2023-06-30
«Padre Epifanio Pegoraro morì da martire in Cina ma per la Chiesa non esiste»
Il ricordo dell’ultimo depositario della sua memoria Rino Furlato: «I frati veneti promossero la sua beatificazione però ad oggi in Vaticano non risulta istruita alcuna pratica».A Roma, nella graziosa cappella dei corazzieri, interna alla caserma centrale delle guardie d’onore del capo dello Stato, all’altezza dell’altare svetta un affresco appartenente a un ciclo di sei opere dipinte, tra il 1963 e il 1968, dal brigadiere del reggimento Michelangelo Ravera. Il dipinto rappresenta il martirio, avvenuto in un’impervia località della Cina, di padre Luigi Epifanio Pegoraro, frate francescano e missionario, nato a Montecchio Maggiore (Vicenza) il 14 aprile 1898, che, dal febbraio 1917, fu arruolato nella scuola allievi Carabinieri e poi nei corazzieri, all’epoca «Squadrone Corazzieri del Re». Nel reggimento ottenne una tale stima che il comandante gli chiese di restare in servizio perenne, proponendogli anche la mano della figlia. La forza della fede, che coltivò anche a Roma frequentando il convento di San Bartolomeo, prevalse. Ottenuto il congedo, nel 1920, tornò in Veneto, per frequentare il convento francescano di Chiampo (Vicenza), inseguendo il desiderio nato quand’era bambino: diventare missionario in Cina e morire martire. Uno straccivendolo di nome Raffaele disse al padre Arcangelo: «Vedrai che tuo figlio diventerà frate, andrà in Cina, morirà martire e lo faranno santo». E così fu. Sequestrato nel lebbrosario di Mosimien, nel sud della Cina, dalle milizie comuniste di Mao Tse-Tung, padre Pegoraro fu costretto a una lunga via crucis e barbaramente ucciso nel dicembre 1935, a 37 anni, con un confratello della missione, lo spagnolo José Pascual Nadal y Oltra, di Alicante, 51 anni. Nel dopoguerra, i frati veneti si fecero promotori della richiesta d’istruttoria per la beatificazione di padre Pegoraro. Tuttavia, oggi, al dicastero vaticano per le cause di beatificazione, non risulta istruita alcuna pratica. Gli uffici della Santa Sede consigliano un approfondimento presso l’ordine dei Frati minori. Una telefonata al convento del santuario «Beato Claudio» di Chiampo, disvela la figura di un francescano, padre Rino Furlato, che è l’ultimo depositario della memoria di padre Pegoraro. Attraversato il verde metafisico del giardino della pieve, con ortensie e cipressi tosati, eccolo apparire nel corridoio d’ingresso del convento, mentre avanza a passi brevi ma decisi, con il saio, i piedi scalzi nelle ciabatte marroni e il pizzo candido. Il suo ufficio al primo piano, che si affaccia sull’antico cimitero, è pieno di faldoni ben ordinati sugli scaffali. Padre Rino, quanti anni ha e quali sono gli eventi principali della sua vita? «Ho 84 anni, sono nato il 23 giugno 1939 a Durlo (Vicenza, ndr), qui vicino, ai confini con le alture veronesi. Ho iniziato a Chiampo, da ragazzino, in quinta elementare, il percorso per diventare frate, poi gli studi. Sono stato ordinato sacerdote a 26 anni, a Verona, da monsignor Pacifico Perantoni, nel 1979 fui mandato a Lisbona a studiare il portoghese perché ero destinato ad andare missionario in Guinea Bissau, ex-Guinea portoghese, ancor oggi pochi cattolici e molti musulmani». Per quanti anni è stato missionario in Guinea Bissau?«Sono partito nel 1980, destinato alla curia diocesana a Bissau, che consisteva nel vescovo Settimio Arturo Ferrazzetta, di Selva di Progno, frate minore, primo vescovo della Guinea, ed io. Sono rimasto 40 anni, ho seguito una comunità locale e alcune missioni. Sono tornato in Veneto nel 2019 per operarmi ma, mentre facevo la radioterapia, è iniziato il Covid, aerei a terra. Sono stato accolto nel convento di Chiampo e passerò qui il resto della mia vita. Sono appena stato due mesi laggiù per scannerizzare i documenti su tutte le missioni dei frati veneti in Guinea».E la sua famiglia?«Figlio di contadini di montagna, 8 fratelli, 3 femmine e 5 maschi, 4 sono morti, una è quasi novantenne, l’ultimo è Antonio, 50 anni di sacerdozio, anche lui frate qui nel convento di Chiampo». Quando ha iniziato a interessarsi di padre Luigi Epifanio Pegoraro?«Quando ero bambino, perché c’era in casa il primo libro sulla sua vita pubblicato da un nostro frate, di Montecchio Maggiore, Tito Castagna, che è stato anche in Cina. Quando Mao dichiarò la Cina comunista, il 1° ottobre 1949, i missionari furono espulsi e ancor oggi non posso entrare». Da che famiglia proveniva?«Da una famiglia contadina, figlio unico, nato a Montecchio Maggiore, in una contrada sotto i castelli di Giulietta e Romeo. I suoi cattolicissimi. Durante un Venerdì Santo suonarono le campane per ricordare la morte di Gesù e il bambino Luigi, sentendole, chiese al papà della Passione. Poi disse: “Voglio andare missionario ed essere martire”. I genitori lo mandarono qui al convento di Chiampo a studiare come fratino». Venne poi il tempo del militare…«Fu chiamato nel 1917 come Carabiniere, perché, prima del Concordato del 1929, anche i frati dovevano fare il militare. Era alto 1 e 98, fu scelto come corazziere, stette circa 3 anni, fino al 1920, quando tornò in convento, continuò teologia e nel 1922 fu ordinato sacerdote dal cardinale La Fontaine, patriarca di Venezia. Alla fine del ’23, quando ricevette il crocifisso di missionario a Vicenza disse: “Che il mio sangue sprizzi e scenda fecondo per le anime dei poveri pagani cinesi”». Una profezia. Ma come nacque la sua volontà di andare missionario in Cina?«Perché a quel tempo i nostri frati veneti avevano una missione in Cina, a Han Kow, sullo Yang Tse Kiang, il «fiume azzurro», vicina a Wuhan, dove è nato il Covid. Lì fu Prefetto apostolico monsignor Epifanio Carlassare, anche lui di Montecchio, missionario. Quando morì, in Cina, il 24 luglio 1909, si celebrò il funerale a San Pietro Maggiore, a Montecchio e tra i fratini c’era anche Luigi Pegoraro. Qui nacque il suo desiderio di andare nello stesso posto, tanto che poi volle chiamarsi Epifanio». Quando partì? «Arrivò a Han Kow nel febbraio 1924, lavorava in Curia diocesana e al noviziato per i frati cinesi, insegnava latino, musica, suonava l’armonio, cantava, divenne rettore del seminario. Nel ’33 tornò in Italia, il papà era morto, fu ricevuto da Pio XI, andò a salutare i corazzieri. Poi ripartì per Han Kow, in nave da Brindisi a Shanghay, con il desiderio di andare tra i lebbrosi di Mosimien, oggi Moxy City, a 2000 metri, alle pendici del Tibet cinese, dove i frati stavano facendo una nuova missione che oggi esiste ancora ma con suore e sacerdoti cinesi».Giunto a Mosimien che successe?«Quando arriva, trova 130 malati di lebbra, li conforta, predica, confessa, fa catechismo, ma resta poco, perché, nel maggio 1935, irrompono i soldati comunisti di Mao diretti verso ovest nella “lunga marcia”, incalzati dall’esercito nazionalista di Chiang Kai-Shek, che si era diviso da Mao. Depredano la missione, sparano, percuotono i frati e ne rapiscono tre: padre Pegoraro, padre Nadal e padre Placido Albiero, di Lonigo. Padre Albiero era anziano, non riusciva a camminare e fu liberato, si salvò, morì 10 anni dopo. A lui Epifanio Pegoraro affidò l’ultima lettera scritta il 28 maggio 1935 alla madre (Elisabetta Tessari, visse oltre 100 anni, nel ricordo del figlio, ndr.): “Che gioia, che felicità immensa morire sgozzato accanto ai miei amici e figlioli lebbrosi”».Furono rapiti a scopo di riscatto? «Certo, da chiedere al governo di Mussolini. I due frati furono interrogati in un processo sommario anche dal comando supremo di Mao pare in sua presenza. Padre Pegoraro fu costretto a scrivere una lettera in cui parlava della richiesta dei comunisti di mezzo milione di dollari per la sua liberazione ma, in italiano, aggiunse che non si mandasse nulla (rivista I fratini di S. Antonio, gennaio 1937, ndr). Mussolini fece pressione sul governo dei nazionalisti di Chiang Kai-Shek, ma erano prigionieri dei comunisti. Si voleva sapere se erano vivi. Solo nel 1937 giunse un telegramma di Mao: “È vero che a Mosimien furono catturati due missionari europei, ma siccome non potevano seguire le marce furono abbandonati”. In realtà furono uccisi nel dicembre 1935».Come furono assassinati e quando giunse la notizia? «Si venne a sapere nel settembre 1940, attraverso una testimonianza oculare, che padre Pegoraro e padre Nadal, denutriti, sfiniti e con i piedi fasciati per le piaghe, furono decapitati con una sciabola da un subalterno di Mao (ai bordi di un dirupo a Lean Ho Kow, dopo 60 km di marcia, forse il 4 dicembre 1935, ndr). La testa di uno e il corpo dell’altro finirono in un torrente. Poi un anziano fu visto seppellire i resti dei due corpi. Le spoglia mai rimpatriate».Un frate fece un sogno…«Sì, padre Candido Rachelli, nato a Marano (Vicenza, ndr.) nel 1918, fu anche lui missionario in Cina. Una notte, in Veneto, il 12 dicembre 1935, ossia nei giorni in cui i due frati furono uccisi, sognò la scena del loro martirio senza saper nulla. Nella sua famiglia si erano verificati eventi prodigiosi… Un giorno una vecchina defunta consegnò la somma di denaro esatta per pagare un debito, poi scomparve».Un fatto che ricorda il Decalogo di Kieslowski. Chi si occupò di raccogliere la documentazione per aprire la causa di beatificazione di padre Epifanio?«Fu padre Giulio Bicego, francescano, è stato il mio professore di diritto canonico a Vittorio Veneto, ora è morto. La risposta fu che per la beatificazione sarebbe sufficiente il martirio, ma ci vuole documentazione più precisa…».Tuttavia il fatto è comprovato. E per padre Pasquale Nadal?«Bisognerebbe essere addentro, ma credo che la causa per la sua beatificazione sia in corso, perché basata sulle virtù, escludendo la prova del martirio».Sono entrambi martiri e santi…«In pratica sì, anche se la Chiesa non lo proclama ufficialmente».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.