2020-12-06
«Moorer batte la crisi e cresce del 20%»
Il fondatore del marchio famoso per i piumini e i capispalla di lusso: «Il prossimo anno apriremo tre boutique in Giappone, Russia e a Monaco. L’estero è ripartito, l’Italia non ancora. Lo sbarco in Cina? Aspettiamo, lì bisogna entrare in modo prepotente»È una questione di stile. Di vita, di scelte. E anche di innovazione, di ricerca che diventa riconoscibilità a prima vista. Non perché ci sia un logo in mostra, è tutta una questione di dettagli e sofisticata semplicità. Come nel cappotto in vicuna, la lana più fine al mondo, imbottito in piumino d’oca. Moorer, marchio di Castelnuovo del Garda (Verona), ha nel Dna piumini, giubbotti e capispalla di altissima qualità. E sfodera un +20% di fatturato in questo momento tremendo. Mai nulla nasce per caso. «Mentirei se parlassi di una bella storia di moda nata da una lontana passione», confessa Moreno Faccincani, ad e anima di Moorer. Come nasce, quindi, il suo legame con la moda?«I miei genitori avevano un piccolo laboratorio di confezioni a Castelnuovo del Garda, a nemmeno un chilometro da dove sorge ora la mia azienda. Ho respirato abbigliamento in tenera età ma non ero un appassionato. Non è andata cosi come piace spesso raccontarla. Vivevo la loro vita, nel piccolo laboratorio di 10/15 persone che cucivano per altre aziende e verso la fine anche per marchi importanti. Moda, allora, era un parolone. Ho sempre visto i tessuti e i bottoni diventare prodotti, la trasformazione dei materiali in capi finiti pronti per essere indossati». Ma alla fine ha deciso di occuparsi di abbigliamento.«Sì, perché quando ho finito la scuola e mi sono iscritto all’università la situazione del lavoro dei miei era difficile e non mi sentivo di proseguire gli studi. Ma ho pensato di mettermi dall’altra parte, da quella di chi dava lavoro ai miei. Vedendo le difficoltà, ho capito che per risolvere i problemi bisognava cambiare totalmente e smettere di confezionare per altri». Che accadde?«Da lì sono partito con un marchio da donna, Fejem, la mia prima esperienza. L’azienda è stata costruita nel 1999 e abbiamo prodotto solo Fejem per cinque o sei anni, marchio che andava molto bene, un ottimo prodotto rimpianto ancora da diversi consumatori perché ho smesso di produrlo. Già con Fejem avevo risolto tutti i problemi dei miei genitori, andati poi in pensione. Nel 2005 ho fatto nascere Moorer perché sentivo la necessità di un prodotto più alto. Ho creduto soprattutto di essere in grado di affrontare le sfide future attraverso un prodotto diverso, vedevo i cambiamenti. O spostavo tutto anche io in Cina o continuavo con il made in Italy ma ad alto livello. Fejem era solo donna, Moorer è nato per una sfida: mi dicevano che non sarei stato in grado di creare una collezione da uomo, e la mia risposta è stata questa. Con Moorer per i primi anni ho fatto solo uomo, la collezione donna è partita nel 2009/2010. Una provocazione che ha dato ottimi frutti».È stato subito un successo.«Ho puntato su un marchio solo e su un’eccellenza in un progetto di alto livello. Ho visto successi di altre aziende, nella mia esperienza professionale, dove trovavi o solo il marchio senza prodotto ma anche prodotti senza marchio. Ho voluto entrambi gli aspetti che significano made in Italy. Via via Moorer è cresciuto e non mi sono mai accontentato. Tutt’ora non mi accontento mai». Arriviamo ai numeri.«La notizia scioccante è che quest’anno noi registriamo un 20% in più. Un anno e mezzo fa è entrato il gruppo Borletti. Eravamo già un’azienda che stava crescendo. Abbiamo chiuso il 2019 con un fatturato consolidato a quota 30 milioni di euro e ci accingiamo a raggiungere i 35 milioni nel 2020. Cento i dipendenti. A causa dell’emergenza sanitaria abbiamo slittato al 2021 tutti i piani previsti per il 2020, quindi nei prossimi mesi intensificheremo la rete retail con tre monomarca a Osaka, Mosca e Monaco. L’apertura del negozio in Montenapoleone a Milano è avvenuta a inizio pandemia, ora è il negozio che sta soffrendo di più, è un disastro. Invece gli altri mercati stanno già crescendo in modo esponenziale».Quali sono i mercati che vanno meglio?«A livello estero i Paesi dove apriremo sono quelli dove abbiamo registrato le vendite maggiori da tempo, ma quest’anno siamo cresciuti di più in Nord Europa e in Nord America».Qual è un mercato dove ancora non siete ed è il vostro obiettivo?«La Cina. Siamo una delle rare aziende che lavorano pochissimo in Cina. Abbiamo buone probabilità di far bene visto che il nostro prodotto di lusso si presta per quel mercato. Fare un buon lavoro in Cina prevede investimenti importanti, non si riesce a fare una crescita graduale come negli altri Paesi. Non c’è il grande e bel negozio multibrand che acquista anche Moorer. Ci sono solo department store o negozi in strada molto costosi. Niente vie di mezzo. O si entra in Cina in maniera prepotente o non si entra. È ancora un mercato inesplorato per noi».I vostri capi sono accostabili solo a quelli di grandi marchi anche francesi che stanno nell’Olimpo della moda. «La particolarità di Moorer è di essere un prodotto outdoor sportivo elegante di fascia alta, mentre lo sportivo di fascia alta non esiste. Con una cura maniacale rispetto ai materiali e agli accessori. Non offriamo un total look né lo voglio fare nel breve periodo. Sto aggiungendo altri prodotti rispetto a quello che è il nostro core businness che è la giubbotteria. Siamo partiti con i piumini, con le giacche, e il 90% del nostro fatturato è quello adesso. Sto avviando la nostra proposta verso altri prodotti come i pantaloni. Non ho l’esigenza di creare un total look, ma sento la passione e la voglia di fare altre cose allo stesso livello. Adesso sto creando perfino dei profumi ma mi occupo sempre personalmente dei progetti nuovi, non delego ad altri: li voglio vivere personalmente e ognuno deve essere assolutamente in linea con la nostra immagine e la nostra storia. Ogni anno aggiungo un pezzo per arrivare in futuro al total look che oggi ancora non c’è». Il sogno nel cassetto?«Che Moorer esploda il più velocemente possibile. Per me, in questo momento, è solo un bruco, che deve ancora diventare farfalla».
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