2021-05-25
«Mio fratello ora rischia la vita in Sudan»
Il familiare dell'imprenditore imprigionato per una presunta truffa: «In 30 in una cella». L'uomo era controllato già in albergo L'ombra dei miliziani golpisti dietro la richiesta di riscatto di 700.000 euro. La Procura di Roma al lavoro per aprire un fascicoloEsce lentamente dal buio mediatico la vicenda di Marco Zennaro, l'imprenditore di Marghera imprigionato da circa due mesi in Sudan per opera di una banda locale di miliziani che lo accusa di frode nell'ambito di una fornitura internazionale di trasformatori elettrici. Nei mesi scorsi l'uomo ha trattato la vendita di alcuni prodotti con l'intermediario Ayman Gallabi, il quale a sua volta avrebbe rivenduto la merce a Sedc ltd (società nazionale dell'energia elettrica del Paese africano, ndr). Per Gallabi però i prodotti non rispecchiavano le caratteristiche tecniche e i parametri indicati nei certificati di collaudo. Circostanza che ha indotto il manager veneto a prendere un aereo per incontrare faccia a faccia la controparte. Fino a ieri, come detto, del caso Zennaro nessuno sapeva o diceva nulla. «Mio fratello è detenuto da oltre 50 giorni contro ogni dignità umana, contro ogni diritto di una civiltà. È uno strazio, per tutta la nostra famiglia, per sua moglie, per i bambini». Con queste parole all'Ansa, il fratello del manager, Alvise, ha interrotto il silenzio della famiglia. «L'accusa (di frode, ndr) mossa è fatta da una controparte con cui Marco non ha mai avuto a che fare. L'unica persona con cui ha avuto rapporti», prosegue il familiare, «è Ayman Gallabi, (il mediatore dell'affare con Sedc, ndr) e il ritrovamento di questa persona morta ci fa temere per la sua incolumità. Marco è a rischio, l'appello è che la vicenda diventi di interesse ministeriale e che tutti si attivino per riportarlo a casa». E ancora: «Lo sforzo dell'ambasciatore, Gianluigi Vassallo, è stato grande, sin da subito i contatti sono stati costanti. Ha fatto e sta facendo l'impossibile per cercare di porre fine a tutto questo». «È una vicenda che nessuno avrebbe mai immaginato. Chi si sarebbe aspettato che ci si sarebbe potuti trovare in un guaio simile partendo da un business commerciale? Siamo finiti», ha aggiunto Alvise Zennaro, «in una cosa più grande di noi, per la quale chiediamo aiuto». Anche perché una fonte qualificata della Verità ha confermato che alla famiglia dell'imprenditore veneto è pervenuta la richiesta di riscatto di 700.000 euro. Sul fatto che il denaro sia il filo conduttore di questa storia sembrerebbero esserci pochi dubbi. Il nostro connazionale è andato a trattare direttamente in Sudan a metà marzo. E fin dal principio l'affare non è stato privo di ostacoli. Dato che Zennaro, secondo la nostra fonte, ha condotto la trattativa, cominciata lo scorso 17 marzo, dall'interno dell'albergo di Khartoum nel quale si trovava, qui era controllato da alcuni piantoni. Come già detto dal fratello, di fronte a lui c'era il solo Gallabi che, secondo la versione ufficiale delle autorità sudanesi, è morto durante un'immersione subacquea nel Nilo. Ricostruzione che lascia più di qualche dubbio e scatena la legittima preoccupazione dei familiari di Zennaro. Non bisogna dimenticare che poi Gallabi avrebbe rivenduto i trasformatori elettrici a Abdallah Esa Yousif Ahamed, un militare che fa parte del clan del potente generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemeti, capo di Rsf (Rapid Support Force), le milizie che operano nella capitale Khartoum e che furono protagoniste durante il golpe del 2019. Quindi appare più che plausibile che dietro l'imprigionamento di Zennaro ci siano i miliziani di Dagalo che sono i veri finanziatori dello scambio commerciale. A quanto apprende La Verità, la trattativa in albergo fra l'imprenditore italiano e Gallabi si è conclusa il primo aprile, nel momento in cui il nostro connazionale ha ricevuto la prima transazione di quanto pattuito. Particolare di non poco conto: l'entità della somma che avrebbe dovuto percepire Zennaro è ancora sconosciuta. Terminati gli incontri, all'uomo d'affari non era rimasto che andare in aeroporto, ma al momento del suo ingresso nel velivolo è stato fermato, senza alcun mandato di arresto che comparirà solo nei giorni successivi. Inizia così la sua prigionia: rinchiuso in una stanza insieme ad altre 30 persone e un solo bagno disponibile. «Nella cella di Khartoum ci sono 46 gradi. Le condizioni igienico sanitarie sono fuori norma. Stiamo vivendo un'ingiustizia», ha proseguito Alvise Zennaro, «con un giudice che rinvia, senza senso, una firma, da 54 giorni».Eppure dell'imprenditore veneto non si sta occupando solo la giustizia sudanese: nella giornata di ieri da fonti giudiziarie è emerso che la Procura della Repubblica di Roma, competente ad occuparsi dei reati in danno degli italiani all'estero, ha iniziato ad indagare sul caso. Nei prossimi giorni non è esclusa l'apertura di un fascicolo contro ignoti, con una specifica ipotesi di reato. Inevitabile il confronto con Silvia Romano, ultimo caso di rapimento di un connazionale all'estero. Oltre alla differente attenzione mediatica, ci sono difformità su dinamica e luogo del sequestro. Di Zennaro sappiamo da chi è detenuto e dove. Sul fronte politico solo il consigliere regionale del Veneto, in quota Fdi, Enoch Soranzo è intervenuto sul caso. «Ho indirizzato stamane una mia lettera al ministro degli Esteri Luigi Di Maio per chiedere l'immediato intervento del governo per una rapida e positiva risoluzione della controversia che vede il nostro connazionale Marco Zennaro. […] Attonito per la ricostruzione che i familiari dell'imprenditore hanno affidato alla stampa, come pure», ha affermato Soranzo, «per la notizia dell'uccisione dell'unico testimone che avrebbe potuto scagionare il quarantaseienne veneziano».
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Cesare Parodi (Imagoeconomica)