Il senatore a vita si lancia in uno sperticato elogio della classe dirigente cinese: «Il processo di formazione del Partito comunista penso sia un procedimento di selezione perfino superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Peccato per libertà e democrazia.
Il senatore a vita si lancia in uno sperticato elogio della classe dirigente cinese: «Il processo di formazione del Partito comunista penso sia un procedimento di selezione perfino superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Peccato per libertà e democrazia.Mario Monti batte di slancio il record detenuto… da Mario Monti. Se infatti una delle frasi meno felici degli ultimi anni era stata pronunciata proprio dal senatore a vita, a novembre 2021, in tv su La7 («Bisogna trovare delle modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione»), è stato lo stesso ex premier, domenica sera, ad alzare ancora l’asticella.Il fattaccio è accaduto durante la puntata di Speciale Tg1 trasmessa da Cernobbio, e andata in onda domenica scorsa su Rai1. Titolo pomposo: «Il mondo che sarà. Scenari economici e geopolitici». Ospiti Monica Maggioni (direttrice del Tg1), Maurizio Molinari (direttore di La Repubblica), Alec Ross (presentato come esperto di innovazione e tecnologia), e ovviamente Mario Monti (senatore a vita e presidente della Bocconi).Al di là dei prevedibili e reiterati pistolotti contro il populismo, i temi sul tavolo erano di notevole rilievo: la guerra in Ucraina e le nuove sfide a cui sono chiamate le nostre democrazie. A un certo punto, Alec Ross ha fatto notare che «i cinesi guardano al conflitto in Ucraina pensando a Taiwan». A ruota, la Maggioni ha richiamato pure i media a non cadere vittime del «fascino dei regimi autocratici». Ha detto la direttrice del Tg1: «Anche la narrativa con cui decidiamo di raccontare il tempo che viviamo è importante. Se accettiamo di dire che chi guida un regime è “più leader” rispetto a chi guida le democrazie allora stiamo anche noi indebolendo le democrazie…».È bastato attendere pochi istanti ed è stato proprio Mario Monti ad adottare questo schema di ragionamento. Prima un esordio ambiguo e divisivo («Io penso che le nostre democrazie siano molto forti: i loro nemici sono al loro interno, non sono i Paesi autocratici»). Poi una considerazione più banale e tautologica: «Le debolezze delle nostre democrazie le rendono poco funzionali nel servire i cittadini, e quindi i cittadini si lasciano magari affascinare dai regimi autocratici». Quindi l’indicazione di due «vizi» delle nostre democrazie. Il primo, secondo Monti, è «l’orizzonte brevissimo: non vengono prese decisioni con un’analisi a lungo termine, e ciascuno vuole monetizzare in termini di consenso elettorale». Il secondo ha a invece a che fare con il «processo di selezione per le leadership politiche». Tenetevi forte, perché qui è arrivata la bomba. Secondo Monti, «si può dire tutto il male possibile del regime autocratico cinese, ma io penso che, come capacità e volontà di guardare al lungo periodo e di programmarlo, siano di fatto superiori a noi, e credo che il processo - che sarà sicuramente spietato e nell’ombra per molti aspetti - di formazione della classe dirigente politica attraverso la scuola del Partito comunista cinese probabilmente sia un processo di selezione perfino superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Avete letto bene: sarà pure spietato, ma - secondo Monti - il meccanismo attraverso cui si formano le leadership e le classi dirigenti nel regime comunista di Pechino è «superiore a quello delle primarie degli Stati Uniti». Un’inquadratura forse sfuggita alla regia ha mostrato un Alec Ross attonito, e un Maurizio Molinari al cui proverbiale autocontrollo è sfuggito un sopracciglio visibilmente inarcato. Ciò che colpisce è la naturalezza con cui Monti è sembrato mettere tra parentesi il fatto che il processo di selezione alla cinese non preveda né libertà, né democrazia, né stato di diritto, né libera circolazione delle élites, né tantomeno possibilità di dissenso e di libera espressione da parte dei cittadini, e sia invece basato sulla violenza di Stato e di partito, organizzata e scientificamente praticata. Da questo punto di vista, il problema non si limita agli espliciti amici delle autocrazie, ma riguarda anche quei tecnocrati che, in nome di un malinteso realismo, sembrano misurare la performance di un sistema indipendentemente dai metodi adottati (democratici o no, basati sulla libertà o no). Ma del resto, perché stupirsi? Nella retina della nostra memoria sono rimaste le immagini del 2019 di Xi Jinping accolto al Quirinale come un imperatore (con tanto di scorta d’onore di corazzieri a cavallo), la sua presenza troneggiante sulla prima pagina del Corriere della Sera, che già mesi prima, a fine 2018, attraverso il proprio supplemento economico, aveva insignito il tiranno cinese del titolo di personaggio dell’anno con questa motivazione celebrativa: «Non c’è nessuno al governo in Occidente che si sia battuto bene come lui per rafforzare il proprio Paese senza confondere l’interesse nazionale con il proprio di breve respiro e che abbia al tempo stesso cercato di presentare la propria nazione come portatrice di valori». Non occorrono molti commenti. O, retrocedendo ancora nel tempo e uscendo dai nostri confini, resta memorabile l’accoglienza trionfale riservata al dittatore di Pechino a Davos nel 2017, con l’establishment progressista mondiale (e - inutile dirlo - quello italiano) in prima fila a spellarsi le mani, a farsi vedere, a farsi intervistare nei giorni successivi, per lasciare a verbale il proprio plauso a Xi come alternativa allo sgradito Donald Trump. La capitolazione ideale ed etica, non solo politica ed economica, viene da lontano.
La gentrificazione - cioè l’esproprio degli spazi identitari, relazionali e storici - quelli che Marc Augé ci consegna come i luoghi in opposizione ai non luoghi ha fatto sì che i ristoranti assumano sempre di più desolatamente le sembianze dello spaccio di calorie non obbedendo più a quella cucina urbana che è stata grandissima anche nelle case borghesi dall’Artusi in avanti.
Il miliardario cambia idea, niente catastrofe climatica. Apre il circo della COP30. Cina, sale il prezzo del carbone. Russia e Turchia in trattativa sul gas.
Allarme Coldiretti: «Il porto di Rotterdam è un colabrodo, il 97% dei prodotti non subisce esami». Il ministro incalza Bruxelles.
In ballo ci sono malcontati 700 miliardi di euro, quasi un terzo del Pil generato dall’agroalimentare, oltre che la salute, eppure l’Europa non protegge i campi. Perciò l’Italia si candida a sentinella della qualità e della salubrità delle merci che arrivano dall’estero. Francesco Lollobrigida annuncia: «Chiederemo che venga assegnata all’Italia l’autorità doganale europea». È la risposta all’allarme lanciato dalla Codiretti nella sua tre giorni di Bologna. Ha ammonito il presidente Ettore Prandini: «Con 97 prodotti alimentari stranieri su 100 che entrano nell’Ue senza alcun controllo, approfittando di porti “colabrodo” come Rotterdam, serve un sistema realmente efficace di controlli alle frontiere per tutelare la salute dei cittadini e difendere le imprese agroalimentari dalla concorrenza sleale che mette a rischio i nostri record».
Sigfrido Ranucci (Ansa)
Ennesimo scontro tra la trasmissione Rai e l’Autorità, che dice: «Inchiesta errata sugli Smart glasses, il servizio non vada in onda». La replica: «È danno erariale».
Non si ferma lo scontro tra Report, la trasmissione di Rai 3 condotta da Sigfrido Ranucci e il Garante della privacy. Anche questa settimana, alla vigilia della puntata di stasera, l’Autorità di controllo ha chiesto alla Rai lo stop alla messa in onda di un servizio sulle attività del Garante. Report ha infatti pubblicato sui social una clip con l’anticipazione di un’inchiesta sull’istruttoria portata avanti dal Garante della privacy nei confronti di Meta, relativa agli Smart glass, gli occhiali da sole che incorporano due obiettivi in grado di scattare foto e registrare filmati. Il servizio di Report punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio dell’Autorità Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia, «prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni».






