2023-09-22
C’è un altro Putin e invade gli armeni ma con lui ci facciamo affari
Il presidente azero Ilham Aliyev (Getty Images)
L’Azerbaijan attacca il suo vicino, eppure nessuno in Europa pensa di rifornire la resistenza. Forse perché l’aggressore ci smercia il petrolio. Anche la crisi tra Polonia e Ucraina dovuta al grano lo conferma: gli affari contano sempre più della retorica umanitaria. Varsavia, la città da cui, acclamato da migliaia di polacchi, Joe Biden pronunciò il famoso discorso con cui impegnava la Nato nella difesa a oltranza dell’Ucraina, si sfila. Il premier Mateusz Morawiecki, capo di un governo di centrodestra, ha annunciato che il suo Paese non fornirà altre armi a Kiev, ma ha anche aggiunto che prima degli agricoltori ucraini, d’ora in poi verranno i suoi ed egli è intenzionato a tutelarli. È vero, in Polonia ci sono le elezioni e dunque tutto va filtrato tenendo conto della propaganda prima del voto. Tuttavia, dopo 18 mesi di sostegno senza se e senza ma, la solidarietà dell’Occidente contro l’invasione di Mosca comincia a vacillare e non per opera di qualche movimento filo Putin, come si era ipotizzato. No, a minacciare di rompere il fronte è uno dei Paesi più atlantisti e più antirussi che ci siano. Semplicemente, a Varsavia hanno deciso che gli aiuti all’Ucraina non convengono più. Così, dopo aver ricevuto decine di milioni per assistere i profughi in fuga dai bombardamenti e altrettanti milioni per finanziare progetti sociali e sostenere scuole, ospedali, servizi, senza parlare di una serie di favori su vaccini e mezzi militari, Morawiecki ha detto basta. D’ora in poi niente armi, ma soprattutto niente passaggi agevolati per il grano ucraino. Tutto nasce dalle proteste degli agricoltori, che si sono visti rubare il mercato dalle merci di Kiev e, nonostante le compensazioni varate da Bruxelles, protestano. La storia ha inizio con il blocco dei porti che si affacciano sul mare di Azov, da cui partivano le navi cargo cariche di grano ucraino. Con lo stop imposto da Mosca e i bombardamenti che colpiscono le vie d’acqua interne, Zelensky e compagni non hanno altra possibilità se non quella di trasportare la merce su rotaia, transitando dalla Polonia. Ma a quanto pare, il carico invece di finire in Occidente e, da qui essere esportato altrove, si ferma al mercato polacco, con le inevitabili proteste degli agricoltori locali, i quali si vedono passare sotto il naso una produzione agevolata e offerta a basso prezzo, a scapito della loro. Così, al grido di «Prima i polacchi», la solidarietà occidentale nei confronti di Kiev sta andando in frantumi. Perché non solo, a seguito delle proteste, i treni carichi di grano restano fermi al confine, ma Varsavia ha deciso un giro di vite anche sulla fornitura di armi. D’ora in poi penserò a riempire i nostri arsenali, ha detto Morawiecki, da sempre preoccupato che il conflitto si espanda e intenzionato a non farsi trovare disarmato da un’eventuale aggressione russa. Può darsi che con qualche buona iniezione di denaro la controversia poi si appiani, ma non bisogna dimenticare che fra polacchi e ucraini non tutto fila a gonfie vele. I primi da sempre rivendicano la Galizia, territorio conteso tra i due Paesi da oltre un secolo e da cui sotto il dominio dell’Unione sovietica la popolazione originaria fu in parte cacciata. Dunque, gli antichi dissapori potrebbero tornare, ma di certo, nonostante abbia accolto milioni di profughi in fuga dalle truppe e dai bombardamenti di Putin, oggi Varsavia sembra meno tollerante e meno disposta a sostenere l’Ucraina. Forse perché l’ospite dopo un po’ di giorni dà fastidio, forse perché gli interessi alla fine rischiano di non coincidere più. L’Ucraina ha bisogno dell’Europa e dell’America che la sorreggono economicamente, ma il gioco forse non conviene, oppure è solo una questione di prezzo da pagare. Comunque sia, non è una bella cosa e dà il segno che più dei principi - la libertà e l’autodeterminazione dei popoli, in questo caso - contano come sempre i soldi.E a proposito di denaro, difficile non scorgere l’ipocrisia con cui l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, stanno affrontando la crisi del Nagorno Karabakh, territorio grande quanto il Molise, conteso ma questa volta a colpi di cannone, fra due Stati confinanti come l’Armenia e l’Azerbaijan. Il conflitto va avanti da decenni, con scontri fra armeni e azeri, i primi finora spalleggiati dalla Russia in quanto ortodossi, e i secondi dalla Turchia, perché musulmani. Il Nagorno Karabakh, che in origine era a maggioranza armena, per uno scherzo del destino e per una di quelle follie sovietiche, nel passato venne assegnato all’Azerbaijan, e la popolazione fu risarcita con uno statuto speciale che la rendeva autonoma. Con il passare degli anni e le pressioni azere, l’indipendenza è cominciata a venir meno ed è iniziata una guerra che si riaccende a fasi alterne per poi lasciar spazio a una tregua armata. Pochi giorni fa le truppe di Baku, capitale azera, hanno invaso il Nagorno Karabakh. Certo tutti hanno invocato il cessate il fuoco, ma a nessuno, in particolar modo alla Ue, è venuta voglia di difendere la popolazione armena dall’aggressore, come invece si è fatto per l’Ucraina. Il motivo è molto semplice: da Baku parte un gasdotto che attraversa mezza Europa e poi spunta in Puglia, trasportando metano per tanti Paesi europei. Perdere il gas azero dopo quello russo per noi sarebbe una rovina, ma lo sarebbe probabilmente per la stessa Ue. Risultato, per convenienza in questo caso si chiude un occhio, anzi tutti e due, sui principi. Perché in nome della libertà si può rinunciare all’aria condizionata, come disse tempo fa Mario Draghi. Però, suvvia, non esageriamo.