2022-02-02
Ci lascia (di nuovo) la diva poliedrica che ha saputo vivere di fama e di oblio
Monica Vitti (Getty Images)
Musa di Michelangelo Antonioni, regina della commedia con Alberto Sordi, è morta ieri a 90 anni. Non appariva dal 2001 per una grave patologia.Con Bernardo Bertolucci, Monica Vitti non ha mai lavorato, ma c’è un antico verso del padre del regista, il grande poeta parmigiano Attilio, che sintetizza in modo perfetto la condizione vissuta durante gli ultimi due decenni dall’attrice romana, scomparsa ieri, novantenne, nella sua città natale: «Assenza, più acuta presenza». Quanto più si prolungava la sua lontananza da set, palcoscenici e studi televisivi, a causa della patologia degenerativa che almeno a partire dall’inizio del terzo millennio ne aveva irrimediabilmente minato le facoltà cognitive, tanto più Monica Vitti faceva avvertire la propria essenza, il proprio carisma, la propria unicità. Presso i suoi tanti estimatori, certo, ma soprattutto presso le sue colleghe più giovani, anche quelle quasi esordienti, che immancabilmente nelle interviste la citavano - e la citano, e la citeranno - come riferimento assoluto e, in quanto tale, solo ammirabile e studiabile ma non raggiungibile.Il vero nome di Monica Vitti, com’è noto, era Maria Luisa Ceciarelli. Vitti viene dall’abbreviazione del cognome da nubile dell’amata - e prematuramente perduta - madre, Adele Vittiglia, che era bolognese (mentre il padre plurifedifrago, Angelo, era «romano de Roma»). Una decisione presa, particolare curioso, mentre la ragazza, da poco diplomatasi all’Accademia d’arte drammatica diretta da Silvio D’Amico, si trovava, a Roma, in un bar di Piazza Bologna. Pur venendo identificata con la Città Eterna, Monica visse gran parte dell’infanzia a Messina, poiché lì lavorava il padre, ispettore dell’Istituto nazionale per il commercio estero, stabilendosi nella capitale sul finire degli anni Trenta dopo un’ulteriore breve sosta della famiglia a Napoli. E l’infanzia siciliana rappresenterà il momento nodale di tutta la sua esistenza. Nodale perché decisivo, ma anche perché costituirà sempre un nodo inestricabile, un grumo di avvenimenti che la bambina e poi ragazza e poi donna Maria Luisa deciderà più o meno scientemente di rimuovere. Monica ne parla diffusamente, quasi ossessivamente, nel suo primo libro autobiografico, Sette sottane, uscito nel 1993, soffermandosi sugli anni messinesi molto più che sulla sua straordinaria carriera o sugli amori con Michelangelo Antonioni, con il direttore della fotografia Carlo Di Palma e con il fotografo di scena Roberto Russo, suo ultimo e - sino alla fine - devoto compagno.In Sette sottane, titolo che evoca la freddolosità della piccola Maria Luisa, l’attrice lascia intendere di aver assistito, in seguito cancellandole dalla memoria, a una o più situazioni scabrose tra i suoi genitori, il cui rapporto era minato in particolare dalle infedeltà paterne di cui già si è detto. La dimenticanza diviene così, assieme agli incubi che ne visiteranno inesorabilmente i sonni, una specie di filo conduttore dell’esistenza della Vitti, che nell’autobiografia si descrive come una persona fatalmente vocata all’oblio. Molti brani del libro sono eloquenti. L’incipit, ad esempio: «Ad un certo punto della mia vita, a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare». E poi, ancora: «Sbiadiscono anche le persone, come in una nebbia. Restano solo dei colori, dei movimenti, dei suoni» (p. 61). E: «Ma non dimentico solo le cose brutte. Dimentico tutto» (p. 111). E tanti altri se ne potrebbero riportare. Quello di Monica appare dunque come un destino segnato, già scritto, per cui la sua vita non poteva che concludersi, in un epilogo eccezionalmente lungo nella sua immodificabilità, così come si è conclusa, cioè nell’assenza di ricordi. E sì che di fatti da rimembrare la biografia della Vitti ne conta a iosa. Al di là del privato, ci sono gli esordi teatrali con Sergio Tofano; i primi film da protagonista con Antonioni nell’epocale tetralogia sull’incomunicabilità iniziata nel 1960 con L’avventura e conclusasi nel 1964 con Deserto rosso; le esperienze come doppiatrice, tra gli altri con Pasolini che nel 1961 le fece dare voce - con quel timbro roco che l’apparentava a un’altra grande artista romana, Gabriella Ferri - ad Ascenza, la moglie di Franco Citti-Accattone; la consacrazione come diva sexy grazie al film spionistico inglese Modesty Blaise - La bellissima che uccide, diretto nel 1966 da Joseph Losey; i film di e con Alberto Sordi, da Amore mio aiutami del 1969, in cui viene brutalmente picchiata da Albertone (sua controfigura era nell’occasione Fiorella Mannoia), a Io so che tu sai che io so del 1982, in cui Sordi ne valorizza al meglio la versatilità e l’abilità nel mutare registro.All’Accademia d’arte drammatica, Monica Vitti sarà anche docente, insegnando pure lì l’arte del dimenticare e del dimenticarsi, incitando gli allievi al distacco da sé, all’obliterazione dell’Io, al completo abbandono al personaggio. Oltre all’oblio, però, nella sua parabola è contenuto, specularmente, il ricordo. Nessuno più, infatti, si dimenticherà di lei. E la sua assenza, che è adesso anche fisica, seguiterà a essere un’acutissima presenza.
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