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2018-10-31
Trump ha quattro motivi per infischiarsene del voto di mid term
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ANSA
Donald Trump si prepara allo scontro. Il prossimo 6 novembre si terranno infatti, negli Stati Uniti, le elezioni di metà mandato, con cui si rinnoverà la totalità della Camera e circa un terzo del Senato. Inutile dire che si tratta di un appuntamento elettorale fondamentale che produrrà inevitabili ripercussioni sulla presidenza Trump. Non sono pochi i commentatori che (in America così come in Italia) prevedono un trionfo del Partito dell'Asino: un'autentica "onda democratica" sarebbe in procinto di travolgere il presidente, condannandolo così a trasformarsi nella proverbiale "anatra zoppa" negli ultimi due anni del suo mandato.
Certo: i segnali incoraggianti per il Partito democratico non mancano. Non solo, i sondaggi lo danno attualmente avanti di sette punti percentuali. Ma, non bisogna neppure trascurare che – storicamente – le elezioni di metà mandato le perda il partito che detiene la Casa Bianca: è accaduto nel 1994 e nel 1998 (ai tempi di Bill Clinton), nel 2006 (ai tempi di George W. Bush) e nel 2014 (durante la presidenza di Barack Obama). Secondo gli analisti, l'esito più probabile stavolta sarebbe un pareggio: la Camera dei Rappresentanti dovrebbe andare ai democratici, mentre i repubblicani dovrebbero riuscire a mantenere il controllo del Senato (dove devono difendere solo nove seggi). Non sarebbe tuttavia escludibile - proseguono - che l'Asinello possa addirittura riuscire a conquistare la camera alta, approfittando di questo momento magico.
Sennonché la situazione risulta un poco più complessa. E gli automatismi dovrebbero forse essere lasciati fuori dalla porta. Il trionfo democratico tanto annunciato è infatti tutto da dimostrare. Per una serie di ragioni. Innanzitutto, è bene rilevare che, allo stato attuale, l'economia americana goda di ottima salute. Il Pil nel terzo trimestre è salito del 3,5%, oltre le attese degli analisti: nonostante la crescita sia rallentata rispetto al 4,2% della scorsa primavera, la frenata si è rivelata meno forte di quanto era stato previsto. Senza dimenticare una decisa impennata dei consumi statunitensi che, negli ultimi tre mesi, hanno registrato un aumento del 4%. Difficilmente questi dati possono danneggiare il partito di governo e i repubblicani stanno ovviamente puntando su tali numeri positivi, attribuendoli soprattutto alla riforma fiscale varata dal Congresso lo scorso dicembre. I critici ribattono affermando che questo benessere non sia equamente distribuito e che il taglio delle tasse abbia favorito le sole classe abbienti. Sarà, ma simili cifre l'economia americana non le vedeva da anni.
L'altro elemento da tenere in considerazione è poi quello del contrasto all'immigrazione clandestina. Da sempre uno dei cavalli di battaglia di Trump, le sue politiche restrittive hanno spesso suscitato polemiche: soprattutto la separazione dei figli dai genitori sul confine, adottata come deterrente contro i flussi di clandestini provenienti dall'America Latina. Per non parlare poi del muro difensivo al confine con il Messico. Adesso, un nuovo grattacapo è rappresentato dalla marcia di migliaia di honduregni che pretendono di entrare negli Stati Uniti, affermando di essere in fuga da miseria e narcotraffico. Trump, per tutta risposta, ha inviato cinquemila soldati al confine, annunciando inoltre di voler tagliare i fondi ai Paesi sudamericani che non stanno facendo nulla per bloccare la marcia. Ora, non è chiaro quale impatto avrà questo fenomeno sulle elezioni novembrine. Se i critici sostengono che questo ingente flusso dimostri l'inefficacia delle politiche trumpiane in materia di immigrazione, c'è anche da dire che questa marcia potrebbe in realtà rafforzare le classiche posizioni del presidente. Non dimentichiamo, tra l'altro, che - contrariamente a quanto spesso si afferma - il contrasto all'immigrazione clandestina abbia, per Trump, una connotazione di carattere socio-economico (la difesa del lavoratore americano) e non razzista. Il presidente si rivolge primariamente infatti alla classe operaia impoverita (e storicamente democratica) della Rust Belt (elettoralmente non poco rilevante) e non ai gruppi di estremisti fanatici.
In terzo luogo, bisogna sottolineare che, nelle ultime settimane, il Partito democratico abbia adottato una strategia politico-elettorale particolarmente aggressiva e settaria. Basti pensare all'ostruzionismo feroce sulla ratifica della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. O alle minacce rivolte ai senatori repubblicani indecisi sulla questione da parte di alcuni gruppi liberal estremisti. Ecco: non è detto che questa strategia non possa alla fine rivelarsi un boomerang. Non solo infatti un simile comportamento rischia di allontanare gli elettori indipendenti. Ma si tratta anche di uno stratagemma usato per cercare di dare coesione a un partito - quello democratico - dilaniato da faide intestine. Un partito che, anche qualora riuscisse a conquistare la Camera, non è affatto detto che sarà capace di proporre una linea politica coerente e unitaria.
Infine, attenzione a un altro elemento. Le elezioni di metà mandato rappresentano qualcosa di molto più complesso e articolato di un semplice referendum sulle presidenze in carica. Tendenzialmente, il voto per la Camera presenta una connotazione di carattere nazionale. Per il Senato, invece, l'elettore tende a ragionare sulla base delle questioni locali, interessandosi meno delle dinamiche di Washington. I giochi, insomma, sono ancora tutti da fare. E i prossimi giorni saranno determinanti.
Il Pil a stelle e strisce galoppa

Nel terzo trimestre, l'economia statunitense è cresciuta a un tasso del 3,5%. Si tratta di un dato considerevole, anche se più basso rispetto al 4,2% registrato durante i tre mesi precedenti. In particolare, è stato il sesto trimestre consecutivo con una crescita superiore al 2%. L'attuale rallentamento è dovuto in parte a una diminuzione degli investimenti. Senza dimenticare che le esportazioni nette siano diminuite rispetto all'impennata registrata nello scorso trimestre, quando produttori e agricoltori si sono affrettati a vendere le loro merci all'estero prima della rappresaglia commerciale cinese. Il reddito personale disponibile reale è cresciuto ad un tasso annuo del 2,5%, lo stesso del periodo precedente. È leggermente superiore alla crescita media del 2,35% dal termine dell'ultima recessione, per quanto resti inferiore all'aumento del 4% registrato nella spesa dei consumatori. In tutto questo, la spesa pubblica continua ad alimentare la crescita, soprattutto nel settore della Difesa, che non a caso è cresciuta del 4,5%. Anche le spese statali e locali sono aumentate al loro ritmo più rapido dal primo trimestre del 2016. Il tutto, mentre si ricevevano buone notizie dal mondo del lavoro. Il tasso di disoccupazione è infatti sceso al 3,7%: secondo il Dipartimento del Lavoro, si tratterebbe del valore il più basso di tempi del 1969. Nell'ultimo mese, sono stati introdotti 134.000 posti di lavoro, mentre i salari sono saliti del 2,8% rispetto all'anno scorso. In questo contesto, la Federal Reserve è sempre più orientata verso una politica monetaria restrittiva: una linea che il presidente vede come il fumo negli occhi, considerandola una minaccia per la crescita economica americana. Anche per questo, i rapporti tra Trump e il presidente della Fed, Jerome Powell, non sono al momento esattamente idilliaci.
Le 10 ragioni per cui i leader europei rischiano un'altra volta di sbagliare i loro calcoli.
Siria, summit a Istanbul con Erdogan, Putin, Macron e MerkelSi fa spasmodica l’attesa per le elezioni americane di midterm: ma non solo negli Usa. Anche, e forse soprattutto, a Berlino, Parigi, Bruxelles. Dove una serie di leader europei o già sconfitti e al crepuscolo (Angela Merkel), o massacrati dai sondaggi (Emmanuel Macron), o con gli scatoloni in mano (pur non essendo mai stati votati dagli elettori: gli attuali Commissari Ue) sperano di ritrovare una ragione di speranza nell’eventuale indebolimento di Donald Trump.
Ma ci sono almeno dieci buone ragioni per cui, un’altra volta (come quando nel 2016 tifavano a corpo morto per Hillary Clinton), in molte capitali Ue si rischia di sbagliare i calcoli.
- Qualunque sia il risultato (a maggior ragione se conservasse la maggioranza in Senato), Trump potrà a buon diritto rivendicare il merito di una clamorosa rimonta in una campagna elettorale che non era la sua. Prima che lui si impegnasse direttamente, i sondaggi erano catastrofici per i Repubblicani. Dal momento della sua discesa in campo, il vento è cambiato.
- Il tentativo democratico di costruire una campagna ossessivamente antitrumpiana (a partire dal linciaggio del giudice Kavanaugh) si è rivelato controproducente: perché ha rimobilitato l’elettorato repubblicano, e perché lo ha ancora di più “trumpizzato”, cioè fidelizzato rispetto alla linea del Presidente. Figurarsi cosa accadrebbe se gli avversari di Trump provassero ad attivare (perché solo quello potrebbero fare, non certo condurla in porto) la procedura di impeachment.
- Perché non si vede all’orizzonte un candidato democratico in grado di sfidare Trump nel 2020, mentre Trump, negli ultimi due mesi, è come se avesse aperto con due anni di anticipo la campagna per la sua rielezione.
- Perché anche gli elettori europei vedono la differenza tra i dati economici spettacolari degli Usa (frutto del mix eterodosso di mega-tagli di tasse, mega-investimenti, e partita di poker sui dazi) e la stentata crescita europea.
- Perché Trump ha già piegato la Merkel sulla partita geopolitica più rilevante dal punto di vista di Washington, costringendola ad aprire al gas naturale liquefatto Usa, ed evitando che in termini energetici si consolidasse un’egemonia russa sulla Germania.
- Perché Macron ha subìto un doppio scacco dall’amministrazione Trump, che pure gli aveva teso la mano invitandolo con un’accoglienza di tutto prestigio a Washington la primavera scorsa. Ma l’inquilino dell’Eliseo ha pensato di fare il furbo, provocando Trump con il protagonismo francese in Iran. Risultato? Prima Trump ha varato nuove sanzioni per chi traffica con Teheran (concepite soprattutto in chiave anti-Parigi) e poi ha sostenuto Roma nello scacchiere libico e nord-africano, in contrapposizione alle ambizioni di Macron.
- Perché Trump sta chiaramente offrendo un ombrello geopolitico all’Italia, ai Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) e a chiunque funga da riequilibrio e da contrappeso rispetto all’asse franco-tedesco.
- Perché è ormai fallita l’idea di un’integrazione europea più spinta, di un super-Stato Ue a guida Parigi-Berlino. E’ ormai chiaro che, dopo le prossime elezioni europee, le regole Ue andranno riscritte, all’insegna di un maggior rispetto delle sovranità e delle diversità nazionali. Prospettiva, quest’ultima, più gradita anche a Washington. Non dimentichiamo che gli Usa avevano per decenni incoraggiato il progetto europeista: ma per europeizzare la Germania, non certo per germanizzare l’Europa (come invece rischiava di accadere negli ultimi anni).
- Perché Trump ha tutto l’interesse a rafforzare la special relationship con Londra, a maggior ragione dopo Brexit, e non accetterà l’idea di una chiusura di negoziato tra Uk e Ue (entro marzo 2019) troppo penalizzante verso il Regno Unito.
- Perché un po’ tutti hanno dovuto fare i conti con il fatto che l’Amministrazione Usa non scherza rispetto al contributo che i Paesi europei membri dovranno offrire alla Nato, smettendo di operare da free-riders.
Insomma, nessuno sa quanto forte uscirà Trump dalla notte del 6 novembre. Ma una cosa è certa: resterà certamente più saldo della gran parte dei suoi antipatizzanti europei.
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Il presidente americano si prepara alle elezioni di metà mandato del 6 novembre. I democratici cantano già vittoria ma devono fare i conti con la crescita economica, la gestione positiva dell'immigrazione, l'attacco boomerang al giudice Brett Kavanaugh e infine, alla tipologia stessa delle elezioni per la Camera: hanno per lo più valore locale.Nel terzo trimestre gli Usa sono cresciuti a un tasso del 3,5%, ma la Federal Reserve è sempre più orientata verso una politica monetaria restrittiva.Da Emmanuel Macron ad Angela Merkel, i leader europei con gli scatoloni in mano tifano per un ridimensionamento di The Donald.Lo speciale contiene tre articoli.Donald Trump si prepara allo scontro. Il prossimo 6 novembre si terranno infatti, negli Stati Uniti, le elezioni di metà mandato, con cui si rinnoverà la totalità della Camera e circa un terzo del Senato. Inutile dire che si tratta di un appuntamento elettorale fondamentale che produrrà inevitabili ripercussioni sulla presidenza Trump. Non sono pochi i commentatori che (in America così come in Italia) prevedono un trionfo del Partito dell'Asino: un'autentica "onda democratica" sarebbe in procinto di travolgere il presidente, condannandolo così a trasformarsi nella proverbiale "anatra zoppa" negli ultimi due anni del suo mandato.Certo: i segnali incoraggianti per il Partito democratico non mancano. Non solo, i sondaggi lo danno attualmente avanti di sette punti percentuali. Ma, non bisogna neppure trascurare che – storicamente – le elezioni di metà mandato le perda il partito che detiene la Casa Bianca: è accaduto nel 1994 e nel 1998 (ai tempi di Bill Clinton), nel 2006 (ai tempi di George W. Bush) e nel 2014 (durante la presidenza di Barack Obama). Secondo gli analisti, l'esito più probabile stavolta sarebbe un pareggio: la Camera dei Rappresentanti dovrebbe andare ai democratici, mentre i repubblicani dovrebbero riuscire a mantenere il controllo del Senato (dove devono difendere solo nove seggi). Non sarebbe tuttavia escludibile - proseguono - che l'Asinello possa addirittura riuscire a conquistare la camera alta, approfittando di questo momento magico.Sennonché la situazione risulta un poco più complessa. E gli automatismi dovrebbero forse essere lasciati fuori dalla porta. Il trionfo democratico tanto annunciato è infatti tutto da dimostrare. Per una serie di ragioni. Innanzitutto, è bene rilevare che, allo stato attuale, l'economia americana goda di ottima salute. Il Pil nel terzo trimestre è salito del 3,5%, oltre le attese degli analisti: nonostante la crescita sia rallentata rispetto al 4,2% della scorsa primavera, la frenata si è rivelata meno forte di quanto era stato previsto. Senza dimenticare una decisa impennata dei consumi statunitensi che, negli ultimi tre mesi, hanno registrato un aumento del 4%. Difficilmente questi dati possono danneggiare il partito di governo e i repubblicani stanno ovviamente puntando su tali numeri positivi, attribuendoli soprattutto alla riforma fiscale varata dal Congresso lo scorso dicembre. I critici ribattono affermando che questo benessere non sia equamente distribuito e che il taglio delle tasse abbia favorito le sole classe abbienti. Sarà, ma simili cifre l'economia americana non le vedeva da anni.L'altro elemento da tenere in considerazione è poi quello del contrasto all'immigrazione clandestina. Da sempre uno dei cavalli di battaglia di Trump, le sue politiche restrittive hanno spesso suscitato polemiche: soprattutto la separazione dei figli dai genitori sul confine, adottata come deterrente contro i flussi di clandestini provenienti dall'America Latina. Per non parlare poi del muro difensivo al confine con il Messico. Adesso, un nuovo grattacapo è rappresentato dalla marcia di migliaia di honduregni che pretendono di entrare negli Stati Uniti, affermando di essere in fuga da miseria e narcotraffico. Trump, per tutta risposta, ha inviato cinquemila soldati al confine, annunciando inoltre di voler tagliare i fondi ai Paesi sudamericani che non stanno facendo nulla per bloccare la marcia. Ora, non è chiaro quale impatto avrà questo fenomeno sulle elezioni novembrine. Se i critici sostengono che questo ingente flusso dimostri l'inefficacia delle politiche trumpiane in materia di immigrazione, c'è anche da dire che questa marcia potrebbe in realtà rafforzare le classiche posizioni del presidente. Non dimentichiamo, tra l'altro, che - contrariamente a quanto spesso si afferma - il contrasto all'immigrazione clandestina abbia, per Trump, una connotazione di carattere socio-economico (la difesa del lavoratore americano) e non razzista. Il presidente si rivolge primariamente infatti alla classe operaia impoverita (e storicamente democratica) della Rust Belt (elettoralmente non poco rilevante) e non ai gruppi di estremisti fanatici.In terzo luogo, bisogna sottolineare che, nelle ultime settimane, il Partito democratico abbia adottato una strategia politico-elettorale particolarmente aggressiva e settaria. Basti pensare all'ostruzionismo feroce sulla ratifica della nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. O alle minacce rivolte ai senatori repubblicani indecisi sulla questione da parte di alcuni gruppi liberal estremisti. Ecco: non è detto che questa strategia non possa alla fine rivelarsi un boomerang. Non solo infatti un simile comportamento rischia di allontanare gli elettori indipendenti. Ma si tratta anche di uno stratagemma usato per cercare di dare coesione a un partito - quello democratico - dilaniato da faide intestine. Un partito che, anche qualora riuscisse a conquistare la Camera, non è affatto detto che sarà capace di proporre una linea politica coerente e unitaria. Infine, attenzione a un altro elemento. Le elezioni di metà mandato rappresentano qualcosa di molto più complesso e articolato di un semplice referendum sulle presidenze in carica. Tendenzialmente, il voto per la Camera presenta una connotazione di carattere nazionale. Per il Senato, invece, l'elettore tende a ragionare sulla base delle questioni locali, interessandosi meno delle dinamiche di Washington. I giochi, insomma, sono ancora tutti da fare. E i prossimi giorni saranno determinanti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/midterm-2616837001.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-pil-a-stelle-e-strisce-galoppa" data-post-id="2616837001" data-published-at="1765006881" data-use-pagination="False"> Il Pil a stelle e strisce galoppa Nel terzo trimestre, l'economia statunitense è cresciuta a un tasso del 3,5%. Si tratta di un dato considerevole, anche se più basso rispetto al 4,2% registrato durante i tre mesi precedenti. In particolare, è stato il sesto trimestre consecutivo con una crescita superiore al 2%. L'attuale rallentamento è dovuto in parte a una diminuzione degli investimenti. Senza dimenticare che le esportazioni nette siano diminuite rispetto all'impennata registrata nello scorso trimestre, quando produttori e agricoltori si sono affrettati a vendere le loro merci all'estero prima della rappresaglia commerciale cinese. Il reddito personale disponibile reale è cresciuto ad un tasso annuo del 2,5%, lo stesso del periodo precedente. È leggermente superiore alla crescita media del 2,35% dal termine dell'ultima recessione, per quanto resti inferiore all'aumento del 4% registrato nella spesa dei consumatori. In tutto questo, la spesa pubblica continua ad alimentare la crescita, soprattutto nel settore della Difesa, che non a caso è cresciuta del 4,5%. Anche le spese statali e locali sono aumentate al loro ritmo più rapido dal primo trimestre del 2016. Il tutto, mentre si ricevevano buone notizie dal mondo del lavoro. Il tasso di disoccupazione è infatti sceso al 3,7%: secondo il Dipartimento del Lavoro, si tratterebbe del valore il più basso di tempi del 1969. Nell'ultimo mese, sono stati introdotti 134.000 posti di lavoro, mentre i salari sono saliti del 2,8% rispetto all'anno scorso. In questo contesto, la Federal Reserve è sempre più orientata verso una politica monetaria restrittiva: una linea che il presidente vede come il fumo negli occhi, considerandola una minaccia per la crescita economica americana. Anche per questo, i rapporti tra Trump e il presidente della Fed, Jerome Powell, non sono al momento esattamente idilliaci. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/midterm-2616837001.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="le-10-ragioni-per-cui-i-leader-europei-rischiano-un-altra-volta-di-sbagliare-i-loro-calcoli" data-post-id="2616837001" data-published-at="1765006881" data-use-pagination="False"> Le 10 ragioni per cui i leader europei rischiano un'altra volta di sbagliare i loro calcoli. Siria, summit a Istanbul con Erdogan, Putin, Macron e Merkel Si fa spasmodica l’attesa per le elezioni americane di midterm: ma non solo negli Usa. Anche, e forse soprattutto, a Berlino, Parigi, Bruxelles. Dove una serie di leader europei o già sconfitti e al crepuscolo (Angela Merkel), o massacrati dai sondaggi (Emmanuel Macron), o con gli scatoloni in mano (pur non essendo mai stati votati dagli elettori: gli attuali Commissari Ue) sperano di ritrovare una ragione di speranza nell’eventuale indebolimento di Donald Trump.Ma ci sono almeno dieci buone ragioni per cui, un’altra volta (come quando nel 2016 tifavano a corpo morto per Hillary Clinton), in molte capitali Ue si rischia di sbagliare i calcoli. Qualunque sia il risultato (a maggior ragione se conservasse la maggioranza in Senato), Trump potrà a buon diritto rivendicare il merito di una clamorosa rimonta in una campagna elettorale che non era la sua. Prima che lui si impegnasse direttamente, i sondaggi erano catastrofici per i Repubblicani. Dal momento della sua discesa in campo, il vento è cambiato. Il tentativo democratico di costruire una campagna ossessivamente antitrumpiana (a partire dal linciaggio del giudice Kavanaugh) si è rivelato controproducente: perché ha rimobilitato l’elettorato repubblicano, e perché lo ha ancora di più “trumpizzato”, cioè fidelizzato rispetto alla linea del Presidente. Figurarsi cosa accadrebbe se gli avversari di Trump provassero ad attivare (perché solo quello potrebbero fare, non certo condurla in porto) la procedura di impeachment. Perché non si vede all’orizzonte un candidato democratico in grado di sfidare Trump nel 2020, mentre Trump, negli ultimi due mesi, è come se avesse aperto con due anni di anticipo la campagna per la sua rielezione. Perché anche gli elettori europei vedono la differenza tra i dati economici spettacolari degli Usa (frutto del mix eterodosso di mega-tagli di tasse, mega-investimenti, e partita di poker sui dazi) e la stentata crescita europea. Perché Trump ha già piegato la Merkel sulla partita geopolitica più rilevante dal punto di vista di Washington, costringendola ad aprire al gas naturale liquefatto Usa, ed evitando che in termini energetici si consolidasse un’egemonia russa sulla Germania. Perché Macron ha subìto un doppio scacco dall’amministrazione Trump, che pure gli aveva teso la mano invitandolo con un’accoglienza di tutto prestigio a Washington la primavera scorsa. Ma l’inquilino dell’Eliseo ha pensato di fare il furbo, provocando Trump con il protagonismo francese in Iran. Risultato? Prima Trump ha varato nuove sanzioni per chi traffica con Teheran (concepite soprattutto in chiave anti-Parigi) e poi ha sostenuto Roma nello scacchiere libico e nord-africano, in contrapposizione alle ambizioni di Macron. Perché Trump sta chiaramente offrendo un ombrello geopolitico all’Italia, ai Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia) e a chiunque funga da riequilibrio e da contrappeso rispetto all’asse franco-tedesco. Perché è ormai fallita l’idea di un’integrazione europea più spinta, di un super-Stato Ue a guida Parigi-Berlino. E’ ormai chiaro che, dopo le prossime elezioni europee, le regole Ue andranno riscritte, all’insegna di un maggior rispetto delle sovranità e delle diversità nazionali. Prospettiva, quest’ultima, più gradita anche a Washington. Non dimentichiamo che gli Usa avevano per decenni incoraggiato il progetto europeista: ma per europeizzare la Germania, non certo per germanizzare l’Europa (come invece rischiava di accadere negli ultimi anni). Perché Trump ha tutto l’interesse a rafforzare la special relationship con Londra, a maggior ragione dopo Brexit, e non accetterà l’idea di una chiusura di negoziato tra Uk e Ue (entro marzo 2019) troppo penalizzante verso il Regno Unito. Perché un po’ tutti hanno dovuto fare i conti con il fatto che l’Amministrazione Usa non scherza rispetto al contributo che i Paesi europei membri dovranno offrire alla Nato, smettendo di operare da free-riders. Insomma, nessuno sa quanto forte uscirà Trump dalla notte del 6 novembre. Ma una cosa è certa: resterà certamente più saldo della gran parte dei suoi antipatizzanti europei.
Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Carlo Melato continua a dialogare con il critico musicale Alberto Mattioli, aspettando la Prima del 7 dicembre del teatro alla Scala di Milano. Tra i misteri più affascinanti del capolavoro di Shostakovich c’è sicuramente il motivo profondo per il quale il dittatore comunista fece sparire questo titolo dai cartelloni dell’Unione sovietica dopo due anni di incredibili successi.