2025-02-10
Il giudice libera un clandestino accusato di far parte dell’Isis
Un egiziano sbarca a Lampedusa e confessa di essere finito in carcere per terrorismo. La commissione non concede l’asilo politico e lancia l’allarme. In sede di ricorso il magistrato non convalida il fermo: prende per buona la versione del «perseguitato».Solo in Italia. Il 3 febbraio un clandestino sbarca a Lampedusa, viene fermato dalla Polizia senza documenti e il questore di Agrigento, Tommaso Palumbo, predispone un provvedimento di trattenimento per 4 settimane nel Centro di permanenza per rimpatrio di Porto Empedocle (un Cpr simile a quello aperto in Albania) per il concreto pericolo di fuga. Il ventiseienne egiziano Mohamad A. chiede protezione internazionale e spiega di essere evaso da un carcere egiziano dove era detenuto con l’accusa di essere un membro dell’Isis. La Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Agrigento respinge l’istanza e segnala la dichiarazione dell’uomo sui suoi supposti legami con lo Stato islamico alla Questura dell’antica Girgenti e alla Procura di Palermo, precisamente alla Direzione distrettuale antiterrorismo. Il 5 febbraio si svolge nel capoluogo siciliano l’udienza di convalida del fermo e il 6 un giudice progressista scioglie la riserva e ordina la liberazione del presunto terrorista, essendo a suo dire l’Egitto un Paese non sicuro. Al questore di Agrigento non resta che emettere un nuovo provvedimento contro l’egiziano ai sensi di un altro articolo del codice, motivando la decisione sugli elementi di pericolosità sociale emersi in sede di colloquio con la Commissione territoriale. Oggi un altro giudice palermitano, nella seconda udienza di convalida, dovrà decidere se confermare o meno il trattenimento.Risultato: per un giudice l’Egitto non garantisce i diritti umani e allora un ventiseienne sospettato di essere un terrorista viene lasciato libero di girovagare per l’Italia, senza documenti e senza fissa dimora. Un corto circuito davvero sconcertante. La guerra al decreto legge sui Paesi sicuri (dove l’Egitto è considerato tale) può portare anche a questi incredibili testa-coda della logica.La situazione è ben descritta nel secondo provvedimento di trattenimento, firmato venerdì in gran fretta dal dirigente dell’Ufficio immigrazione per conto del questore. Nell’atto si apprende il motivo per cui il clandestino costituirebbe «un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica», ai sensi dell’articolo 6 del decreto legislativo 142/2015 sul sistema d’accoglienza: «La Commissione territoriale ha comunicato con apposita nota del 5 febbraio 2025 indirizzata al Questore di Agrigento che in fase di audizione il richiedente asilo riferiva di essere stato condannato per reati legati al terrorismo, con pena scontata presso il carcere governativo "Qowat a Amn Damanhour". In particolare rappresentava di appartenere all'organizzazione terroristica "Daesh" e di fare proselitismo nei confronti di bambini presso una scuola da lui creata e diretta, con finanziamenti la cui origine non è stata meglio specificata. Durante l'audizione non è apparso chiaro se il soggetto sia evaso dalla prigione o abbia scontato interamente la pena». Perciò il giovane è stato trasferito al Cpr di Pian del lago (Caltanissetta) con un ordine di trattenimento per un periodo di 60 giorni (prorogabile). Oggi un giudice dovrà convalidare la decisione. In attesa del pronunciamento, vale la pena di ricostruire come il precedente fermo per pericolo di fuga sia stato sospeso dal giudice Sebastiana Ciardo, la quale, prima di esprimersi sul trattenimento, ha inviato gli atti alla Corte di giustizia dell’Unione europea per verificare se il diritto comunitario debba essere interpretato in modo da riconoscere come non sicuro l’Egitto, ovvero un Paese con più categorie di persone discriminate, minacciate o perseguitate. Il procuratore generale di Palermo aveva dato parere favorevole alla convalida rilevando che «l’interessato è sbarcato autonomamente sull’isola di Lampedusa ed è stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli; non ha consegnato il passaporto o altro documento di identità equivalente, né ha prestato la garanzia finanziaria quale misura alternativa al trattenimento; non ha fornito un indirizzo valido per il rintraccio; non presenta problematiche sanitarie incompatibili con una condizione di trattenimento, né risulta in condizioni di vulnerabilità». Sulla necessità di rinchiudere il clandestino nel Cpr si è dimostrata di diverso avviso la consigliera della Corte d’appello Ciardo, considerata vicina alla corrente progressista di Area. Una toga, va detto, di grande esperienza: per anni ha presieduto i collegi della sezione specializzata per la «protezione internazionale» e, da fine giurista, ha anche collaborato alla riforma Cartabia per la parte che riguardava il processo civile ed è stata moderatrice del convegno organizzato da Area «La giustizia per i deboli Persone, minorenni e famiglia, luci e ombre del decreto legislativo 149/2022 (la cosiddetta Riforma Cartabia civile appunto, ndr)».Nella sua ordinanza la Ciardo mette in dubbio il rischio di pericolo di fuga sollevato dal questore e condiviso dal pg: «Non vi sono sufficienti elementi di prova da cui desumere un tentativo di eludere i controlli di frontiera tenuto, peraltro, conto che l’isola di Lampedusa è internazionalmente conosciuta come una zona ampiamente presidiata delle autorità perché zona di frontiera per rotte di migrazione internazionali». Dunque, a giudizio del giudice, chi arriva a Lampedusa non ha nessuna intenzione di scappare. Davanti a lei, il giovanotto, collegato da remoto, ha offerto una versione meno allarmante sulla sua detenzione. Che ha prontamente convinto la toga: «A riprova dell’insicurezza del Paese, anche in maniera generalizzata, contro la libertà di manifestazione del pensiero e di opinione lo stesso giovane richiedente asilo Mohamad A. ha riferito, in sede di audizione nel corso dell’udienza di convalida del trattenimento, di essere stato arrestato e tenuto in carcere per 5 mesi per avere solo postato sulla piattaforma social Facebook un commento critico nei confronti del proprio Paese per ragioni economiche». La Ciardo, nel suo atto, trascrive le parole del clandestino: «Un giorno ho pubblicato su Facebook un post dove lamentavo che in Egitto la vita è troppo cara e non si vive bene e la polizia mi ha arrestato per 5 mesi». Quindi l’egiziano, sospettato di essere un terrorista, per la giudice è, invece, una vittima del regime e, così, il magistrato, anziché concedere al questore il trattenimento per un successivo rimpatrio, si è preoccupata, come molti altri suoi colleghi, di smontare la lista dei cosiddetti Paesi sicuri, modificata con un decreto legge nel 2024 e, più precisamente, di contestare l’inserimento nell’elenco dell’Egitto. La Ciardo sostiene che il governo di Abdel Fattah al-Sisi non garantirebbe il diritto alla vita, a un equo processo, la libertà di religione, i diritti Lgbti, delle donne e dei minori. Denuncia «un generalizzato rischio di detenzioni arbitrarie e arresti senza mandato da parte delle forze di polizia», «l’abuso sistematico» della carcerazione preventiva, il ricorso alla tortura e alle «sparizioni forzate», la strumentalizzazione delle «vaghe definizioni contenute nella legislazione anti-terrorismo» per reprimere il dissenso politico. Il tutto «in violazione del divieto posto dall’articolo 3 della Corte europea dei diritti dell’uomo». Per questo il giudice ha disposto il rinvio pregiudiziale del caso alla Cgue lussemburghese, «anche alla luce delle plurime questioni di analogo tenore già sollevate da altri uffici giudiziari italiani, sulla compatibilità tra la disciplina nazionale che ha individuato i paesi sicuri e quella unionale» e ha disposto l’immediata liberazione del presunto terrorista. Ma in questo pasticcio è interessante anche accendere un faro sull’audizione della Commissione territoriale (presieduta da un dipendente della Prefettura e composta anche da un funzionario della Polizia di Stato, da un rappresentante di un ente territoriale e da un rappresentante Unhcr) che ha rigettato la richiesta di asilo (con conseguente obbligo di rimpatrio) avanzata dal ventiseienne egiziano. Quest’ultimo ha raccontato di aver frequentato fino ai tredici anni un istituto religioso pubblico di fama internazionale e di aver successivamente ripreso per tre anni lo studio del Corano, di essere diventato un imam, di aver gestito i fondi provenienti dalle donazioni della comunità dei fedeli e di aver diretto una scuola coranica frequentata da centinaia di bambini. Sin qui nulla di strano. Ma i membri della commissione sono rimasti basiti quando il ventiseienne per ottenere lo status di rifugiato ha raccontato di «essere stato arrestato dalla polizia e di essere stato condannato per terrorismo; di aver scontato la sua pena e di aver ripreso nuovamente l'attività di indottrinamento dei minori da lui guidati; di aver deciso di espatriare in quanto identificato dalle locali forze di polizia egiziane come terrorista appartenente a Daesh». Per poi esprimere il timore di «trovarsi in condizioni economiche precarie, in caso di ritorno nel paese d'origine». Di fronte a tali dichiarazioni la commissione ha segnalato la pericolosità del clandestino a chi di dovere, ma, contemporaneamente, ha evidenziato alcune contraddizioni nel suo narrato, in particolare il tentativo di retromarcia rispetto alle prime dichiarazioni: «In un primo momento il richiedente ha affermato di essere stato attenzionato dalla polizia egiziana per attività legate al mondo del terrorismo internazionale, mentre successivamente ha riferito di essere stato arrestato per aver pubblicato delle fotografie ritraenti immagini denigratorie del presidente in carica». Ma ci sarebbero anche altre incongruenze: «In sede di formalizzazione della domanda di protezione internazionale il richiedente ha esposto agli organi di polizia di essere evaso dal carcere in cui era recluso, mentre nell’audizione ha riferito di essere stato liberato alla scadenza dei termini di custodia posti dal tribunale». Anche sulla durata della pena sarebbe caduto in contraddizione: «In un primo momento ha riferito di essere stato privato della libertà personale per un anno e mezzo, salvo successivamente aggiungere di essere rimasto in stato detentivo per cinque mesi». A patto di non trovarsi davanti a un caso di mitomania, è difficile credere che un migrante alla ricerca di accoglienza si inventi di essere stato imprigionato con l’accusa di terrorismo. È più ragionevole pensare che, dopo essere stato informato dei propri diritti e avere ottenuto l’assistenza di un avvocato, abbia ritenuto più conveniente dichiararsi un perseguitato politico. Una scusa migliore che non confessarsi jihadista.