva congiurato per abbreviarne l'esistenza, già minata dalla tisi.E così, si giunge al 22 luglio 1832, giorno in cui l'Aiglon dà l'addio alla vita, per essere poi sepolto nella cripta dei Cappuccini a Vienna, in compagnia di un'infinità di parenti Asburgo. Il suo destino, così doloroso e contraddittorio, conoscerà un ultimo paradosso. Sarà infatti Adolf Hitler - in un maldestro tentativo di accattivarsi Parigi occupata dai nazisti - che nel 1939 concederà il rimpatrio della salma del re di Roma, che sarà inumata agli Invalides, vicino a suo padre, l'imperatore.
Jose Mourinho (Getty Images)