2021-10-27
«Mia madre staffetta fra le tribù e l’Italia»
Il diplomatico Alessandro Quaroni da piccolo ha vissuto a Kabul dove il padre era ambasciatore: «Gli americani hanno perseguito solo un loro interesse. Gli afgani hanno invece sempre sentito amico il nostro Paese. Adesso è vicina la catastrofe della bancarotta: non hanno più soldi»«L'esito della guerra in Afghanistan era prevedibile? Be', direi di sì. Bisogna partire dall'idea che gli americani hanno perseguito un loro interesse non certo quello degli afghani». L'ambasciatore Alessandro Quaroni, 88 anni, trae le sue analisi da un'esperienza unica. Da bambino per otto anni ha vissuto a Kabul con la famiglia: il padre Pietro, ambasciatore italiano appunto a Kabul, il fratello Giorgio e la madre, Larissa Cegodaeff Quaroni, russa, amazzone impavida e ottima fotografa che avrà un ruolo tutt'altro che marginale in questa vicenda che, come vedremo, assume anche i tratti della spy story. Tre generazioni di diplomatici: il figlio Michele ora è il nostro nuovo ambasciatore al Cairo, in un frangente piuttosto delicato.«Mio padre fu nominato ministro plenipotenziario in Afghanistan nel 1935 per punizione perché anche in occasioni pubbliche aveva criticato l'orientamento dell'Italia verso l'alleanza con la Germania. Poi nel '43 fu inviato ambasciatore a Mosca» comincia il suo racconto: «Io a Kabul arrivai a due anni e ce ne andammo che ne avevo dieci. Quella che doveva essere una punizione fu un'avventura incredibile». «Avevamo una sistemazione invidiabile, in un palazzo della famiglia reale, grazie al legame che per ragioni inspiegabili c'è sempre stato con gli italiani. L'Afghanistan era un Paese naturalmente ospitale e curioso verso gli stranieri. C'è sempre stata una profonda affezione con l'Italia, sentita come naturalmente amica: né troppo piccola né troppo grande da nutrire progetti di egemonia su di loro…». E questo è già un indizio sul perché le cose sono andate come sono andate.«Io e mio fratello godevamo di una grande libertà perché praticamente non avevamo una scuola da frequentare», sorride. «Per i miei è stata un'esperienza unica confrontarsi con un mondo e una civiltà così diversi. Partivano spesso, facevamo viaggi che duravano anche due mesi, e noi rimanevamo con la nonna russa».Dei ricordi fanno parte, patrimonio inestimabile, le foto in bianco e nero scattate dalla Rolleiflex della madre, Larissa Cegodaeff. Ecco l'unica strada sterrata per Herat persa in uno struggente nulla. Rivivono Bamiyan come non è più e i giganteschi Buddha, distrutti dalla furia iconoclasta dei talebani. L'Italia come sempre faceva due parti in commedia. A Roma dal '33 era ospite l'ex re dell'Afghanistan, Amanullah, dopo il colpo di Stato del cugino Zahir Shah. Il quale a sua volta nel '73 finirà in esilio sempre nella Città Eterna, detronizzato dal cugino Daoud e con l'inizio di tutto ciò che conosciamo: l'invasione dei sovietici, i talebani, l'intervento degli Usa e della Nato, eccetera eccetera. Amanullah per decenni non abbandonò il sogno di tornare aizzando le rivolte. «I due cugini si pacificarono e abbracciarono nel '60 all'aeroporto di Fiumicino».«Mio padre fece un lavoro appassionato salvo il fatto che il ministero (ministro Galeazzo Ciano, ndr) lo lasciò completamente solo». Spiega ora il figlio Alessandro: «Doveva mantenere buoni rapporti con il governo afghano perché gli affari fra i due Paesi non erano enormi ma comunque consistenti. E contemporaneamente rendere possibile la “carta Amanullah" qualora si fosse resa necessaria e mantenere i collegamenti con le aree tribali che nessun governo centrale mai è riuscito a controllare, in funzione anti-inglese lungo il confine tra Afghanistan e India».Cioè fornivamo armi e soldi alle tribù ribelli per creare problemi al (traballante) dominio di Londra in India? «Abbiamo anche dato forniture militari, più i tedeschi. Noi in prevalenza istruzioni e soldi. Mio padre ebbe l'accortezza di non andare mai nelle aree tribali. Sa chi manteneva i collegamenti?». Non saprei, l'addetto militare? «All'epoca il fachiro Ypi o Ipi era il capo religioso, musulmano, delle terre tribali. Lo scambio di notizie tra le tribù e la legazione italiana aveva un curioso canale: mia madre, ospite frequente del suk di Kabul, trovava infilati discretamente nelle tasche dei messaggi per mio padre». Non male, direi. «Prima di partire mio padre fu a lungo interrogato dai servizi segreti inglesi su quello che avevamo fatto nelle aree tribali. Dal governo Badoglio ebbe l'ordine di dire a loro tutto. Se la cavò molto bene, raccontò la verità». Compresa la storia dei bigliettini del fachiro? (Ride). «Beh, no, quello no… L'Afghanistan è sempre stato un Paese non conquistabile dalle potenze straniere. Gli inglesi ci hanno lasciato il sangue parecchie volte, i sovietici hanno fatto una catastrofe con il pregio di averlo dotato di una rete di strade asfaltate per ragioni militari». Venendo a noi e al - vergognoso - ritiro di Usa e occidentali, era prevedibile quello che abbiamo visto ad agosto? «Gli americani sono entrati in Afghanistan non per difendere gli afghani ma per dare la caccia a Bin Laden». Cioè non si sono presentati come stranieri amici? «No, si presentano con quell'obiettivo particolare, che hanno coltivato in tutti modi e hanno realizzato». E questo spiega perché alla fine hanno vinto i talebani. «Lo sbaglio enorme degli americani è stato annunciare prima della fine dei negoziati che volevano ritirarsi. I talebani a quel punto non hanno più avuto interesse a negoziare alcunché. Va ricordato che a rappresentare gli Stati Uniti a Doha era l'ex ambasciatore americano a Kabul, Zalmay Khalizad, un afghano rifugiato negli Usa…».In vent'anni di guerra l'Italia come se l'è cavata? «Se l'è cavata molto bene dal punto di vista dell'assistenza, cioè delle missioni della cooperazione». Ma non siamo corresponsabili di ciò che è accaduto e soprattutto di aver abbandonato tanti che hanno collaborato con noi o hanno creduto in noi? «Non mi pare abbiamo grandi responsabilità. Gli americani hanno fatto da soli, obbligando la Nato a partecipare ma facendo grosso modo tutto loro. Certo, avrebbero potuto organizzare un po' meglio l'evacuazione». Quale è il rischio più grave adesso per i nostri amici afghani? «La catastrofe che si sta affacciando per i talebani è la bancarotta. Nessuno ha più un soldo. A parte i denari dell'oppio ma che non bastano a sostenere un Paese».