2024-12-31
Il Milan fa l’ultima americanata con Fonseca
Paulo Fonseca (Getty Images)
Il tecnico lusitano mollato da solo ad annunciare il suo stesso esonero, mentre il club aveva già stabilito d’ingaggiare Conceiçao prima della sfida alla Roma. È l’ennesima caduta di stile della dirigenza targata Ibra-Furlani. Il nuovo mister è già al lavoro. «È la città a cacciare l’allenatore, il presidente gli dà solo la cattiva notizia». Il motto di Alex Ferguson è diventato una sentenza per Paulo Fonseca nella notte più assurda della Milano rossonera, dopo l’ennesima incompiuta (con rigore enorme negato) a San Siro contro la Roma. Era il popolo a non volerlo più, a chiedere con discreta rassegnazione una svolta che fosse funzionale a un colpo d’ala. Senza nessuna certezza, tranne una: peggio di così - dell’ottavo posto, degli otto punti dalla zona Champions (quindi dal forziere dei dollaroni) e dei 13 dall’Inter, eterno paradigma dello scontento - non potrebbe andare.Chi più, chi meno, lo hanno mandato tutti al Diavolo, questo allenatore gentile, educato, con picchi di nervosismo che solo i buoni hanno quando si trovano di fronte gente scafata che difende solo sé stessa. Come Theo Hernandez, come Zlatan Ibrahimovic, come lo stesso Gerry Cardinale. Oggi quel popolo amareggiato applaude per solidarietà il portoghese che parte («Sono orgoglioso di avere allenato il Milan, ho fatto il massimo che potevo e non ho litigato con Ibra», ha detto dal finestrino della sua Bmw). E allo stesso modo incoraggia il portoghese che arriva, Sergio Conceiçao, protagonista di un pomeriggio da Speedy Gonzales. Con nell’ordine: sbarco a Linate con lo staff, discorso ai giocatori convocati a Milanello, primo allenamento, organizzazione della partenza per Ryad dove il 3 gennaio c’è la semifinale di Supercoppa italiana contro la Juventus, firma del contratto che lo lega al Milan fino al giugno 2026.Tutto in una notte, in esecuzione dell’ordine in arrivo da una penthouse di Manhattan. Tutto lontano anni luce dallo stile della casa, ma non è più il tempo delle quadriglie. I proprietari americani (sono addirittura 13, ormai facciamo colonia) faticano parecchio a capire il calcio italiano, lo abbiamo spiegato proprio ieri sulla Verità. Cardinale aveva bisogno di una testa sulla picca perché aveva intuito un dettaglio che neppure l’algoritmo riesce a evidenziare: i tifosi del Milan avrebbero voluto che ad andarsene fosse lui. Glielo hanno detto dalla curva in questi mesi, glielo hanno ribadito nella contestazione alla festa di Natale, glielo hanno scandito nei minuti finali, in apnea, contro la Roma. Al popolo rossonero l’idea del pareggio di bilancio come unico imperativo categorico (con svalutazione conseguente dei trofei, delle ambizioni, del valore storico di un club abituato a stare lassù) non è mai piaciuta.Serviva un capro espiatorio e Fonseca (allontanato in cambio di 8 mensilità, come previsto da una clausola) era perfetto. Lo era per Cardinale l’amerikano come per Ibra il parolaio, rimasto ex calciatore dall’ego ipertrofico, incapace almeno finora di diventare dirigente saggio e oculato, inquilino abusivo fino a prova contraria dell’ufficio di Paolo Maldini. Fonseca era un capro espiatorio pettinato anche per quei big rossoneri (Theo ma anche Rafa Leao, Fikayo Tomori, Davide Calabria) che già a settembre avevano deciso di non credere alla filosofia del portoghese uscente, abbandonandolo al suo destino e limitandosi a guardare scorrere la sabbia nella clessidra. Torto o ragione? Chissà. Di sicuro il Milan è più forte dei punti che ha, è più forte di come (non) lo faceva giocare Fonseca. Ha il portiere della nazionale francese, il centravanti di quella spagnola, un centrocampo con due giocatori super come Tijjani Reijnders e Youssouf Fofana, un esterno di respiro internazionale come Christian Pulisic. Morale: ottavo. Qualcosa si è rotto in fretta e l’agonia è stata perfino troppo lunga. I tifosi del Milan hanno il palato fine, colgono al volo i segni del campo, non si vincono sette Champions senza avere qualcosa di speciale nell’anima. E nessuno poteva accettare la giustificazione di avere vinto un derby in contropiede (dopo sette batoste) e di aver battuto il Real Madrid peggiore dell’ultimo decennio. Sono le uniche partite da ricordare, quasi una beffa del destino per allungare una sentenza già scritta. Il resto è stato un piccolo, anonimo, irritante calvario. Raccolti i cocci in fretta e annunciato il cambio via Instagram (maledetto algoritmo), comincia l’era Conceiçao. Un duro dove l’altro era molle, un pragmatico dove l’altro era un filosofo. Con il nuovo portoghese, ex interista che ha fatto la storia del Porto in panchina, si va dritto per dritto. Pochi fronzoli, tre passaggi e si cerca la porta, l’ideale per sfruttare al meglio le doti di Leao. Almeno così giocava il Porto che ha vinto tre campionati e quattro coppe nazionali, eliminato due anni fa agli ottavi di Champions dai nerazzurri. Ma a Oporto la squadra di Simone Inzaghi soffrì pene infernali. La rincorsa parte dall’allenatore e da una galoppata «under pressure», da qui a maggio, destinata a togliere gli alibi a tutti. Innanzitutto alla squadra, che già nel torneo in Arabia Saudita dovrà dimostrare di aver capito il messaggio. La tattica va in cantina, ora servono huevos. Lo hanno detto con chiarezza Ibrahimovic, Giorgio Furlani e Geoffrey Moncada ai giocatori in silenzio, ieri nel discorso preliminare a quello del nuovo tecnico: il Milan non aspetta nessuno, il Milan deve fare il Milan. Per il resto c’è Conceiçao che venerdì avrà un esordio shock, contro suo figlio Francisco, funambolo juventino. Niente in confronto alla doppia sfida micidiale che lo attende da qui a fine stagione: raggiungere la zona Champions per non veder ridimensionare squadra e obiettivi. E far dimenticare Antonio Conte, l’unica idea fissa dei tifosi dopo l’uscita di scena di Stefano Pioli. Anche in questo caso il popolo aveva ragione.
Papa Leone XIV (Ansa)
«Ciò richiede impegno nel promuovere scelte a vari livelli in favore della famiglia, sostenendone gli sforzi, promuovendone i valori, tutelandone i bisogni e i diritti», ha detto Papa Leone nel suo discorso al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Padre, madre, figlio, figlia, nonno, nonna sono, nella tradizione italiana, parole che esprimono e suscitano sentimenti di amore, rispetto e dedizione, a volte eroica, al bene della comunità domestica e dunque a quello di tutta la società. In particolare, vorrei sottolineare l'importanza di garantire a tutte le famiglie - è l'appello del Papa - il sostegno indispensabile di un lavoro dignitoso, in condizioni eque e con attenzione alle esigenze legate alla maternità e alla paternità».
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