2022-12-23
«La musica non ferma la guerra ma cambia il cuore delle persone»
Daniel Barenboim, nel riquadro il pianista israelo-palestinese Saleem Ashkar (Ansa)
Saleem Ashkar, pianista israelo-palestinese scoperto da Daniel Barenboim: «Nel Conservatorio che ho fondato a Nazaret suonano musicisti che non si parlerebbero. In Ucraina sembra un’utopia, chi vieta i compositori russi però fa disastri».Chi semina pace in tempo di guerra viene sempre guardato con sospetto. È toccato a Daniel Barenboim, musicista ebreo di fama mondiale, che nella Weimar di Bach, Goethe e Schiller - ma anche del campo di concentramento di Buchenwald - ha dato vita, nel 1999, a un’orchestra per israeliani e palestinesi. E, molto prima, al tenore wagneriano Walter Kirchhoff, che fece storcere il naso a qualcuno nel 1914, quando, intonando canti natalizi per i suoi commilitoni tedeschi, scatenò l’inatteso applauso delle trincee francesi, facendo scoppiare su tutto il fronte la storica «tregua di Natale» della prima guerra mondiale. I generali e i media non gradirono quella sospensione delle ostilità e provarono a tenerla nascosta.Nel tempo comunque i frutti si vedono. Di quel cessate il fuoco spontaneo e contagioso - culminato addirittura in una partita di calcio tra nemici nella «terra di nessuno» - se ne parla ancora oggi (tanto è vero che papa Francesco ha implorato inutilmente un bis per l’Ucraina). Mentre la West Eastern Divan Orchestra di Barenboim non avrà risolto alcun conflitto (e mai si era illusa di poterlo fare), ma ha continuato a far suonare insieme persone che non si sarebbero mai parlate, lasciando dietro di sé una piccola scia di luce. A Nazaret, ad esempio, ha donato una stella, anzi due o tre. La prima è il pianista israelo-palestinese Saleem Ashkar, che a 22 anni ha debuttato alla Carnegie Hall di New York e si è affermato soprattutto per la sua interpretazione di Ludwig van Beethoven. La seconda è il Conservatorio della Polyphony Foundation, da lui fondato 16 anni fa insieme al fratello Nabeel, violinista. E da quella specie di miraggio, che ha permesso a centinaia di cristiani, arabi ed ebrei di fare musica in un’oasi circondata dalla violenza, è nata - come in una catena senza fine - la terza: l’Orchestra da camera della Galilea.Maestro, ci racconta l’inizio della sua avventura?«La folgorazione per la musica la devo a uno zio libanese, che aveva studiato in Germania. Un giorno le frontiere si aprirono e venne a trovarci a Nazaret. Si mise al pianoforte e diede vita a ciò che per me era sempre stato soltanto un mobile. Da quel momento, avevo circa sei anni, non ho voluto fare altro che suonare».In un libro di parecchi anni fa, La musica sveglia il tempo (Feltrinelli), Barenboim racconta la sua storia e le difficoltà che lei ha dovuto superare. Prima per formarsi come musicista palestinese a Tel Aviv, poi come studente a Londra e a New York.«A lui devo tantissimo. Mi ha supportato in un momento delicato della mia vita e mi donato il suo tempo e la sua conoscenza di straordinario pianista e direttore d’orchestra».Qual è l’insegnamento più importante che ha ricevuto?«Mi ha fatto capire che nella musica il pensiero analitico e il sentimento non sono in contraddizione, ma vanno tenuti insieme. Bisogna continuare a scavare e a investigare le pagine che si affrontano perché la conoscenza può solo aiutare l’interpretazione. Sapendo comunque che non esiste un’unica soluzione alle domande che il testo musicale ci pone. Grazie a Barenboim questo processo dentro di me è iniziato e non è mai finito». E cosa ha significato entrare nella sua West Eastern Divan Orchestra?«Ho vissuto quell’avventura fin dai primi passi e ricordo che avevamo tutti la sensazione di partecipare a qualcosa di straordinario. La musica inizia là dove le parole si fermano e sa creare le condizioni per una comprensione più profonda tra persone che hanno storie, idee e religioni diverse. Purtroppo non ha il potere di portare la pace tra le nazioni, ma di sicuro può cambiare il cuore dei singoli».Il Conservatorio che ha fondato a Nazaret e la Galilee Chamber Orchestra seguono la stessa intuizione?«Lo spirito è il medesimo, ma la realtà da affrontare è differente. La Divan è nata in Europa e si esibisce una o due volte all’anno, con un altissimo valore simbolico, che contagia il mondo. Il Conservatorio e l’Orchestra da camera della Galilea invece sono tutti i giorni, per tutto il giorno, al centro del conflitto. Di conseguenza le sfide e i problemi da risolvere sono molto diversi. Certo, non mancano le soddisfazioni: l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Vienna, per esempio, ha appena nominato come primo violino il nostro Yamen Saadi. Ha 25 anni». In Ucraina non ci sarà una tregua alla guerra nemmeno il giorno di Natale. E chi osasse immaginare oggi, non dico un’orchestra come la sua, ma un concerto con musicisti russi e ucraini, verrebbe preso per pazzo. Tanto è vero che negli ultimi mesi la sola esecuzione delle opere di Ciajkovskij o Mussorgskij ha creato scandalo. E per aver fatto portare la croce a due donne, che la logica militare vorrebbe nemiche, nemmeno il Papa si è salvato dalle critiche. Sono tutti segni di una pace sempre più lontana?«Mi spiace che gli appelli del Pontefice siano caduti nel vuoto. Lo considero un’autorità morale e non lo dico solo perché sono cristiano. Non concedere alla gente nemmeno un giorno di pace è sintomo di grande crudeltà. A proposito degli esempi che ha fatto, invece, le racconto un episodio personale. Anch’io avrei dovuto tenere un concerto in Repubblica Ceca, ma è stato cancellato perché, dopo l’invasione russa, anche la musica di Dmitri Shostakovich (1906-1975, ndr) è stata bandita da quel Paese. Le emozioni, anche irrazionali, delle persone che vivono realtà estreme di dolore vanno rispettate. Però considero queste scelte dei tragici errori a livello culturale. Shostakovich e Ciajkovskij - è strano doverlo spiegare - non c’entrano nulla con questa guerra, ma ci parlano della sofferenza, dell’amore e della speranza dell’uomo».Tornando alla sua carriera di pianista, lei ha appena portato a termine, per la prestigiosa etichetta Decca, l’incisione integrale delle 32 Sonate di Beethoven, iniziata nel 2017. Qual è stata la sfida più impegnativa nell’affrontare questo ciclo così imponente?«Ognuna delle 32 Sonate rappresenta un mondo a sé stante. Affrontarle tutte insieme è sicuramente una prova molto impegnativa, ma ciò che risulta più difficile in uno studio di registrazione è riuscire a non perdere la spontaneità».Tra i pianisti che prima di lei hanno affrontato questa impresa (ma non solo), chi l’ha ispirata di più?«Ho imparato qualcosa da tutti gli interpreti più importanti. Mi colpisce ad esempio il pensiero incredibilmente meticoloso di Murray Perahia. E non posso non citare uno dei miei idoli: Maurizio Pollini».Nel suo ultimo disco di questo cofanetto lei affronta anche la grandiosa Sonata n. 29 in si bemolle maggiore, op. 106, «Hammerklavier». Per la sua difficoltà questa pagina rimase ineseguita per anni, fino a quando Franz Liszt non infranse il tabù. E da poco anche lo stesso Pollini ha voluto registrarla di nuovo. «È come l’Everest. Le assicuro che tutte le volte che devo affrontarla in concerto è una giornata pesante. E lo è anche la notte prima» (ride). «Inutile dire che l’interpretazione di Pollini è insuperabile. In generale, tra le mie riscoperte citerei Alfred Brendel. Da giovane ero così immerso nella concezione musicale di Barenboim che non potevo apprezzarlo come invece faccio adesso». A proposito del suo maestro, che abbiamo più volte citato: mentre lei completava l’integrale delle Sonate, lui abbandonava definitivamente le scene a causa di una grave malattia neurologica. Cosa ha provato quando l’ha saputo?«Una tristezza tremenda. Barenboim è un uomo che ha sempre avuto un’energia e una creatività senza fine. Purtroppo tutti noi siamo sottomessi alla tirannia del corpo, che ha le sue regole e a un certo punto ti abbandona. E questo è sempre tragico. Anche Beethoven, tra l’altro, lo sapeva bene».Cosa intende dire?«Il compositore tedesco ha vissuto una vita piena di dolori (non dimentichiamo ad esempio la sua sordità) e il suo modo di comporre era una lotta immane. Lo si intuisce dai manoscritti e dalla musica che ci ha donato. Allo stesso tempo, la sua voce estremamente personale parla a tutta l’umanità. Quando affronta il suo dolore ha in mente il nostro. C’è un’idea di universalità nella sua musica, che non ho mai ritrovato altrove». Forse è per questo che quello che lei ha appena inciso su disco viene definito il «Nuovo Testamento della musica». «Credo che questo parallelo cristiano regga perché Beethoven si è sacrificato per noi. Mentre il Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach per certi versi rappresenta il Vecchio Testamento. È una musica profetica: totalmente umana, ma scritta davanti a una verità eterna, più grande di noi».
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Nel libro postumo Nobody’s Girl, Virginia Giuffre descrive la rete di abusi orchestrata da Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell e ripercorre gli incontri sessuali con il principe Andrea, confermando accuse già oggetto di cause e accordi extragiudiziali.