
La pianta diventata l'icona della Sardegna ha gusto e profumo, ma è anche utile al benessere, dalla farmacopea alla cosmesi. Ha doti antisettiche e antinfiammatorie, balsamiche e antiossidanti. Ma è nelle mille varianti della cucina che dà il meglio di sé.La sua è una storia avvolta nel mito, tra leggenda e realtà. Pianta generosa che ha affiancato nei secoli l'uomo donandogli tutto di sé: dalle bacche, ai fiori, e pure le foglie per non dire del legno, ognuna piccole pepite capaci di offrire doni diversi: dal gusto ai profumi, ma anche utili al benessere, dalla farmacopea alla cosmesi. Ha radici antiche ben salde in tutta l'area mediterranea anche se, oramai, è diventata l'icona riconosciuta della Sardegna. Già il profeta Isaia auspicava che, nelle terre promesse, «invece di spine cresceranno cipressi e invece di ortiche cresceranno i mirti». Romanticamente si fa risalire, in epoca ellenica, il suo nome a Myrsine, una fanciulla che ebbe l'ardire di vincere in una sfida agonistica un rivale maschio. Venne punita con la morte. Fu allora che la dea Atena, impietosita, volle darle respiro eterno trasformandola in una pianta di mirto, cara alla dea Afrodite (la Venere dei romani) che, dopo essere emersa dal mare, si rifugiò pudicamente dietro un cespuglio di mirto. Forse anche per questo è pianta cara ai marinai, da sempre devoti al culto di Venere. Lo storico greco Ateneo racconta di una trireme che venne sorpresa di notte da una tempesta in mare aperto. Tutto l'equipaggio si stava arrendendo a un naufragio senza speranza quando, improvvisamente, da una statuina di Venere che il comandante aveva portato con sé fiorirono dei ramoscelli di mirto. Il loro profumo ridiede coraggio e speranza all'equipaggio così da affrontare i marosi e porsi quindi in salvo. Da allora divenne di buon auspicio per la navigazione e per le traversate tese a fondare nuove colonie, tanto che i naviganti si imbarcavano con le teste ornate da corone di mirto. Nell'antica Grecia le stesse corone cingevano il capo dei vincitori delle varie discipline olimpiche mentre in epoca romana erano il premio assegnato ai condottieri che si imponevano nelle campagne militari limitando al minimo il sacrificio di sangue delle loro truppe. Mirto romantico, tanto che nei rituali sacri che precedevano le nozze le future spose si immergevano nelle acque ricche del suo profumo e poi, durante il rito, i rametti erano protagonisti del gioioso cerimoniale con il myrtus coniugalis descritto da Plinio il vecchio, che gli innamorati solevano raccogliere al solstizio d'estate come promessa di fedeltà. Ippocrate, Galeno, Dioscoride Pedanio ne seppero valorizzare le mille virtù, a partire da quelle antisettiche e antinfiammatorie, come pure balsamiche e antiossidanti. Una piccola farmacia vegetale, variamente eclettica a seconda dei componenti. Molto ricercato, nel medioevo, il suo distillato di fiori, ovvero l'acqua degli angeli, tonificante e rinfrescante, una sorta di antirughe ante litteram. I rametti di mirto, come quelli di lavanda, per dare freschezza nei cassetti del guardaroba. Di questa pianta si è nutrita l'arte dando ispirazione a pittori quali Tiziano, Botticelli, ma anche Lorenzo Lotto o Paolo Veronese. Protagonista in versi firmati da Poliziano e Foscolo ma, su tutti, Gabriele D'Annunzio che la ricorda in La Pioggia nel Pineto (1903): piove sui pini, piove sui mirti e il primo ha un suono, il mirto un altro suono e il ginepro altro ancora, strumenti diversi sotto innumerevoli dita. Non poteva essere da meno Zucchero Fornaciari, nel terzo millennio, rendendo omaggio a «un mirto che ai mirti colli già sale». Con questi galloni di storia e tradizione non può che entrare da protagonista anche nei capitoli degli annali del buon mangiare anche se, in verità, è conosciuto ai più per le sue virtù di Bacco, legate all'omonimo liquore. Già Catone il vecchio parlava di un vino al mirto che, in realtà, era prevalentemente un vino aromatizzato con le relative bacche. Qui ogni famiglia aveva il suo piccolo segreto, come quello di addizionarlo semplicemente con grappa (il filu 'e ferru) o con alcool, assieme a zucchero e miele. Il boom del turismo sull'isola tolse il mirto dalla sua storica enclave di appartenenza, per proiettarlo sui mercati esterni. Secondo tradizione le bacche vanno rigorosamente colte a mano, con la brucatura, sul finire dell'autunno, a partire dal giorno dell'Immacolata (8 dicembre) mediante un piccolo strumento a pettine che le stacca delicatamente dalle foglie. Considerato generalmente un liquore digestivo, da servire freddo, dal colore scuro, anche se ne esistono altre varianti, come il bianco, ottenuto dalla macerazione delle foglie. Molto utilizzato come spezia nell'antica Roma, poi ridimensionato dall'arrivo del pepe per opera di Alessandro Magno e, infine, marginalizzato nel rinascimento con l'arrivo del peperoncino dalle Americhe e dalla diminuzione del prezzo del pepe stesso. Spesso citato da Apicio, presente nel Salento pugliese e nel Cilento campano oltre che nell'isola di Capraia, al largo di Livorno. Tuttavia è in Sardegna che questa creatura della terra dà il meglio di sé, nelle sue mille varianti. Foglie il cui aroma penetrante e balsamico, dai sentori tra rosmarino e ginepro, va a impregnare le carni sulla griglia, come pure, se usate fresche, a farcire la selvaggina. Bacche dalle mille virtù, sia come confettura che come ripieno di cioccolatini o impasto a dare quel tocco in più ai pilichittos, dolcetti alle mandorle. Qualche artigiano è riuscito ad aromatizzare con il mirto anche la pasta, a partire dai piccoli malloreddus, ma è sulle carni che questo dono della natura si esalta, a cominciare da sa pudda, una gallina lessata e poi aromatizzata, pressata tra i rametti, messa a frollare ventiquattrore per essere servita poi come antipasto freddo assieme a patate bollite. Ma i pezzi da novanta armati di mirto sono senza dubbio il porceddu e sa taccula. Il primo è un maialino che viene arrostito utilizzando un mix di ginepro, mirto, alloro e legno d'ulivo, dalla forte impronta identitaria. Un tempo era privilegio della stagione pasquale, riservato alle grandi occasioni. La sua culla è in Barbagia, anche se poi la tradizione si è estesa alla costa, preda golosa del turismo curioso. Il rito prevede un lento girare dello spiedo al ritmo di «furria, furria» (gira, gira), ma secondo due scuole di pensiero. Quella dello spiedo orizzontale (generalmente per pezzature di cinque-sei chili), oppure verticale, per taglie suine sino a dodici chili. Tuttavia, nel barbaricino, si preparava il porceddu a carraxiu, cioè sottoterra. Anche qui l'interpretazione era duplice. Per alcuni interrare la vittima era il modo usato dai contrabbandieri per non dare nell'occhio, mentre per altri questa modalità, con l'utilizzo della bassa temperatura per lunghe ore, consentiva ai pastori di badare al pascolo e conciliare poi in santa pace l'ora del pasto meritato. Altra pepita golosa cui il mirto dà il turbo alle papille è sa taccula, ovvero i tordi. L'origine prende piede nel cagliaritano, a Capoterra. Nelle loro rotte migratorie i tordi venivano attratti dalle bacche di mirto sparse nella brughiera. Talmente golosi che le loro carni si impregnavano di umori e sapori, assumendo una colorazione violacea. Ora la caccia è pressoché proibita, ma un tempo questi volatili venivano spennati con amore stando bene attenti a non lacerarne la pelle. Lasciati con le interiora pregne del prezioso contenuto, privati delle zampe e con il becco accuratamente lavato dagli ultimi residui golosi venivano lessati in acqua insaporita con foglie di mirto, per essere poi messi ad asciugare, una volta salati, compressi con i relativi rametti e quindi legati andando a formare una sorta di coroncina, a gruppi di otto. Sa taccula, appunto. Lasciati frollare per un giorno, venivano poi serviti come antipasto pur se i più golosi non si negavano la versione allo spiedo. Con le grive, cioè i tordi, alternati a fettine di lardo e pane casereccio. Solo chi li ha provati può confermare che… il paradiso può attendere, in questa Sardegna di mirto regina.
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