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2018-07-20
Metà degli strumenti negli ospedali costa e sarebbe da buttare
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Evidenzia una situazione paradossale il tragico caso del molisano di 47 anni morto, nei giorni scorsi, per un'emorragia cerebrale, dopo un'odissea di due mancati ricoveri e una Tac non funzionante. L'uomo, residente a Larino (Campobasso), per un malore, martedì mattina era stato trasportato, dal 118, all'ospedale San Timoteo di Termoli, ma la Tac però non funzionava perché era in manutenzione programmata. È stato quindi trasferito a San Giovanni Rotondo (Foggia) dove, in serata i medici ne hanno dichiarato la morte per aneurisma cerebrale. Il ministro della Salute, Giulia Grillo , in una nota, dichiara che invierà una task force in Molise per «accertare le inefficienze organizzative, le eventuali responsabilità personali degli operatori, ma anche gli eventuali errori causati da cattiva programmazione della politica regionale».
Il caso della Tac non funzionante mette in evidenza una situazione assurda. La sanità italiana primeggia in Europa per il numero di macchinari tecnologici per la diagnosi e cura, come si legge nell'ultimo report dell'Osservatorio Eurispes Enpam 2017. L'Italia ha 33,1 Tac per milione di abitanti: il doppio della Francia (14,5) e il quadruplo del Regno Unito (7,89). Il nostro Paese ha anche il più alto numero di macchinari per la Pet (tomografia a emissione di positroni): 174 per milione di abitanti. L'Italia ha 20 risonanze magnetiche (Rmn) per milione di abitanti: come Germania, Grecia, Finlandia, Cipro e Austria. Con una dotazione del genere, dov'è il problema? La quantità, forse, non è tutto.
«Molti strumenti sono obsoleti, non revisionati o collocati in strutture non aperte e con un utilizzo non ottimale, per carenza di personale tecnico e sanitario», si legge nel documento. Più del 50% delle apparecchiature di diagnostica per immagini e di elettromedicina sono troppo vecchie o sottoutilizzate, dice l'ultimo report del Centro studi di Assobiomedica. Destano preoccupazione perché hanno più di dieci anni di vita, quindi obsoleti, «l'82% dei mammografi , il 69% di apparecchiature mobili per le radiografie, il 52% dei ventilatori di terapia intensiva e il 79% dei sistemi radiografici fissi».
Risonanze magnetiche, Pet, Tac, angiografi, mammografi, ventilatori per anestesia e terapia intensiva obsoleti riducono i benefici per il paziente e non fanno nemmeno risparmiare il Sistema sanitario (Ssn). Le tecnologie più recenti infatti permettono diagnosi più accurate e precise, minori esposizioni alle radiazioni, minore quantità delle dosi, maggiore velocità di esecuzione dell'esame e referti informatizzati.
Gli svantaggi di un apparecchiature datate si riversano sul paziente, ma anche sul Ssn, che deve far fronte a costi di manutenzione elevati e ritardi o sospensioni nell'utilizzo dei macchinari, che generano tempi di attesa più lunghi e carichi di utilizzo mal gestiti. Rinnovare il parco tecnologico in sanità richiede lo stanziamento di fondi, ma anche un cambio di mentalità. Secondo Fernanda Gellona, direttore generale di Assobiomedica, bisogna investire «sui meccanismi di rimborso, creando dei sistemi di incentivo per l'utilizzo delle nuove tecnologie e tariffe penalizzanti per i macchinari troppo vecchi. Si tratterebbe di un sistema di rimborsabilità differenziata sul modello francese, che consentirebbe una graduale sostituzione delle apparecchiature più vecchie e una progressiva introduzione di quelle tecnologicamente più innovative».
Sul cambio culturale necessario viene in aiuto anche l'Health technology assessment (Hta), sistema che valuta il valore aggiunto di una nuova procedura, di un dispositivo medico o di un farmaco innovativo, nel suo complesso. «Serve una riorganizzazione della diagnostica», osserva Marco Marchetti, direttore del Centro nazionale Hta dell'Istituto superiore di sanità, «si devono prevedere strutture territoriali con personale adeguatamente formato per sfruttare al meglio le potenzialità delle nuove apparecchiature, per un migliore servizio al paziente, ma anche al Ssn». Come dimostra uno studio inglese «un sistema Hta», continua Marchetti, «può dare un rendimento del 35% a 10 anni». Dopo anni di tagli lineari sulla sanità, il nuovo governo potrebbe invertire la tendenza. «Non è possibile morire per cattiva organizzazione e sostanziale mancanza di assistenza», ha dichiarato il ministro Grillo nella nota con cui ha annunciato di voler fare luce sulla tragica vicenda del giovane molisano. L'intenzione e gli strumenti ci sono, basta ingranare, finalmente, la marcia giusta.
Maddalena Guiotto
Questa è inefficienza criminale: tocca al governo porci rimedio
La morte di un uomo che prima attende a lungo, troppo a lungo, un'ambulanza, essendo l'unica disponibile impegnata in altro intervento, che, poi, trasportato all'ospedale di Termoli, in Molise, non può essere sottoposto a Tac perché in manutenzione, è intollerabile, un caso di inefficienza criminale che deve muovere le autorità competenti perché siano puniti gli eventuali responsabili di questa inefficienza e perché casi del genere non accadano mai più. Perché il governo «del cambiamento» dia agli italiani il segnale che attendono.
È un tema che sento da tempo, quello dell'organizzazione dei servizi di pronto intervento, che ritorna prepotentemente a ogni nuova tragedia, inevitabilmente «annunciata», per dire che si poteva assolutamente evitare.
Rifletto sul tema dell'organizzazione dei servizi sanitari di emergenza da quando, anni fa, da procuratore regionale della Corte dei conti per l'Umbria, avviai accertamenti diretti ad individuare eventuali responsabilità di natura erariale (in conseguenza del risarcimento della vittima) in relazione alla morte di un bambino che, ferito in un incidente stradale, era stato trasportato da un ospedale all'altro della minuscola regione senza che si trovasse la struttura che avrebbe potuto riceverlo per gli interventi del caso, fino a che, all'ultimo inutile ricovero, il piccolo paziente è morto. Nel giro di poche ore in una regione che ha meno abitanti del più piccolo dei municipi di Roma si era compiuta una tragedia che poteva essere evitata solo che l'apparato amministrativo e sanitario, che impegna somme rilevanti del bilancio pubblico, fosse dotato di un minimo di organizzazione dei servizi di emergenza.
Cominciamo dalle ambulanze. In un sistema efficiente l'autorità responsabile del 118 deve sapere, minuto per minuto, quante sono le ambulanze disponibili, pubbliche e private, e dove si trovano. Comprese le autoambulanze dei corpi militari che, in caso di emergenza, debbono poter essere mobilitate. Immaginate un evento che coinvolga decine di persone, per un incidente di quelli a catena, per un attentato, per un'esplosione: ogni ferito che va ricoverato deve essere ospitato in una ambulanza diversa perché comunque diversa può essere la destinazione in relazione alla patologia da affrontare. Può accadere, dunque, che ne servano molte di ambulanze. Inoltre, mi sembra evidente che l'ambulanza, nel momento in cui raccoglie un ferito o un ammalato, debba sapere dove portarlo, non necessariamente nell'Ospedale più vicino ma nella struttura ospedaliera di emergenza adeguata alla patologia sulla quale è necessario intervenire. Il che significa che, non in teoria ma in pratica, il computer di bordo dell'ambulanza deve disporre di dati, certi ed attuali, sulla sala operatoria disponibile, sul reparto di terapia intensiva adatto a quel tipo di intervento, se un infarto, un ictus o altra patologia, sapendo che quel reparto è presidiato e che all'arrivo ci saranno i sanitari pronti ad intervenire con la rapidità necessaria. Non credo che sia una pretesa assurda. Credo che il ministro della Salute, Giulia Grillo, che ha dimostrato capacità di intervento in alcuni dei casi portati all'attenzione delle cronache, vorrà condividere queste mie considerazioni e verificare lo stato dell'arte nel settore dell'informatizzazione dei servizi di emergenza nel senso che prima ho cercato di delineare.
Aggiungo che tutto l'apparato sanitario, compresi i medici privati ed infermieri, dovrebbe essere coinvolto in caso di emergenza. Faccio un esempio estremo, ma certamente istruttivo, di un Paese che vive da sempre una condizione di speciale attenzione per il pericolo di attentati terroristici, Israele. Lì i medici sono tutti ufficiali della riserva. Ad ognuno di essi è assegnato un compito in caso di emergenza nel senso che non hanno bisogno di un ordine o di una indicazione per intervenire, ma sanno dove recarsi, in relazione alla loro specializzazione e alla loro presenza sul territorio. Non voglio fare l'esempio di un attentato, che mi auguro mai interessi l'Italia, ma credo di poter pretendere la massima attenzione delle autorità competenti nei confronti di calamità naturali, dal terremoto all'alluvione, eventi che periodicamente interessano varie regioni d'Italia.
Questo Paese ha bisogno di organizzazioni semplici ma efficienti che sovvengano i cittadini nei casi di emergenza, perché è inammissibile nel 2018 un uomo debba morire perché l'ambulanza arriva in ritardo o perché la Tac non funziona. Un minimo di organizzazione avrebbe mobilitato una diversa ambulanza alla quale sarebbe giunto il messaggio che era inutile andare a Termoli perché in quell'ospedale la Tac non funziona. Per manutenzione.
Salvatore Sfrecola
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Un uomo è morto in Molise dopo due mancati ricoveri e una Tac rotta. Eppure per numero di macchinari siamo primi in Europa.Questa è inefficienza criminale: tocca al governo porci rimedio.Lo speciale contiene due articoliEvidenzia una situazione paradossale il tragico caso del molisano di 47 anni morto, nei giorni scorsi, per un'emorragia cerebrale, dopo un'odissea di due mancati ricoveri e una Tac non funzionante. L'uomo, residente a Larino (Campobasso), per un malore, martedì mattina era stato trasportato, dal 118, all'ospedale San Timoteo di Termoli, ma la Tac però non funzionava perché era in manutenzione programmata. È stato quindi trasferito a San Giovanni Rotondo (Foggia) dove, in serata i medici ne hanno dichiarato la morte per aneurisma cerebrale. Il ministro della Salute, Giulia Grillo , in una nota, dichiara che invierà una task force in Molise per «accertare le inefficienze organizzative, le eventuali responsabilità personali degli operatori, ma anche gli eventuali errori causati da cattiva programmazione della politica regionale».Il caso della Tac non funzionante mette in evidenza una situazione assurda. La sanità italiana primeggia in Europa per il numero di macchinari tecnologici per la diagnosi e cura, come si legge nell'ultimo report dell'Osservatorio Eurispes Enpam 2017. L'Italia ha 33,1 Tac per milione di abitanti: il doppio della Francia (14,5) e il quadruplo del Regno Unito (7,89). Il nostro Paese ha anche il più alto numero di macchinari per la Pet (tomografia a emissione di positroni): 174 per milione di abitanti. L'Italia ha 20 risonanze magnetiche (Rmn) per milione di abitanti: come Germania, Grecia, Finlandia, Cipro e Austria. Con una dotazione del genere, dov'è il problema? La quantità, forse, non è tutto. «Molti strumenti sono obsoleti, non revisionati o collocati in strutture non aperte e con un utilizzo non ottimale, per carenza di personale tecnico e sanitario», si legge nel documento. Più del 50% delle apparecchiature di diagnostica per immagini e di elettromedicina sono troppo vecchie o sottoutilizzate, dice l'ultimo report del Centro studi di Assobiomedica. Destano preoccupazione perché hanno più di dieci anni di vita, quindi obsoleti, «l'82% dei mammografi , il 69% di apparecchiature mobili per le radiografie, il 52% dei ventilatori di terapia intensiva e il 79% dei sistemi radiografici fissi».Risonanze magnetiche, Pet, Tac, angiografi, mammografi, ventilatori per anestesia e terapia intensiva obsoleti riducono i benefici per il paziente e non fanno nemmeno risparmiare il Sistema sanitario (Ssn). Le tecnologie più recenti infatti permettono diagnosi più accurate e precise, minori esposizioni alle radiazioni, minore quantità delle dosi, maggiore velocità di esecuzione dell'esame e referti informatizzati.Gli svantaggi di un apparecchiature datate si riversano sul paziente, ma anche sul Ssn, che deve far fronte a costi di manutenzione elevati e ritardi o sospensioni nell'utilizzo dei macchinari, che generano tempi di attesa più lunghi e carichi di utilizzo mal gestiti. Rinnovare il parco tecnologico in sanità richiede lo stanziamento di fondi, ma anche un cambio di mentalità. Secondo Fernanda Gellona, direttore generale di Assobiomedica, bisogna investire «sui meccanismi di rimborso, creando dei sistemi di incentivo per l'utilizzo delle nuove tecnologie e tariffe penalizzanti per i macchinari troppo vecchi. Si tratterebbe di un sistema di rimborsabilità differenziata sul modello francese, che consentirebbe una graduale sostituzione delle apparecchiature più vecchie e una progressiva introduzione di quelle tecnologicamente più innovative».Sul cambio culturale necessario viene in aiuto anche l'Health technology assessment (Hta), sistema che valuta il valore aggiunto di una nuova procedura, di un dispositivo medico o di un farmaco innovativo, nel suo complesso. «Serve una riorganizzazione della diagnostica», osserva Marco Marchetti, direttore del Centro nazionale Hta dell'Istituto superiore di sanità, «si devono prevedere strutture territoriali con personale adeguatamente formato per sfruttare al meglio le potenzialità delle nuove apparecchiature, per un migliore servizio al paziente, ma anche al Ssn». Come dimostra uno studio inglese «un sistema Hta», continua Marchetti, «può dare un rendimento del 35% a 10 anni». Dopo anni di tagli lineari sulla sanità, il nuovo governo potrebbe invertire la tendenza. «Non è possibile morire per cattiva organizzazione e sostanziale mancanza di assistenza», ha dichiarato il ministro Grillo nella nota con cui ha annunciato di voler fare luce sulla tragica vicenda del giovane molisano. L'intenzione e gli strumenti ci sono, basta ingranare, finalmente, la marcia giusta.Maddalena Guiotto<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/meta-degli-strumenti-negli-ospedali-costa-e-sarebbe-da-buttare-2588208862.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="questa-e-inefficienza-criminale-tocca-al-governo-porci-rimedio" data-post-id="2588208862" data-published-at="1766041736" data-use-pagination="False"> Questa è inefficienza criminale: tocca al governo porci rimedio La morte di un uomo che prima attende a lungo, troppo a lungo, un'ambulanza, essendo l'unica disponibile impegnata in altro intervento, che, poi, trasportato all'ospedale di Termoli, in Molise, non può essere sottoposto a Tac perché in manutenzione, è intollerabile, un caso di inefficienza criminale che deve muovere le autorità competenti perché siano puniti gli eventuali responsabili di questa inefficienza e perché casi del genere non accadano mai più. Perché il governo «del cambiamento» dia agli italiani il segnale che attendono. È un tema che sento da tempo, quello dell'organizzazione dei servizi di pronto intervento, che ritorna prepotentemente a ogni nuova tragedia, inevitabilmente «annunciata», per dire che si poteva assolutamente evitare. Rifletto sul tema dell'organizzazione dei servizi sanitari di emergenza da quando, anni fa, da procuratore regionale della Corte dei conti per l'Umbria, avviai accertamenti diretti ad individuare eventuali responsabilità di natura erariale (in conseguenza del risarcimento della vittima) in relazione alla morte di un bambino che, ferito in un incidente stradale, era stato trasportato da un ospedale all'altro della minuscola regione senza che si trovasse la struttura che avrebbe potuto riceverlo per gli interventi del caso, fino a che, all'ultimo inutile ricovero, il piccolo paziente è morto. Nel giro di poche ore in una regione che ha meno abitanti del più piccolo dei municipi di Roma si era compiuta una tragedia che poteva essere evitata solo che l'apparato amministrativo e sanitario, che impegna somme rilevanti del bilancio pubblico, fosse dotato di un minimo di organizzazione dei servizi di emergenza. Cominciamo dalle ambulanze. In un sistema efficiente l'autorità responsabile del 118 deve sapere, minuto per minuto, quante sono le ambulanze disponibili, pubbliche e private, e dove si trovano. Comprese le autoambulanze dei corpi militari che, in caso di emergenza, debbono poter essere mobilitate. Immaginate un evento che coinvolga decine di persone, per un incidente di quelli a catena, per un attentato, per un'esplosione: ogni ferito che va ricoverato deve essere ospitato in una ambulanza diversa perché comunque diversa può essere la destinazione in relazione alla patologia da affrontare. Può accadere, dunque, che ne servano molte di ambulanze. Inoltre, mi sembra evidente che l'ambulanza, nel momento in cui raccoglie un ferito o un ammalato, debba sapere dove portarlo, non necessariamente nell'Ospedale più vicino ma nella struttura ospedaliera di emergenza adeguata alla patologia sulla quale è necessario intervenire. Il che significa che, non in teoria ma in pratica, il computer di bordo dell'ambulanza deve disporre di dati, certi ed attuali, sulla sala operatoria disponibile, sul reparto di terapia intensiva adatto a quel tipo di intervento, se un infarto, un ictus o altra patologia, sapendo che quel reparto è presidiato e che all'arrivo ci saranno i sanitari pronti ad intervenire con la rapidità necessaria. Non credo che sia una pretesa assurda. Credo che il ministro della Salute, Giulia Grillo, che ha dimostrato capacità di intervento in alcuni dei casi portati all'attenzione delle cronache, vorrà condividere queste mie considerazioni e verificare lo stato dell'arte nel settore dell'informatizzazione dei servizi di emergenza nel senso che prima ho cercato di delineare. Aggiungo che tutto l'apparato sanitario, compresi i medici privati ed infermieri, dovrebbe essere coinvolto in caso di emergenza. Faccio un esempio estremo, ma certamente istruttivo, di un Paese che vive da sempre una condizione di speciale attenzione per il pericolo di attentati terroristici, Israele. Lì i medici sono tutti ufficiali della riserva. Ad ognuno di essi è assegnato un compito in caso di emergenza nel senso che non hanno bisogno di un ordine o di una indicazione per intervenire, ma sanno dove recarsi, in relazione alla loro specializzazione e alla loro presenza sul territorio. Non voglio fare l'esempio di un attentato, che mi auguro mai interessi l'Italia, ma credo di poter pretendere la massima attenzione delle autorità competenti nei confronti di calamità naturali, dal terremoto all'alluvione, eventi che periodicamente interessano varie regioni d'Italia. Questo Paese ha bisogno di organizzazioni semplici ma efficienti che sovvengano i cittadini nei casi di emergenza, perché è inammissibile nel 2018 un uomo debba morire perché l'ambulanza arriva in ritardo o perché la Tac non funziona. Un minimo di organizzazione avrebbe mobilitato una diversa ambulanza alla quale sarebbe giunto il messaggio che era inutile andare a Termoli perché in quell'ospedale la Tac non funziona. Per manutenzione. Salvatore Sfrecola
Giorgia Meloni (Ansa)
Ne è scaturita una dichiarazione finale dei leader europei che riprende tutte le priorità che l’Italia ha sostenuto in questi mesi difficili, e che ho ribadito anche martedì scorso accogliendo a Roma il presidente Zelensky. Il cammino verso la pace, dal nostro punto di vista», aggiunge la Meloni, «non può prescindere da quattro fattori fondamentali: lo stretto legame tra Europa e Stati Uniti, che non sono competitor in questa vicenda, atteso che condividono lo stesso obiettivo, ma hanno sicuramente angoli di visuale non sovrapponibili, dati soprattutto dalla loro differente posizione geografica. Il rafforzamento della posizione negoziale ucraina, che si ottiene soprattutto mantenendo chiaro che non intendiamo abbandonare l’Ucraina al suo destino nella fase più delicata degli ultimi anni». Quanto agli altri due fattori, la Meloni non si esime dall’avvertire dei rischi che correrebbe l’Europa se Vladimir Putin fosse lasciato libero di ottenere tutto quello che vuole: «La tutela degli interessi dell’Europa», incalza la Meloni, «che per il sostegno garantito dall’inizio del conflitto, e per i rischi che correrebbe se la Russia ne uscisse rafforzata, non possono essere ignorati e il mantenimento della pressione sulla Russia, ovvero la nostra capacità di costruire deterrenza, di rendere cioè la guerra non vantaggiosa per Mosca. Come sta, nei fatti, accadendo. Oltre la cortina fumogena della propaganda russa», argomenta il premier, «la realtà sul campo è che Mosca si è impantanata in una durissima guerra di posizione, tanto che, dalla fine del 2022 ad oggi, è riuscita a conquistare appena l’1,45% del territorio ucraino, peraltro a costo di enormi sacrifici in termini di uomini e mezzi. È questa difficoltà l’unica cosa che può costringere Mosca a un accordo, ed è una difficoltà che, lo voglio ricordare, è stata garantita dal coraggio degli ucraini e dal sostegno occidentale alla nazione aggredita». La Meloni entra nel merito di quanto sta accadendo in queste ore: «Il processo negoziale», spiega ancora, «è in una fase in cui si sta consolidando un pacchetto che si sviluppa su tre binari paralleli: un piano di pace, un impegno internazionale per garantire all’Ucraina solide e credibili garanzie di sicurezza, e intese sulla futura ricostruzione della nazione aggredita. È chiaramente una trattativa estremamente complessa, che per arrivare a compimento non può, però, prescindere dalla volontà della Russia di contribuire al percorso negoziale in maniera equa, credibile e costruttiva. Purtroppo, ad oggi, tutto sembra raccontare che questa volontà non sia ancora maturata. Lo dimostrano i continui bombardamenti su città e infrastrutture ucraini, nonché sulla popolazione inerme, e lo confermano le pretese irragionevoli che Mosca sta veicolando ai suoi interlocutori. La principale delle quali riguarda la porzione di Donbass non conquistata dai russi. A differenza di quanto narrato dalla propaganda», insiste ancora la Meloni, «il principale ostacolo a un accordo di pace è l’incapacità della Russia di conquistare le quattro regioni ucraine che ha unilateralmente dichiarato come annesse già alla fine del 2022, addirittura inserendole nella costituzione russa come parte integrante del proprio territorio. Da qui la richiesta russa che l’Ucraina si ritiri quantomeno dall’intero Donbass. È chiaramente questo, oggi, lo scoglio più difficile da superare nella trattativa, e penso che tutti dovremmo riconoscere la buona fede del presidente ucraino, che è arrivato a proporre un referendum per dirimere questa controversia, proposta, però, respinta dalla Russia. In ogni caso, sul tema dei territori, ogni decisione dovrà essere presa tra le parti e nessuno può imporre da fuori la sua volontà». Si arriva agli asset russi: «L’Italia», sottolinea la Meloni con estrema chiarezza, «ha deciso venerdì scorso di non far mancare il proprio appoggio al regolamento che ha fissato l’immobilizzazione dei beni russi senza, tuttavia ancora avallare, ancora, alcuna decisione sul loro utilizzo. Nell’approvare il regolamento», precisa, «abbiamo voluto ribadire un principio che consideriamo fondamentale: decisioni di tale portata giuridica, finanziaria e istituzionale, come anche quella dell’eventuale utilizzo degli asset congelati, non possono che essere prese al livello dei leader. Intendiamo chiedere chiarezza rispetto ai possibili rischi connessi alla proposta di utilizzo della liquidità generata dall’immobilizzazione degli asset, particolarmente quelli reputazionali, di ritorsione o legati a nuovi, pesanti, fardelli per i bilanci nazionali». L’ipotesi di una forza multinazionale resta in discussione «con partecipazione volontaria di ciascun Paese», sostiene ancora la Meloni, ma «l’Italia non intende inviare soldati in Ucraina». Nelle repliche la Meloni ha gioco facile a rispondere alle critiche delle opposizioni, divise ancora una volta. A chi le chiede di scegliere tra Europa e Stati Uniti, la Meloni risponde di «stare con l’Italia» e rivolgendosi al Pd ricorda che se l’Europa rischia l’irrilevanza è per le politiche portate avanti negli ultimi anni dalla sinistra.
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Le macchine che incroci per le strade della capitale portano sulle fiancate dei grandi fiocchi gialli per non dimenticare le 251 persone rapite da Hamas. Il 7 ottobre del 2023 è stato uno spartiacque. È il nuovo prima e dopo Cristo per Israele. E pure per la Palestina.
Gerusalemme arranca. I turisti sono pochi nonostante si stia avvicinando il Natale. I controlli moltiplicati. Lungo la via dolorosa, quella che Cristo fece portando la croce, i militari israeliani scrutano con attenzione chiunque gli si pari davanti. Del resto, non lontano da qui, sono stati ammazzati Adiel Kolman e Aharon Bennett. Basta un coltello per togliere la vita.
Dal 1948, arabi e israeliani hanno sempre faticato a convivere. Ogni parte voleva prevalere sull’altra. «Facci caso» - ci racconta Omar, un ortodosso - «non vedrai mai un ebreo e un mussulmano insieme. Se mai dovessi vederli è perché accanto a loro c’è anche un cristiano». E pare proprio così, soprattutto a Betlemme, che torna a festeggiare il Natale dopo due anni di buio. Ne ha parecchio bisogno la città del pane. La disoccupazione, ci racconta una ragazza, è ormai arrivata all’82%. Un dramma nel dramma. L’acqua è contingentata, come dimostrano le grandi cisterne installate sopra le case. Bisogna raccoglierne il più possibile perché non è detto che domani, o dopo, ci sarà.
Alla polizia turistica non sembra vero di vedere degli stranieri. «Prego, prego», si affrettano a dire, indicando la catena che ci separa dalla chiesa della Natività che, insieme a quella del Santo sepolcro, racchiude la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù. Ci invita a scavalcarla. Le regole vanno infrante. Ci sono dei turisti e devono essere trattati bene. Meglio ancora quando viene a sapere che siamo giornalisti: «Dite che Betlemme continua a vivere», si raccomanda. Poco più in là, un gigantesco albero di Natale illumina la piazza. Sotto di lui un presepio dai colori sgargianti. È semplice ma c’è tutto: Gesù, che è già arrivato, Maria, Giuseppe, e pure i re Magi, che a quanto pare non possono permettersi il lusso di essere fermati da un’altra guerra. Meglio portarsi avanti ed essere lì ad adorare il Bambinello.
È ormai sera inoltrata. Arrivare a Betlemme non è stato semplice. Il checkpoint principale, quello che permette alle macchine dirette in Cisgiordania di defluire più facilmente, era chiuso. Bisogna fare un giro più largo, quindi. Sono già passate le 9 di sera, eppure la piazza è piena. Ci sono famiglie, bambini che giocano a pallone. Un ragazzo ci ferma e ci spiega come per lui il Natale sia innanzitutto dolcezza. Un altro, invece, ci spiega che è musulmano ma che anche per lui questa festa rappresenta innanzitutto dolcezza e che la celebrerà. In piazza c’è perfino un Babbo Natale che cerca di vendere cappellini e palloncini per bambini. È emozionato. Non faceva più questo lavoro da anni. Ed eccolo lì con il suo pancione fuori misura (ma neanche troppo visto che il cibo qui a volte scarseggia) e la voglia di far felici gli altri: «Siete tutti benvenuti a Betlemme, tutto il mondo deve venire qui».
Non è facile però. Come ci spiega un ex diplomatico dell’autorità palestinese che ha trattato a lungo i negoziati con Israele, «il 7 ottobre ha cambiato tutto, da una parte e dall’altra. La soluzione dei due Stati, che già prima era difficile da realizzare, ora è impossibile. Israele si è spostata molto a destra e quello che era il pensiero di pochi è oggi diventato il pensiero di tanti. Allo stesso tempo, però, né Hamas né l’autorità palestinese rappresentano un’alternativa valida per noi». Quale sia l’alternativa, però, non si sa. Si vive sospesi. Come se qualcosa di nuovo e tremendo dovesse accadere ancora. I coloni, a Gerusalemme Est, continuano a occupare le case dei palestinesi. E pure in Cisgiordania. La convivenza pare una chimera. Ma poi ci tornano in mente le parole di Omar: «Se c’è un cristiano, allora è possibile». Come a Betlemme, del resto.
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Che cosa dice la proposta incardinata alla Camera? Innanzitutto che chi vuole amministrare un condominio deve avere una laurea. Non è chiaro se questo preluda all’istituzione di percorsi di studi universitari con specializzazione nella gestione di condomini, sta di fatto che, se si ha un diploma senza essere iscritto a un albo, ordine o collegi di area economica, giuridica o tecnica (cioè se non si è geometra, perito industriale o ragioniere), non si potrà più amministrare un condominio. Fin qui passi, anche se ogni tanto si discute dell’abolizione del valore legale della laurea, si capisce la ratio della norma che si vuole introdurre, per evitare pasticci nella tenuta dei conti. Viene, poi, il rinnovo automatico del professionista incaricato a meno che l’assemblea non decida diversamente, così da evitare pericolosi stalli in cui chi deve occuparsi della gestione non ha un mandato e deve operare solo per l’ordinaria amministrazione.
Però, poi, ci sono un paio di novità che rischiano di trasformarsi in un salasso per moltissime famiglie. La prima riguarda i morosi, cioè quelli che non pagano le spese condominiali. Invece di rendere più spedite le esecuzioni nei loro confronti, la legge concede loro più tempo. Non solo: se un proprietario di casa non paga, per esempio le spese di manutenzione già eseguite o l’erogazione del gas che pro quota gli compete, i fornitori - cioè, manutentori e gestori - potranno rivalersi non soltanto sul condomino moroso, ma anche sul condominio e - soprattutto - sui proprietari che sono in regola con le spese. In pratica, i furbi la faranno franca perché basterà farsi trovare con il conto corrente prosciugato per non sborsare un euro. Gli onesti, invece, rischiano di dover pagare anche per i disonesti. Infatti, se passa il disegno di legge, in caso di mancato pagamento il fornitore potrà attingere direttamente al conto corrente condominiale e, poi, potrà pretendere che sia chi è in regola a saldare i conti. Una follia che sicuramente farà felici i fornitori mentre renderà furiosi i proprietari di casa che sono alle prese con vicini con forti arretrati nel versamento delle spese condominiali.
Non è finita. La proposta di legge include anche un’idea che sicuramente si trasformerà in una spesa in più per i condomini più grandi. Infatti, la legge introdurrebbe l’obbligo di nominare un revisore dei conti nei palazzi con più di venti appartamenti, poi la sicurezza delle parti comuni dovrà essere attestata da una società specializzata e l’amministratore potrà ordinare la messa a norma a prescindere dalle decisioni dell’assemblea. Non vi sfuggirà che sia il revisore sia il certificatore della sicurezza non lavoreranno gratis e, dunque, i condomini dovranno mettere mano al portafogli.
Intendiamoci, capisco le ragioni delle norme che si vogliono introdurre per fare in modo che gli edifici abbiano impianti in regola. E comprendo anche i controlli sul bilancio da parte di un professionista esterno, per evitare che l’amministratore faccia il furbo o scappi con la cassa. Tuttavia, poi, bisogna anche badare ai bilanci delle famiglie, già gravati da un’infinità di gabelle. In particolare, c’è da comprendere che, se un condomino non paga, non vanno penalizzati i vicini in regola: semmai si può disporre il pignoramento veloce dell’immobile posseduto dal furbo, disposizioni già adottate in altri Paesi, come Stati Uniti e Francia, con addirittura la messa in vendita dell’alloggio. Vedrete che i disonesti avranno meno voglia di sottrarsi al pagamento delle spese condominiali. Senza gravare sulle spalle degli onesti.
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Fabien Mandon (Getty Images)
Ai generaloni prudono le mani. Uno dopo l’altro, infatti, si lasciano andare a dichiarazioni da cui traspare che non vedono l’ora di entrare in guerra. Ha cominciato Fabien Mandon, nuovo capo di Stato maggiore francese, che durante un incontro con l’assemblea dei sindaci transalpini ha detto senza alcuna perifrasi che «il Paese deve prepararsi a perdere i suoi figli» in un eventuale conflitto con la Russia. Ha proseguito l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del Comitato militare della Nato che, in un’intervista al Financial Times, ha invece svelato i piani degli alti papaveri dell’Alleanza atlantica: «Stiamo studiando tutto… Finora siamo stati piuttosto reattivi. Diventare più aggressivi, passare da una postura reattiva a una proattiva è qualcosa a cui stiamo pensando». In pratica l’alto ufficiale ha voluto chiarire cosa bolle in pentola nel comando Nato, ovvero un attacco preventivo alla Russia, dicendo che si tratterebbe di una «forma di azione difensiva», che tuttavia, a prescindere da come la si chiami, equivarrebbe all’entrata in guerra contro Mosca.
Poi, dopo il francese e l’italiano, l’altro ieri è arrivato il capo di Stato maggiore britannico, Richard Knighton, che in un discorso tenuto al Royal United Services Institute, celebre think tank del settore difesa, ha invitato a tenersi pronti e a prepararsi a costruire, servire e se necessario a combattere. E visto che a Natale tutti sono portati a far festa, già che c’era ha aggiunto una pessimistica previsione: «Sempre più famiglie comprenderanno cosa significa il sacrificio per la nostra nazione». In altre parole, Knighton ha ripetuto quanto annunciato dal collega francese: preparatevi a perdere i vostri figli.
Ovviamente capisco che, se un militare si è allenato per una vita a combattere, non veda l’ora di entrare in azione, soprattutto se il suo destino non è di finire in prima linea, ma di sedere comodo dietro una scrivania a giocare ai soldatini, spostando truppe, studiando strategie, pianificando avanzate e controffensive. Comprendo perfino che dopo quasi quattro anni di guerra alle porte dell’Europa qualcuno non stia più nella pelle per la voglia di scendere in campo e guadagnare una medaglia. Tuttavia, questa frenesia per il conflitto pone alcuni problemi pratici. Il primo, per quanto ci riguarda, è costituzionale. Nella Carta su cui si fonda la nostra Repubblica c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra come soluzione delle diatribe fra Stati. Non so se l’ammiraglio Cavo Dragone, che parla di attacco preventivo alla Russia, si è posto il problema: ma qualsiasi decisione non compete né a lui né alla Nato ma al Parlamento. So bene che ai tempi di Massimo D’Alema, al cui fianco sedeva Sergio Mattarella, se ne infischiarono delle Camere e spedirono i caccia italiani a bombardare Belgrado, ma aver violato la Costituzione una volta non significa essere autorizzati a violarla una seconda, soprattutto se non si perde occasione per appellarsi ai valori fondativi della Repubblica.
Il secondo problema riguarda il popolo italiano, che sempre da Costituzione è il vero sovrano del Paese. Qualcuno ha intenzione di informarlo che i generaloni sono pronti alla guerra? Chi si prende il compito di spiegare che manderemo i nostri figli a morire e che le nostre città potrebbero essere devastate dalle bombe di Putin come da tre anni e mezzo sono devastate quelle ucraine? L’America fu costretta a ritirarsi dal Vietnam, ponendo fine al conflitto, perché l’opinione pubblica non era in grado di sopportare le immagini delle bare avvolte nella bandiera a stelle e strisce. Qualcuno pensa che gli italiani, di fronte ai primi morti, chineranno il capo invece di inseguire con i forconi i generali che li hanno portati in guerra? Beh, temo che si sbagli.
Una cosa però mi incuriosisce ed è la coincidenza delle dichiarazioni di alti ufficiali nei giorni in cui si parla con sempre maggior intensità di pace. Più si apre qualche spiraglio per una tregua e più gli alti gradi delle forze armate europee, con le loro lugubri previsioni, sembrano tifare guerra. Oddio, non ci sono solo i militari, anche qualche politico pare sensibile all’argomento. Prendete Ursula von der Leyen. Ha detto che «la pace di ieri è finita. Non abbiamo tempo per indulgere nella nostalgia. Ciò che conta è come affrontiamo l'oggi». Già me la vedo la generalessa al comando delle Sturmtruppen europee. Forse, visto che le sue quotazioni sono in calo in tutta Europa, sogna di risollevarsi come fece la Thatcher, che risalì nei consensi quando mandò le navi britanniche a riprendersi le Falkland. Purtroppo, non soltanto la baronessa non è la Lady di ferro, ma la Russia non è l’Argentina e a giocare con il fuoco si rischia di scottarsi. Anzi, rischiamo noi di scottarci ed è una prospettiva su cui credo che la maggioranza degli italiani abbia le idee chiare. Non finiremo al fronte, né in miseria, per assecondare la voglia di guerra di quattro generali e di quattro politici in cerca di gloria.
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