2022-10-13
I ministri passano, i mandarini di Stato no
La gara a indovinare i nomi dei titolari dei dicasteri distrae dall’altra partita: la scelta dei funzionari che avranno in mano il pallino. Sbagliare collaboratori vuol dire compromettere il programma, ma purtroppo la maggior parte dei burocrati lavora per la sinistra.Durante la gestazione di ogni nuovo governo, tutti sono concentrati sul mitico «totoministri», cioè il giochino - un po’ calciomercato, un po’ corsa dei cavalli, un po’ pugilato con sangue vero, un po’ wrestling con colpi farlocchi - che conduce alla selezione della futura squadra di governo. La sequenza è nota: prima ci sono le trattative tra il presidente del Consiglio in pectore e gli alleati della sua maggioranza, con relativa e faticosa spartizione; poi scatta il braccio di ferro, più o meno morbido, tra premier incaricato e Quirinale (si sa: il premier propone e il Colle nomina, dunque il negoziato, spesso ruvido, è nelle cose); in quella sede, si effettuano le cancellazioni o gli spostamenti dell’ultimo minuto (nel secondo caso, i malcapitati si adattano; nel primo, si disperano, destinando a qualche prima comunione o a qualche mesta cerimonia privata l’abito scuro nuovo che avevano incautamente acquistato); poi c’è l’apparizione davanti alle telecamere del segretario generale del Quirinale (tendenzialmente in estasi mistica, se il governo è di sinistra o tecnico; e invece a lutto stretto, se l’esecutivo è di centrodestra); e infine arriva il premier che legge la lista dei ministri con i relativi incarichi. Finisce tutto lì? No, semmai inizia proprio allora un’altra partita decisiva: altro che «totoministri», scatta il «tataministri», il momento più oscuro in assoluto, e dunque il più temibile - a cascata - per i ministri stessi e per gli italiani (per inciso, è il contribuente, cioè tutti noi, che pagheremo con i nostri soldi l’intera allegra comitiva). Di che si tratta? Della scelta della squadra di ciascun ministro: capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi, giù giù fino al team di comunicazione. Si dirà: ogni ministro cercherà di avvalersi delle persone migliori, che possano davvero supportarlo, e che siano in sintonia con la sua prospettiva culturale e politica. Chi la pensa così è un meraviglioso ottimista: in primo luogo, perché pensa che tutti i ministri abbiano necessariamente una prospettiva culturale e politica; in secondo luogo, perché ritiene che siano sempre liberi di scegliersi i collaboratori (che invece gli sono spesso accollati da leader, amici degli amici, amici del giaguaro); in terzo luogo, perché, anche quando scelgono in prima persona, non sempre i ministri sono così bravi e fortunati da compiere scelte che li aiuteranno davvero nella nuova sfida. Inutile girarci intorno. Intanto, il centrodestra è storicamente povero di figure di supporto tecniche, amministrative, giuridiche: colpa sua, sia chiaro, visto che non ha saputo aprirsi un varco in quel mondo, che tende sistematicamente a militare dall’altra parte. Anzi, quando sul versante destro si affacciano profili che desiderano mettere la loro competenza al servizio del Paese, sono in genere ferocemente ostracizzati a sinistra e ignorati a destra. Dopo di che, partono le geremiadi sull’egemonia gramsciana, sulla sinistra che occupa le casematte del potere: ma se, anziché piagnucolare, il centrodestra si fosse saputo muovere meglio, negli ultimi tre decenni, forse la situazione sarebbe un po’ diversa. Vale per le università, vale per i mandarini di stato, vale per l’informazione: prima si accetta che siano gli altri a occupare tutto, e poi ci si lagna.E qui scatta l’errore successivo, che speriamo sia evitato stavolta: un po’ per penuria di alternative, un po’ per antico complesso di inferiorità, un po’ nel tentativo di ingraziarsi gli abitanti dei principali palazzi romani, i nuovi titolari dei dicasteri che fanno? Pescano sempre nello stesso mazzo di «super badanti»: alcune decine di ben noti capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi che - con rare soste in panchina - sono sempre lì a spadroneggiare.Una volta scelti, il gioco è fatto. Prima (sadomasochisticamente) terrorizzano il ministro prospettandogli ogni possibile sciagura e promettendo (solo loro!) di salvarlo; e poi, piano piano, diventano loro gli uomini forti. Un esempio? I cosiddetti pre Consigli dei ministri, cioè le riunioni informali tra pochissimi membri del governo, funzionari, capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi: teoricamente per «preparare» la successiva discussione in cdm, ma molto spesso, in realtà, per cucinare tutto. Nella convinzione (in genere suffragata dai fatti) che dopo qualche mese i ministri siano indeboliti e sempre meno capaci di essere - ciascuno nel proprio ministero - il dominus della situazione. E cosa resterà a quel punto? Elementare, Watson: subentra il team di comunicazione (altra struttura devastante, in genere) che manda il ministro in giro per tv, radio e giornali a raccontare non si sa bene cosa. Rimangono leggendarie le intercettazioni relative a un ministro, qualche anno fa, che prima di rilasciare un’intervista, invocò lo spiegone e l’aiutino (sembrando lui lo scolaretto) di uno dei suoi più alti dirigenti. Siamo dunque a un clamoroso rovesciamento delle parti: sempre più spesso, infatti, non è il ministro a padroneggiare le burocrazie mettendole al servizio di un obiettivo politico; ma sono le burocrazie a dominare il ministro, o per allenarlo al «non si può fare» o per allinearlo al «pilota automatico». C’è davvero da augurarsi che stavolta i ministri del nuovo governo prendano coraggio e si sottraggano a questa ginnastica, che in ultima analisi li consumerebbe. Abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere, e si circondino di persone capaci e davvero in sintonia con loro.
Nicolas Sarkozy e Carla Bruni (Getty Images)