2025-05-04
Patriota, nazionalista e pure misogino. Che Guevara in mostra fa arrossire la sinistra
Ernesto Che Guevagara (Getty)
A Bologna carrellata di inediti e di contraddizioni del guerrigliero. Molto è taciuto perché dà fastidio: meglio la versione souvenir.La mostra Che Guevara. Tú y todos visitabile al Museo Archeologico di Bologna fino al 30 giugno svolge un importante e inaspettato servizio. Non soltanto espone materiali interessanti e storicamente rilevanti, ad esempio la Poderosa II a bordo della quale Ernesto Guevara de la Serna percorse il Latinoamerica scrivendo i celebri Diari della motocicletta, o ancora la sua bicicletta a motore. Ma soprattutto sintetizza - involontariamente - tutte le contraddizioni delle sinistre occidentali, ne fa esplodere i cortocircuiti e le contorsioni ideologiche, ne disvela impietosamente le ipocrisie. A partire dalla sala d’ingresso in cui si vendono simpatiche borse, poster, diari e altro merchandise con il marchio del Che. Viene in mente Checco Zalone quando chiede: «Della Che Guevara avete anche i borselli?», come se si trattasse di una griffe. E questa probabilmente è la più scontata e inevitabile delle eterogenesi: il guerrigliero nemico giurato dell’imperialismo e del capitalismo tramutato in iconcina commerciale ad uso di turisti sensibili al fascino della rivoluzione, almeno finché resta sulla carta fotografica. C’è tuttavia molto altro, almeno a livello di ipocrisia. Manca, per dire, qualsiasi riferimento alla feroce sorte delle opposizioni cubane, e ci mancherebbe altro visto che si tratta di una mostra celebrativa organizzata in una città rossa con la collaborazione dei famigliari del Che. Allo stesso modo, è assente ogni pur minimo riferimento ai disastri combinati qui e là dal comunismo reale, dal quale infatti a un certo punto il Che prese le distanze preferendo mollare gli incarichi di governo per tornare nella foresta a combattere. Niente sui gulag sovietici, niente sulla rieducazione forzata maoista, niente di niente. Eppure, non mancano i riferimenti ai pur veri rischi e dolorosi disastri causati dall’invadenza occidentale nelle Americhe. Di nuovo, anche questi silenzi sono antichi, e più che attesi. Decisamente meno scontata è la clamorosa distanza che la grandissima parte delle sinistre odierne - e non sempre in positivo - hanno marcato rispetto a quelle degli anni Sessanta e Settanta. Una distanza politica incolmabile. Che Guevara insiste, nei tantissimi testi e nei diari esposti a Bologna (per lo più in formato digitale virtuale, altra notevole divergenza rispetto al legame del Comandante con la terra e le tradizioni locali), sulla necessità di una lotta che fosse nazionale e patriottica. Egli si pone a tutti gli effetti come un patriota. Poi certo, non si negava viaggi in Unione Sovietica, in Cina e in altre nazioni dell’Internazionale comunista, ma è impossibile sostenere che non fosse legato a un luogo, a un confine, a un passato. Ebbene la sinistra che ora lo celebra ha demolito tutte queste aspirazioni, le ha liquidate come reazionarie, ha smantellato le identità e si è rifugiata nelle identity politics caratteristiche del wokismo. Ha scelto le rivendicazioni piagnucolose delle minoranze, di fronte a cui probabilmente Che Guevara avrebbe messo mano al mitragliatore. Certo, la decolonizzazione è parte fondamentale della battaglia guevarista, si potrebbe dire che il Comandante abbia voluto incarnarla, abbandonando Cuba prima per portare la guerriglia in Africa e poi in Bolivia. Ma quelle istanze sono state trasformate nelle bieche rivendicazioni censorie di quella che il critico letterario Harold Bloom battezzò «scuola del risentimento». Ed è soprattutto qui che si nota, impietoso, il trascorrere del tempo. Il Che ha sempre avuto un afflato eroico, un alone romantico che lo hanno fatto amare perfino in certi ambienti di destra. A suo modo, con i suoi lati oscuri e le sue ombre profonde, è stato prima di ogni altra cosa un eroe virile, un avventuriero e un combattente. Il piagnisteo gli era totalmente estraneo, l’azione prevaleva. Se dovesse manifestarsi oggi a Bologna, la città che lo eleva a profeta della rivoluzione onirica, sarebbe etichettato quale omofobo (e in effetti lo era), misogino e alfiere del patriarcato. Fa sorridere rileggere le missive che inviava ai primi suoceri per comunicare prima che aveva sposato senza dir nulla la loro figlia e poi per dichiarare che gli sarebbe senza dubbio nato un maschio, altro non poteva darsi (ebbe invece una femmina). Il suo antiglobalismo istintivo, la sua insistenza su quella che a tutti gli effetti appare come l’anima dei popoli lo fanno risultare incredibilmente anacronistico, anche se sicuramente meno disonesto dei suoi slavati epigoni. Quel che resta della sua identità è la caricatura danzante del Primo maggio, e forse è perfino meglio così. Di certo la sinistra cresciuta nel suo mito è meno pericolosa e per lo più meno violenta, e decisamente più simile a quelli che egli considerava nemici (a partire dagli odiati gringos). Il suo sguardo sulle magliette sdrucite nelle piazze e in certi cortei pro Pal assume allora un tono malinconico, di chi voleva battersi fino alla vittoria ed è condannato a contemplare una infinita sconfitta.
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