2023-03-20
La nascita della mitragliatrice e i modelli italiani che fecero la storia
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Fiat-Revelli mod.1914 durante la Grande Guerra (Getty Images)
All’inizio furono gli «organi», armi sperimentali del Rinascimento. Leonardo da Vinci, genio poliedrico, non mancò di progettarne uno nel Codice Atlantico. L’antenato della moderna mitragliatrice, strumento sognato lungo i secoli per aumentare la potenza di fuoco in battaglia, constava sostanzialmente di un numero variabile di canne ad avancarica di piccolo calibro che sparavano contemporaneamente un numero variabile di pallettoni. Nota anche come ribadocchino, non ebbe ampia diffusione a causa delle difficoltà e dei tempi di caricamento delle armi dell’epoca. Solo nel XVIII secolo, precisamente nel 1718, in Inghilterra fu realizzata un’arma a ripetizione che per forma e principio può essere considerata una progenitrice del fucile mitragliatore. La Puckle gun, inventata dall’avvocato londinese James Puckle, era sostanzialmente un revolver a canna lunga al cui tamburo fu applicato un meccanismo a ingranaggi che permetteva lo sparo a ripetizione. La curiosità che riguarda questa proto-mitragliatrice è che il suo utilizzo (molto limitato) ebbe un risvolto religioso. Si inserì infatti nelle lotte interne tra Protestanti e Cattolici in Gran Bretagna e Irlanda e l’arma era pubblicizzata come «arma per la causa protestante», senza mezzi termini. Ma anche contro i pirati musulmani del Mediterraneo come strumento efficace per arrestare gli arrembaggi alle navi. Per i Turchi l’inventore suggeriva l’uso di pallottole quadrate invece dei normali pallettoni, in quanto «maggiormente dannose». Alla fine l’arma di Puckle fu rifiutata dall’esercito britannico al quale era stata proposta per l’inaffidabilità dell’innesto a pietra focaia.
Alla metà del secolo XIX nel campo delle armi a ripetizione vi fu un ulteriore passo in avanti con un modello che, pur non ancora automatico, sparava colpi alternati e non simultanei come le precedenti mitragliatrici pluricanna. Si trattava della Claxton .690 (dal nome del colonnello americano che la inventò, F.S. Claxton), una delle prime mitragliatrici prodotte in piccola serie anche dalla licenziataria belga Désiré Lachaussée. Tecnicamente la .690 (dal calibro che in Italia corrisponde a 25mm) era dotata di un cilindro che alloggiava sei canne rotanti alimentate da un meccanismo che prevedeva un pozzo munizioni gestito da un servente, le quali venivano immesse nelle due canne centrali. Tramite una leva posta in fondo all’arma un sistema meccanico garantiva lo sparo alternato di due canne, che al loro surriscaldamento venivano sostituite da quelle successive contenute nel cilindro. La cadenza era di 80 colpi al minuto. Quest’arma era presente in Vaticano il giorno della presa di Porta Pia a disposizione del generale Hermann von Kanzler, a capo delle truppe pontificie. Posizionata nei pressi di Porta San Giovanni, non entrò tuttavia in azione il 20 settembre 1870.
Tredici anni dopo, nel 1883, la nascita della prima mitragliatrice automatica progenitrice di quelle attuali. Il brevetto fu depositato da Hiram Maxim, inventore americano di stanza a Londra. La rivoluzione della sua mitragliatrice stava nella completa automatizzazione del colpo a ripetizione, grazie allo sfruttamento meccanico della forza di rinculo che azionava un sistema di ricarica dei proiettili per mezzo di molle e ingranaggi. La Maxim aveva una cadenza di fuoco fino a 600 colpi/minuto con proiettili calibro 303 britannici (cal 7,7 in Italia) ed era raffreddata per la prima volta ad acqua grazie al manicotto cilindrico attorno alla canna. La Maxim fu la progenitrice di molte mitragliatrici prodotte nei diversi Paesi e alla base della britannica Vickers, colosso delle armi del Regno Unito che assorbirà più tardi l’azienda fondata dall’inventore della moderna mitragliatrice. La Maxim fu una delle armi protagoniste delle guerre coloniali britanniche di fine Ottocento, come il conflitto Anglo-boero del 1899 e fu usata anche durante la Grande Guerra. Anche il Regio Esercito ne fece uso all’inizio del conflitto, avendola inizialmente preferita a quelle di produzione nazionale.
Proprio durante la prima guerra mondiale, dove le armi automatiche fecero la differenza nella prima vera guerra tecnologica, l’industria delle armi italiana progredì rapidamente, fatto che portò alla realizzazione di una delle mitragliatrici medie più diffuse di tutto il conflitto: la Fiat-Revelli modello 1914. Già nel 1908 un capo tecnico dell’esercito, Giuseppe Perino, realizzò la prima arma automatica di fabbricazione italiana, la Modello 1908. Come la Maxim, la mitragliatrice Perino era completamente automatica ed era alimentata con il calibro 6,5 dei fucili Carcano in dotazione al Regio Esercito, pesava 27 kg ed aveva una cadenza di fuoco di 450 colpi al minuto. Si trattava di un’arma all’avanguardia, che tuttavia non fu mai prodotta in grandi numeri per l’iniziale diffidenza dei Comandi nei confronti delle armi pesanti, una visione ristretta che fece rischiare gravi svantaggi allo scoppio delle ostilità. Alle poche Perino in dotazione e alle mitragliatrici straniere, si affiancò quella che più tardi risulterà la mitragliatrice più diffusa di tutta la Grande Guerra, costruita dall’unica grande azienda in grado di offrire una grande capacità produttiva in serie, la Fiat del Senatore Giovanni Agnelli. Progettata dall’ingegnere Bethel Abiel Revelli de Beaumont, l’arma fu presentata nel 1911 per le prove e il periodo sperimentale previsto dalle normative. Tra gli esperti, i pareri sulla Fiat-Revelli si sono divisi. Alcuni la ritengono meno affidabile e maneggevole della Perino, puntando il dito sul potere politico della Fiat che avrebbe imposto il proprio modello. Altri invece ne sottolineano la longevità e la grande diffusione come contributo all’armamento dell’esercito durante la Grande Guerra. Tecnicamente, l’arma aveva un peso di 38,5 Kg senza treppiede con cadenza di tiro da 500 colpi/minuto (teorica) con gittata a 2.500 metri. I proiettili erano i classici Carcano cal 6,5 usati anche dai fucili modello 91. Fu costruita presso le officine della Società Metallurgica Bresciana (SMB) e nella città lombarda fu fondata la scuola mitraglieri dell’Esercito, dalla quale uscivano gli uomini delle Compagnie mitraglieri Fiat della quali fece parte anche il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini. La modello 1914 fu la mitragliatrice standard per tutti i conflitti successivi che interessarono l’Italia, dall’Etiopia alla Guerra di Spagna. In queste ultime due campagne la mitragliatrice fu soggetta ad un aggiornamento dal quale nacque la Revelli 14/35, frutto della modifica delle esistenti 1914 ma con calibro portato agli 8mm come la mitragliatrice Breda e il raffreddamento ad aria, che permetteva l’eliminazione del serbatoio dell’acqua da 18 kg e relativo servente.
Nel primo dopoguerra un’altra grande azienda meccanica sviluppò una delle mitragliatrici pesanti protagoniste del secondo conflitto mondiale, la Breda. Già attiva nella produzione di armi automatiche leggere, fece partire il progetto della nuova mitragliatrice, dalla Modello 5C, di fatto un fucile mitragliatore. Ne uscì una delle armi più diffuse tra il 1940 e il 1945, la Breda Mod. 30 attiva su tutti i fronti, dall’Africa, alla Grecia, alla Russia. Era un’arma dalla meccanica raffinata, sebbene altrettanto delicata. Dotata di otturatore solidale e corto rinculo, aveva un sistema di lubrificazione del proiettile in canna ad olio, molto sensibile alla polvere ed alle basse temperature. Precisa nel tiro, era tuttavia soggetta a frequenti inceppamenti e a surriscaldamenti a causa sia degli agenti atmosferici come sabbia e gelo (costantemente presenti in Nord Africa come in Russia) che per l’elevato calore durante lo sparo che avveniva peraltro ad otturatore chiuso. Nonostante questi non trascurabili difetti, fu prodotta in oltre 30.000 pezzi ai quali si aggiunse un altro modello del colosso italiano, la Mod. 37, a tutti gli effetti una «pesante». A differenza della Mod.30 la nuova mitragliatrice aveva una gittata molto più lunga (ben 5.000 metri) e usava proiettili appositi calibro 8x 59mm simili a quelli tedeschi. Molto più affidabile della Mod.30, poteva anche essere utilizzata come pezzo contraerei una volta montata su apposito affusto. L’unica pecca di un’arma molto affidabile era il peso rispetto ad altre armi equivalenti, di quasi 20 kg senza treppiede, ma nonostante ciò rimaneva l’arma automatica più avanzata tanto che sarà impiegata a lungo anche nel dopoguerra e all’estero, quando fu usata durante la guerra coloniale portoghese. La Breda 37 fu l’ultima pesante progettata e costruita in Italia e alcuni pezzi rimasero in servizio fino alla fine degli anni Sessanta. Con l’ingresso dell’Italia nella Nato infatti, la standardizzazione degli armamenti e delle munizioni vedrà la predominanza di modelli inglesi e americani o evoluzioni di armi dell’ultima guerra come la Beretta Franchi MG42/59 introdotta alla fine degli anni Cinquanta, che altro non era se non una versione ammodernata della mitragliatrice tedesca, la MG42.
Il primo fucile mitragliatore era italiano.
Un primato italiano riguarda invece la storia dei fucili mitragliatori o submachine gun. E’il caso del fucile mitragliatore OVP 1918, dove la sigla sta per «Officine di Villar Perosa», una azienda specializzata in costruzioni meccaniche e cuscinetti a sfera dell’orbita Fiat. L’archetipo del mitra moderno nacque nelle officine piemontesi dove si costruivano biciclette per bersaglieri, serbatoi per autocarri e altre forniture militari ancora una volta dal genio di Revelli de Beaumont. In origine la pistola mitragliatrice battezzata Fiat- Revelli mod.1915 fu impiegata in modo limitato e spesso montata sugli aeroplani da caccia per il suo peso contenuto. A terra invece fu trattata erroneamente come un’arma difensiva e dotata di un pesante scudo protettivo che ne limitava la mobilità. Solo nel 1917 e per iniziativa del generale Luigi Capello la pistola mitragliatrice, appaltata definitivamente alle Officine di Villar Perosa e marchiata da queste ultime, fu finalmente impiegata per azioni offensive portate avanti in particolare dagli Arditi e fu sottoposta ad importanti modifiche che la resero sempre più vicina ad un moderno fucile mitragliatore. Originariamente la OVP era un’arma binata, con due canne e due singoli caricatori di forma semilunata da 25 colpi ciascuno rivolti verso l’alto. Il manico era quello tipico a doppia maniglia delle mitragliatrici e poteva essere dotata di un bipiede. Per permettere la rapidità di trasporto e la prontezza al fuoco fu applicato all’arma un supporto a cinghia che passava attorno al collo del mitragliere e fu aggiunto un calcio in legno per agevolarne l’impugnatura, che rendeva l’arma della OVP esteticamente molto vicina ad un fucile più che ad una mitragliatrice leggera. La potenza di fuoco era da record: la cadenza di fuoco (teorica) era di ben 3.000 colpi/minuto, velocità che faceva esaurire i due caricatori in circa un secondo, risultando superiore ad ogni altra arma automatica in uso nella Grande Guerra. Non mancavano i difetti, come ad esempio la mancanza di un sistema di raffreddamento che imponeva lunghe pause. Verso la fine della guerra, nel 1918, una singola canna della Villar Perosa mod. 1915 fu impiegata fornita di calciolo e ribattezzata OVP 1918. Era il primo fucile mitragliatore italiano, dotato di selettore per colpo singolo o a raffica regolato da due distinti grilletti per le due cadenze di fuoco e caratterizzato da un calcio molto simile a quello del Carcano '91. Utilizzando lo stesso schema tecnico, la Beretta progettò il suo primo fucile mitragliatore, Il Moschetto Automatico Beretta 1918 o MAB/18, che fu utilizzato anch’esso dagli Arditi e in seguito durante la guerra d’Etiopia, affiancato più tardi dalla sua evoluzione, il Beretta MAB/38, che rimarrà in servizio fino agli anni Settanta in dotazione ad Esercito, Polizia e Arma dei Carabinieri. Sia la Villar Perosa che i MAB utilizzarono i proiettili Glisenti calibro 9mm, nati per utilizzo sulle pistole.
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Nel 1883 Hiram Maxim brevettò la prima mitragliatrice automatica al mondo, che cambiò per sempre la storia bellica. Largamente utilizzata nella Grande Guerra, fu caratterizzata da numerosi primati italiani. E italiano fu il primo fucile mitragliatore.All’inizio furono gli «organi», armi sperimentali del Rinascimento. Leonardo da Vinci, genio poliedrico, non mancò di progettarne uno nel Codice Atlantico. L’antenato della moderna mitragliatrice, strumento sognato lungo i secoli per aumentare la potenza di fuoco in battaglia, constava sostanzialmente di un numero variabile di canne ad avancarica di piccolo calibro che sparavano contemporaneamente un numero variabile di pallettoni. Nota anche come ribadocchino, non ebbe ampia diffusione a causa delle difficoltà e dei tempi di caricamento delle armi dell’epoca. Solo nel XVIII secolo, precisamente nel 1718, in Inghilterra fu realizzata un’arma a ripetizione che per forma e principio può essere considerata una progenitrice del fucile mitragliatore. La Puckle gun, inventata dall’avvocato londinese James Puckle, era sostanzialmente un revolver a canna lunga al cui tamburo fu applicato un meccanismo a ingranaggi che permetteva lo sparo a ripetizione. La curiosità che riguarda questa proto-mitragliatrice è che il suo utilizzo (molto limitato) ebbe un risvolto religioso. Si inserì infatti nelle lotte interne tra Protestanti e Cattolici in Gran Bretagna e Irlanda e l’arma era pubblicizzata come «arma per la causa protestante», senza mezzi termini. Ma anche contro i pirati musulmani del Mediterraneo come strumento efficace per arrestare gli arrembaggi alle navi. Per i Turchi l’inventore suggeriva l’uso di pallottole quadrate invece dei normali pallettoni, in quanto «maggiormente dannose». Alla fine l’arma di Puckle fu rifiutata dall’esercito britannico al quale era stata proposta per l’inaffidabilità dell’innesto a pietra focaia. Alla metà del secolo XIX nel campo delle armi a ripetizione vi fu un ulteriore passo in avanti con un modello che, pur non ancora automatico, sparava colpi alternati e non simultanei come le precedenti mitragliatrici pluricanna. Si trattava della Claxton .690 (dal nome del colonnello americano che la inventò, F.S. Claxton), una delle prime mitragliatrici prodotte in piccola serie anche dalla licenziataria belga Désiré Lachaussée. Tecnicamente la .690 (dal calibro che in Italia corrisponde a 25mm) era dotata di un cilindro che alloggiava sei canne rotanti alimentate da un meccanismo che prevedeva un pozzo munizioni gestito da un servente, le quali venivano immesse nelle due canne centrali. Tramite una leva posta in fondo all’arma un sistema meccanico garantiva lo sparo alternato di due canne, che al loro surriscaldamento venivano sostituite da quelle successive contenute nel cilindro. La cadenza era di 80 colpi al minuto. Quest’arma era presente in Vaticano il giorno della presa di Porta Pia a disposizione del generale Hermann von Kanzler, a capo delle truppe pontificie. Posizionata nei pressi di Porta San Giovanni, non entrò tuttavia in azione il 20 settembre 1870.Tredici anni dopo, nel 1883, la nascita della prima mitragliatrice automatica progenitrice di quelle attuali. Il brevetto fu depositato da Hiram Maxim, inventore americano di stanza a Londra. La rivoluzione della sua mitragliatrice stava nella completa automatizzazione del colpo a ripetizione, grazie allo sfruttamento meccanico della forza di rinculo che azionava un sistema di ricarica dei proiettili per mezzo di molle e ingranaggi. La Maxim aveva una cadenza di fuoco fino a 600 colpi/minuto con proiettili calibro 303 britannici (cal 7,7 in Italia) ed era raffreddata per la prima volta ad acqua grazie al manicotto cilindrico attorno alla canna. La Maxim fu la progenitrice di molte mitragliatrici prodotte nei diversi Paesi e alla base della britannica Vickers, colosso delle armi del Regno Unito che assorbirà più tardi l’azienda fondata dall’inventore della moderna mitragliatrice. La Maxim fu una delle armi protagoniste delle guerre coloniali britanniche di fine Ottocento, come il conflitto Anglo-boero del 1899 e fu usata anche durante la Grande Guerra. Anche il Regio Esercito ne fece uso all’inizio del conflitto, avendola inizialmente preferita a quelle di produzione nazionale. Proprio durante la prima guerra mondiale, dove le armi automatiche fecero la differenza nella prima vera guerra tecnologica, l’industria delle armi italiana progredì rapidamente, fatto che portò alla realizzazione di una delle mitragliatrici medie più diffuse di tutto il conflitto: la Fiat-Revelli modello 1914. Già nel 1908 un capo tecnico dell’esercito, Giuseppe Perino, realizzò la prima arma automatica di fabbricazione italiana, la Modello 1908. Come la Maxim, la mitragliatrice Perino era completamente automatica ed era alimentata con il calibro 6,5 dei fucili Carcano in dotazione al Regio Esercito, pesava 27 kg ed aveva una cadenza di fuoco di 450 colpi al minuto. Si trattava di un’arma all’avanguardia, che tuttavia non fu mai prodotta in grandi numeri per l’iniziale diffidenza dei Comandi nei confronti delle armi pesanti, una visione ristretta che fece rischiare gravi svantaggi allo scoppio delle ostilità. Alle poche Perino in dotazione e alle mitragliatrici straniere, si affiancò quella che più tardi risulterà la mitragliatrice più diffusa di tutta la Grande Guerra, costruita dall’unica grande azienda in grado di offrire una grande capacità produttiva in serie, la Fiat del Senatore Giovanni Agnelli. Progettata dall’ingegnere Bethel Abiel Revelli de Beaumont, l’arma fu presentata nel 1911 per le prove e il periodo sperimentale previsto dalle normative. Tra gli esperti, i pareri sulla Fiat-Revelli si sono divisi. Alcuni la ritengono meno affidabile e maneggevole della Perino, puntando il dito sul potere politico della Fiat che avrebbe imposto il proprio modello. Altri invece ne sottolineano la longevità e la grande diffusione come contributo all’armamento dell’esercito durante la Grande Guerra. Tecnicamente, l’arma aveva un peso di 38,5 Kg senza treppiede con cadenza di tiro da 500 colpi/minuto (teorica) con gittata a 2.500 metri. I proiettili erano i classici Carcano cal 6,5 usati anche dai fucili modello 91. Fu costruita presso le officine della Società Metallurgica Bresciana (SMB) e nella città lombarda fu fondata la scuola mitraglieri dell’Esercito, dalla quale uscivano gli uomini delle Compagnie mitraglieri Fiat della quali fece parte anche il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini. La modello 1914 fu la mitragliatrice standard per tutti i conflitti successivi che interessarono l’Italia, dall’Etiopia alla Guerra di Spagna. In queste ultime due campagne la mitragliatrice fu soggetta ad un aggiornamento dal quale nacque la Revelli 14/35, frutto della modifica delle esistenti 1914 ma con calibro portato agli 8mm come la mitragliatrice Breda e il raffreddamento ad aria, che permetteva l’eliminazione del serbatoio dell’acqua da 18 kg e relativo servente. Nel primo dopoguerra un’altra grande azienda meccanica sviluppò una delle mitragliatrici pesanti protagoniste del secondo conflitto mondiale, la Breda. Già attiva nella produzione di armi automatiche leggere, fece partire il progetto della nuova mitragliatrice, dalla Modello 5C, di fatto un fucile mitragliatore. Ne uscì una delle armi più diffuse tra il 1940 e il 1945, la Breda Mod. 30 attiva su tutti i fronti, dall’Africa, alla Grecia, alla Russia. Era un’arma dalla meccanica raffinata, sebbene altrettanto delicata. Dotata di otturatore solidale e corto rinculo, aveva un sistema di lubrificazione del proiettile in canna ad olio, molto sensibile alla polvere ed alle basse temperature. Precisa nel tiro, era tuttavia soggetta a frequenti inceppamenti e a surriscaldamenti a causa sia degli agenti atmosferici come sabbia e gelo (costantemente presenti in Nord Africa come in Russia) che per l’elevato calore durante lo sparo che avveniva peraltro ad otturatore chiuso. Nonostante questi non trascurabili difetti, fu prodotta in oltre 30.000 pezzi ai quali si aggiunse un altro modello del colosso italiano, la Mod. 37, a tutti gli effetti una «pesante». A differenza della Mod.30 la nuova mitragliatrice aveva una gittata molto più lunga (ben 5.000 metri) e usava proiettili appositi calibro 8x 59mm simili a quelli tedeschi. Molto più affidabile della Mod.30, poteva anche essere utilizzata come pezzo contraerei una volta montata su apposito affusto. L’unica pecca di un’arma molto affidabile era il peso rispetto ad altre armi equivalenti, di quasi 20 kg senza treppiede, ma nonostante ciò rimaneva l’arma automatica più avanzata tanto che sarà impiegata a lungo anche nel dopoguerra e all’estero, quando fu usata durante la guerra coloniale portoghese. La Breda 37 fu l’ultima pesante progettata e costruita in Italia e alcuni pezzi rimasero in servizio fino alla fine degli anni Sessanta. Con l’ingresso dell’Italia nella Nato infatti, la standardizzazione degli armamenti e delle munizioni vedrà la predominanza di modelli inglesi e americani o evoluzioni di armi dell’ultima guerra come la Beretta Franchi MG42/59 introdotta alla fine degli anni Cinquanta, che altro non era se non una versione ammodernata della mitragliatrice tedesca, la MG42. Il primo fucile mitragliatore era italiano.Un primato italiano riguarda invece la storia dei fucili mitragliatori o submachine gun. E’il caso del fucile mitragliatore OVP 1918, dove la sigla sta per «Officine di Villar Perosa», una azienda specializzata in costruzioni meccaniche e cuscinetti a sfera dell’orbita Fiat. L’archetipo del mitra moderno nacque nelle officine piemontesi dove si costruivano biciclette per bersaglieri, serbatoi per autocarri e altre forniture militari ancora una volta dal genio di Revelli de Beaumont. In origine la pistola mitragliatrice battezzata Fiat- Revelli mod.1915 fu impiegata in modo limitato e spesso montata sugli aeroplani da caccia per il suo peso contenuto. A terra invece fu trattata erroneamente come un’arma difensiva e dotata di un pesante scudo protettivo che ne limitava la mobilità. Solo nel 1917 e per iniziativa del generale Luigi Capello la pistola mitragliatrice, appaltata definitivamente alle Officine di Villar Perosa e marchiata da queste ultime, fu finalmente impiegata per azioni offensive portate avanti in particolare dagli Arditi e fu sottoposta ad importanti modifiche che la resero sempre più vicina ad un moderno fucile mitragliatore. Originariamente la OVP era un’arma binata, con due canne e due singoli caricatori di forma semilunata da 25 colpi ciascuno rivolti verso l’alto. Il manico era quello tipico a doppia maniglia delle mitragliatrici e poteva essere dotata di un bipiede. Per permettere la rapidità di trasporto e la prontezza al fuoco fu applicato all’arma un supporto a cinghia che passava attorno al collo del mitragliere e fu aggiunto un calcio in legno per agevolarne l’impugnatura, che rendeva l’arma della OVP esteticamente molto vicina ad un fucile più che ad una mitragliatrice leggera. La potenza di fuoco era da record: la cadenza di fuoco (teorica) era di ben 3.000 colpi/minuto, velocità che faceva esaurire i due caricatori in circa un secondo, risultando superiore ad ogni altra arma automatica in uso nella Grande Guerra. Non mancavano i difetti, come ad esempio la mancanza di un sistema di raffreddamento che imponeva lunghe pause. Verso la fine della guerra, nel 1918, una singola canna della Villar Perosa mod. 1915 fu impiegata fornita di calciolo e ribattezzata OVP 1918. Era il primo fucile mitragliatore italiano, dotato di selettore per colpo singolo o a raffica regolato da due distinti grilletti per le due cadenze di fuoco e caratterizzato da un calcio molto simile a quello del Carcano '91. Utilizzando lo stesso schema tecnico, la Beretta progettò il suo primo fucile mitragliatore, Il Moschetto Automatico Beretta 1918 o MAB/18, che fu utilizzato anch’esso dagli Arditi e in seguito durante la guerra d’Etiopia, affiancato più tardi dalla sua evoluzione, il Beretta MAB/38, che rimarrà in servizio fino agli anni Settanta in dotazione ad Esercito, Polizia e Arma dei Carabinieri. Sia la Villar Perosa che i MAB utilizzarono i proiettili Glisenti calibro 9mm, nati per utilizzo sulle pistole.
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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