
Il quotidiano aveva sparato l'intercettazione contro il sottosegretario leghista: «Ci è costato 30.000 euro», che La Verità ha rivelato essere falsa. Ora l'ex direttore del giornale ammette che probabilmente i soldi non sono neanche stati promessi. Ma insiste: deve lasciare.Domani è il gran giorno in cui si deciderà il destino di Armando Siri e, soprattutto, del governo. Come ho già scritto, di quello del primo non importa niente a nessuno. Che sia colpevole o innocente, che abbia ricevuto una promessa di denaro oppure no, non interessa a Luigi Di Maio, che pure ne pretende le dimissioni, ma importa niente anche alla grande stampa, che per prima ha sparato sul sottosegretario leghista pubblicando una intercettazione farlocca. Anzi, nei giornaloni sono convinti che Siri sia innocente, per questo ne chiedono le dimissioni. Non ci credete? Beh, basta rileggersi ciò che ieri ha scritto sul Corriere della Sera Paolo Mieli, che in via Solferino non è un passante, ma uno dei commentatori principi del quotidiano, avendolo diretto per ben due volte. Nell'editoriale di lunedì, l'ex bidirettore ha scritto testualmente: «Anche se si dimostrasse che quei 30.000 euro Siri non li ha mai ricevuti, anzi che non gli sono mai stati neppure promessi - il che, a nostro avviso, è oltremodo probabile -, i termini di quel “contatto" (ripetiamo: indiretto e forse inconsapevole) vanno chiariti nei tempi necessari per questo genere di approfondimento».Sì, Siri secondo Mieli è molto probabilmente innocente e non si è messo in tasca 30.000 euro, ma deve chiarire, cioè dimettersi. Da notare che fu proprio il Corriere ad accreditare la tesi della tangente, riportando tra virgolette una frase che sarebbe stata intercettata dalla Direzione investigativa antimafia. Per il quotidiano di via Solferino la captazione ambientale era stata registrata fra un indagato per sospette relazioni mafiose e il figlio. E sempre secondo il giornale il primo avrebbe confidato al secondo che Siri gli era costato 30.000 euro. Come poi si scoprì - e fummo proprio noi della Verità a svelarlo - le parole messe in bocca ai due non corrispondevano alla realtà. Una confessione simile infatti non è agli atti e curiosamente anche lo stesso Corriere nei giorni successivi ha annacquato la tesi di cui prima si era dimostrato certo. Ora però arriva Mieli, che tranquillo tranquillo, nel suo modo un po' felpato di dire le cose, scrive di credere che «sia altamente improbabile» che non solo Siri abbia intascata la mazzetta, ma che pure se la sia fatta promettere. Tuttavia, per lo stesso ex bidirettore, la faccenda è irrilevante e il sottosegretario deve comunque fare le valigie. Perché? «Perché un governo dell'Europa occidentale non può annoverare tra i suoi propri membri una persona che sia sospettata di essere in “contatto" (ancorché in maniera indiretta e forse inconsapevole) con Matteo Messina Denaro».Per chi non lo sapesse quest'ultimo è un boss della mafia, uno degli ultimi superlatitanti di Cosa nostra, che - secondo una sentenza di primo grado emessa di recente - era in affari con un imprenditore, il quale a sua volta era in affari con un altro tizio e quest'ultimo è colui che al telefono, in macchina o a casa (perché oltre ai famosi 30.000 euro neppure questo è certo), avrebbe parlato di Siri. Insomma, come avrete capito, la catena che si cerca di mettere al collo del sottosegretario leghista è lunga e un po' attorcigliata, tuttavia nello scontro che si è sviluppato ha poca importanza se i 30.000 ci siano o non ci siano e se l'onorevole salviniano sapesse o non sapesse con chi aveva a che fare, né se il tizio indagato sia davvero mafioso oppure no. Ciò che importa è dare addosso a Siri, il quale, pur essendo sconosciuto ai più, è oggi lo strumento per colpire il capitano della Lega. Nelle scorse settimane i 5 stelle erano in affanno, perché i sondaggi li davano in discesa a favore di Salvini. Così, quando è spuntato il caso del sottosegretario indagato, i grillini non se lo sono fatto sfuggire, usandolo come una clava per randellare i leghisti. Anzi: da ieri hanno un argomento in più per dare in testa a Siri e dunque al ministro dell'Interno. Il deputato sull'orlo delle dimissioni infatti è finito nel mirino anche della Procura di Milano, per la compravendita di un immobile: così le ragioni per liquidarlo raddoppiano.Dunque che succederà domani al governo? Capiterà quello che tutti immaginano, ovvero si voterà per togliere le deleghe a Siri. I 5 stelle diranno sì e i leghisti no, così si sancirà la spaccatura nella maggioranza. Il sottosegretario andrà a casa, ma il governo no. Salvini e Di Maio continueranno a prendersi a schiaffi via tweet come fanno ora, ignorandosi come ormai capita da settimane. Poi, dopo il 26 maggio, sarà tutta un'altra storia. Il nodo Siri allora tornerà al pettine e il plotone d'esecuzione che lo ha fatto secco potrebbe avere delle sorprese. Non tanto su Siri, che fra poche settimane sarà dimenticato insieme con i suoi guai giudiziari, ma sul governo. Qui però si va sul campo delle ipotesi e non dei fatti ed è meglio fermarsi.Ps. Oltre all'editoriale di Paolo Mieli, leggendo i giornali mi ha colpito un'intervista al Procurare capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Sempre sul Corriere il magistrato rispondendo ad una domanda sulle polemiche politiche riguardanti le iniziative dei pm, dice: «Il nostro è un Paese profondamente diviso, in cui si continua a negare legittimazione all'avversario politico e non si rinuncia a usare contro di lui il risultato delle indagini, a prescindere dal loro esito finale». Naturalmente quando ha scritto l'editoriale Mieli non aveva letto l'intervista.
Il neo sindaco di New York Zohran Mamdani (Ansa)
Il sindaco di New York non è un paladino dei poveri e porta idee che allontanano sempre più i colletti blu. E spaccano l’Asinello.
La vulgata giornalistica italiana sta ripetendo che, oltre a essere uno «schiaffo» a Donald Trump, la vittoria di Zohran Mamdani a New York rappresenterebbe una buona notizia per i diritti sociali. Ieri, Avvenire ha, per esempio, parlato in prima pagina di una «svolta sociale», per poi sottolineare le proposte programmatiche del vincitore: dagli autobus gratuiti al congelamento degli affitti. In un editoriale, la stessa testata ha preconizzato un «laboratorio politico interessante», sempre enfatizzando la questione sociale che Mamdani incarnerebbe.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 7 novembre con Carlo Cambi
Il luogo dell'accoltellamento a Milano. Nel riquadro, Vincenzo Lanni (Ansa)
Nei principali Paesi europei, per essere riconosciuto «pericoloso» basta la segnalazione di un medico. Qui invece devi prima commettere un delitto. E pure in questo caso non è detto che una struttura ti accolga.
Vincenzo Lanni, l’accoltellatore di Milano, aveva già colpito. Da condannato era stato messo alla Rems, la residenza per le misure di sicurezza, poi si era sottoposto a un percorso in comunità. Nella comunità però avevano giudicato che era violento, pericoloso. E lo avevano allontanato. Ma allontanato dove? Forse che qualcuno si è preso cura di Lanni, una volta saputo che l’uomo era in uno stato di abbandono, libero e evidentemente pericoloso (perché se era pericoloso in un contesto protetto e familiare come quello della comunità, tanto più lo sarebbe stato una volta lasciato libero e senza un riparo)?
Ansa
Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.






