True
2023-08-10
La Meloni spiega la tassa: «Troppi margini ingiusti». Ma il gettito sarà ridotto
Giorgia Meloni (Ansa)
L’onere-onore di annunciare il prelievo sui margini delle banche è toccato, nella conferenza stampa sul decreto Asset, a Matteo Salvini. Il compito di smorzarlo, imponendo un tetto (lo 0,1% degli attivi), se l’è preso martedì sera il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Ma l’imprimatur politico lo dà il premier Giorgia Meloni che nel consueto appuntamento con «Gli appunti di Giorgia» ha risposto alle critiche piovute sulla «ratio» e sulle modalità del provvedimento: «Il Consiglio dei ministri», ha spiegato il leader di Fdi, «ha approvato diverse misure, la più importante delle quali secondo me è la tassazione sui margini ingiusti delle banche». Ecco, in quell’«ingiusti» c’è tutto il senso dell’intervento del presidente del Consiglio. Ora, si può discutere ore su ciò che potrebbe essere considerato «giusto» e «ingiusto» e sulla discrezionalità della definizione, ma evidentemente alla Meloni tutto questo interessa poco. Ieri il capo del governo ha voluto evidenziare che «viviamo una fase economica e finanziaria molto complicata». Come sappiamo: «In Europa abbiamo avuto una forte inflazione causata da fattori esterni alla nostra economia» e che «la risposta della Bce è stata quella di intervenire - si potrebbe discutere sull’efficacia dell’iniziativa - con una “politica” molto decisa di aumento dei tassi di interesse che ha provocato un aumento dei prezzi, del costo del denaro e dei nuovi mutui». Quindi è arrivata al punto: «In questa situazione è fondamentale che il sistema bancario si comporti in modo corretto». Ma evidentemente per la Meloni molti istituti di credito non l’avrebbero fatto.
Tant’è, la chiosa: «Con le risorse recuperate aiuteremo a finanziare i provvedimenti per sostenere famiglie e imprese di fronte alle difficoltà legate all’alto costo del denaro, che non permettono, spesso, neanche di affrontare serenamente le spese di un mutuo».
Tradotto: per la Meloni, i guadagni dovuti al fatto che le banche hanno alzato gli interessi a famiglie e imprese che chiedono loro i soldi in prestito ai livelli imposti dalla Banca centrale, mentre li lasciavano vicini allo zero per i conti correnti e i depositi dei cittadini è «ingiusto». Quindi di conseguenza è giusto prelevare una parte di quei profitti per lenire le difficoltà soprattutto delle famiglie che a causa dei rialzi non riescono a pagare la rata del mutuo.
C’è un filo logico dietro questo ragionamento, che di sicuro va di traverso al mercato e alle sue logiche, ma è innegabile. Ed è quello che sta a cuore al premier. Che in questo trova conforto nella forza dei numeri: i tassi bancari sui conti correnti erano pari allo 0,03% nel mese di giugno del 2022 e hanno raggiunto quota 0,36% un anno dopo, mentre i mutui per le famiglie schizzavano dal 2,37% al 4,65% e i prestiti alle imprese dall’1,44% al 5,04%. Giorgia Meloni è consapevole che alla fine della fiera il gettito della misura, se non sarà irrisorio, ci andrà molto vicino. In due giorni, tanto per dare l’idea, la misura è stata sgonfiata per ben due volte (prima alzando le soglie e poi imponendo un tetto) e la trattativa con le banche deve ancora entrare nel vivo. Ma a questo punto il gettito è l’ultima delle sue preoccupazioni. Con questa misura il capo del governo è sicuro di aver ribaltato la prospettiva rispetto alle accusa di «fare la guerra ai poveri» che la sinistra gli sta muovendo, partendo dal tema del reddito di cittadinanza e arrivando fino alla proposta sul salario minimo.
Poi c’è il dato che riguarda gli equilibri all’interno della maggioranza. Che hanno portato ieri Palazzo Chigi a prendere le distanze da alcuni retroscena: «Le ricostruzioni apparse su alcuni organi di stampa in merito alla genesi della norma sugli extra-profitti bancari, secondo le quali ci sarebbe stato un contrasto di vedute tra Mef e presidenza del Consiglio, sono totalmente inventate e frutto della fantasia di chi ne ha scritto», ha precisato la presidenza del Consiglio. Sono talmente tanto fantasiose al punto che Chigi ribadisce quanto già evidenziato il giorno prima dal ministero di Giorgetti: «Il testo della norma è stato messo a punto dal Mef in piena sintonia con l’intero governo e approvato in modo unanime dal Consiglio dei ministri». Chiarimento a parte è però innegabile che sul tema nella maggioranza ci siano delle sensibilità diverse. Così com’è innegabile che la presa di posizione della Meloni rappresenti anche un altolà e una presa di distanza da Forza Italia.
Soprattutto dalla Forza Italia più vicina alle istanze della famiglia Berlusconi. Quella che nell’immediato post provvedimento aveva parlato di cambiamenti in Parlamento e la cui posizione ieri è stata ribadita dal presidente dei deputati di Forza Italia, Paolo Barelli: «Il tasso di interesse chiesto dalle banche soffre la decisione della Bce di aumentare il costo del denaro, decisione mai condivisa da Forza Italia», ha spiegato, «Il governo italiano ha deciso di tassare i profitti delle banche: questo ha creato disagio nella Borsa, nei mercati finanziari, tra i piccoli risparmiatori. La credibilità di un paese dipende dalla solidità e dalla affidabilità del suo sistema bancario».
Se non è un mea culpa, ci somiglia tanto. E sarebbe un mea culpa che la Meloni considererebbe doppiamente «ingiusto».
Con il tetto annunciato da Giorgetti impatto «morbido» per gli istituti
La vicenda dell’imposta straordinaria sulle banche - del cui approdo in Gazzetta Ufficiale non si hanno ancora notizie - ieri si è rivelata per quello che è. Un’improvvida uscita agostana buona per animare le chiacchiere sotto l’ombrellone o nelle baite e catturare l’attenzione mediatica che l’opposizione stava conquistando, incalzando il governo su salario minimo e reddito di cittadinanza. Insomma, qualcosa di simile al famoso «a brigante, brigante e mezzo».
Ma, soprattutto quando si parla di società quotate che gestiscono il risparmio e i pagamenti degli italiani, è un metodo che non paga, anzi, crea danni. Annunciare in conferenza stampa lunedì sera un’imposta del genere, senza farla uscire in Gazzetta Ufficiale la sera stessa - come fece Giuliano Amato quando nel luglio 1992 prelevò il sei per mille dai conti correnti degli italiani - non può che seminare incertezza tra gli investitori che non sanno più quale sarà il carico fiscale che abbatterà gli utili e quindi il valore di Borsa delle azioni delle banche coinvolte. La certezza giuridica è tutto in questi casi. Invece nulla, oltre al comunicato stampa del Consiglio dei ministri terminato alle 20.31 di lunedì.
E così per tutta la giornata di martedì le azioni delle banche hanno registrato pesanti ribassi che hanno portato l’indice settoriale ad arretrare del 6% circa perdendo 900 punti. Quando poi martedì alle 19.55 è giunto il comunicato del Mef che ha aggiunto l’essenziale tassello, di cui non c’era traccia appena 24 ore prima, costituito dal tetto all’importo che poteva gravare su ogni singola banca (0,1% dell’attivo), ieri i calcoli hanno cominciato ad essere più fattibili e definiti, e quello che sembrava l’esibizione muscolare di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri si è ridimensionata, con impatti non catastrofici sui conti delle banche.
Infatti ieri sera l’indice settoriale ha mostrato un recupero del 3% circa, recuperando poco meno della metà della perdita di martedì. Ma ormai la frittata era fatta e, come prevedibile, per tutta la giornata Financial Times e Bloomberg hanno imperversato parlando di «confusione», «marcia indietro», «perdita di credibilità». Addirittura prospettando scenari di crisi di governo. Non attendevano altro, e il governo ha offerto maldestramente il fianco.
Abbiamo fatto una simulazione sui conti di Credem, una delle banche più solide e redditizie d’Europa, con un perimetro sostanzialmente nazionale più facile da analizzare (anche se è parzialmente fuorviante analizzare i dati del bilancio consolidato), e abbiamo stimato che, se nel secondo semestre 2023 il margine di interesse fosse pari a quello del primo, la sovraimposta graverebbe per 216 milioni. Ma con il tetto, estratto come un coniglio dal cilindro dal ministro Giancarlo Giorgetti, si scende a circa 65 milioni. Poco meno della metà delle imposte gravanti sul gruppo nel 2022 e una frazione dei 299 milioni di utile netto del primo semestre 2023. Banca Generali, per fare un altro esempio, ha dichiarato un impatto di poco meno di 20 milioni.
Eppure c’erano tutte le premesse per fare bene. Infatti è un dato oggettivo che le banche abbiano beneficiato, a partire dal secondo semestre 2022, di un eccezionale incremento del margine di interesse perché hanno potuto da subito adeguare i tassi dei loro prestiti e nicchiare nell’aumentare i tassi corrisposti sui depositi. Il risultato è negli annunci delle semestrali di questi ultimi giorni, in cui gli utili netti delle principali banche italiane sono aumentati dal 40% al 100% rispetto al primo semestre 2022. Ma il confronto va fatto tra 2023 ed il 2021 (è improbabile che il confronto tra 2022 e 2021, pure possibile, restituisca valori superiori) e quindi l’imposta non è retroattiva, pur violando comunque l’articolo 4 dello Statuto del contribuente.
In questo modo è stato superato uno dei difetti del «contributo straordinario» a carico delle imprese del settore energetico varato dal governo Draghi nel marzo 2022, con gettito disastroso rispetto alle previsioni, calcolato su periodi pregressi. Positiva anche la scelta del margine di interesse (dato esposto in bilancio e non da calcolarsi ex novo) come base di calcolo, invece dell’improbabile ricorso ai dati Iva fatto nel 2022.
Restano invece tutte da superare le obiezioni poste dalla Corte costituzionale nel 2015, giudicando la Robin Hood Tax introdotta dal governo Berlusconi nel 2008. Perché in astratto è possibile derogare al principio di capacità contributiva e uguaglianza e istituire un’imposta, seppure temporanea, che agisca sui profitti in eccesso (cosiddetti guadagni «immeritati»), ma ci deve essere un’adeguata motivazione, riconducibile a situazioni eccezionali di carattere esogeno (come una guerra). Qui invece siamo in presenza di effetti di un fenomeno normale, come quello dei tassi che salgono e scendono (ricordate i tassi negativi?) in relazione alla congiuntura economica. Secondo la Corte «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione». È inoltre tutto da dimostrare che l’eccedenza del margine rispetto al 2021 sia idonea misura del profitto in eccesso. Infatti, dove sta scritto che il 2021 è stato un anno di redditività «normale», come richiesto dalla Corte? Ricordiamo infatti che le banche pagavano per depositare la loro liquidità presso la Bce o investire in titoli di Stato a breve e non hanno mai applicato tassi negativi sulla raccolta presso i risparmiatori. Sono nodi che verranno al pettine. Nel frattempo, sotto l’ombrellone non ci si annoierà.
Continua a leggere
Riduci
Il premier non ne fa un problema di gettito, bensì di equità: così stoppa Fi e respinge gli attacchi del Pd sulla povertà.Con il tetto annunciato da Giancarlo Giorgetti impatto «morbido» per gli istituti. Credem avrebbe dovuto pagare 216 milioni e alla fine ne potrebbe versare 65. Mentre per Banca Generali il peso sarà inferiore ai 20 milioni. Resta il rischio che la Corte costituzionale possa bocciare la norma.Lo speciale contiene due articoli.L’onere-onore di annunciare il prelievo sui margini delle banche è toccato, nella conferenza stampa sul decreto Asset, a Matteo Salvini. Il compito di smorzarlo, imponendo un tetto (lo 0,1% degli attivi), se l’è preso martedì sera il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti. Ma l’imprimatur politico lo dà il premier Giorgia Meloni che nel consueto appuntamento con «Gli appunti di Giorgia» ha risposto alle critiche piovute sulla «ratio» e sulle modalità del provvedimento: «Il Consiglio dei ministri», ha spiegato il leader di Fdi, «ha approvato diverse misure, la più importante delle quali secondo me è la tassazione sui margini ingiusti delle banche». Ecco, in quell’«ingiusti» c’è tutto il senso dell’intervento del presidente del Consiglio. Ora, si può discutere ore su ciò che potrebbe essere considerato «giusto» e «ingiusto» e sulla discrezionalità della definizione, ma evidentemente alla Meloni tutto questo interessa poco. Ieri il capo del governo ha voluto evidenziare che «viviamo una fase economica e finanziaria molto complicata». Come sappiamo: «In Europa abbiamo avuto una forte inflazione causata da fattori esterni alla nostra economia» e che «la risposta della Bce è stata quella di intervenire - si potrebbe discutere sull’efficacia dell’iniziativa - con una “politica” molto decisa di aumento dei tassi di interesse che ha provocato un aumento dei prezzi, del costo del denaro e dei nuovi mutui». Quindi è arrivata al punto: «In questa situazione è fondamentale che il sistema bancario si comporti in modo corretto». Ma evidentemente per la Meloni molti istituti di credito non l’avrebbero fatto. Tant’è, la chiosa: «Con le risorse recuperate aiuteremo a finanziare i provvedimenti per sostenere famiglie e imprese di fronte alle difficoltà legate all’alto costo del denaro, che non permettono, spesso, neanche di affrontare serenamente le spese di un mutuo». Tradotto: per la Meloni, i guadagni dovuti al fatto che le banche hanno alzato gli interessi a famiglie e imprese che chiedono loro i soldi in prestito ai livelli imposti dalla Banca centrale, mentre li lasciavano vicini allo zero per i conti correnti e i depositi dei cittadini è «ingiusto». Quindi di conseguenza è giusto prelevare una parte di quei profitti per lenire le difficoltà soprattutto delle famiglie che a causa dei rialzi non riescono a pagare la rata del mutuo. C’è un filo logico dietro questo ragionamento, che di sicuro va di traverso al mercato e alle sue logiche, ma è innegabile. Ed è quello che sta a cuore al premier. Che in questo trova conforto nella forza dei numeri: i tassi bancari sui conti correnti erano pari allo 0,03% nel mese di giugno del 2022 e hanno raggiunto quota 0,36% un anno dopo, mentre i mutui per le famiglie schizzavano dal 2,37% al 4,65% e i prestiti alle imprese dall’1,44% al 5,04%. Giorgia Meloni è consapevole che alla fine della fiera il gettito della misura, se non sarà irrisorio, ci andrà molto vicino. In due giorni, tanto per dare l’idea, la misura è stata sgonfiata per ben due volte (prima alzando le soglie e poi imponendo un tetto) e la trattativa con le banche deve ancora entrare nel vivo. Ma a questo punto il gettito è l’ultima delle sue preoccupazioni. Con questa misura il capo del governo è sicuro di aver ribaltato la prospettiva rispetto alle accusa di «fare la guerra ai poveri» che la sinistra gli sta muovendo, partendo dal tema del reddito di cittadinanza e arrivando fino alla proposta sul salario minimo. Poi c’è il dato che riguarda gli equilibri all’interno della maggioranza. Che hanno portato ieri Palazzo Chigi a prendere le distanze da alcuni retroscena: «Le ricostruzioni apparse su alcuni organi di stampa in merito alla genesi della norma sugli extra-profitti bancari, secondo le quali ci sarebbe stato un contrasto di vedute tra Mef e presidenza del Consiglio, sono totalmente inventate e frutto della fantasia di chi ne ha scritto», ha precisato la presidenza del Consiglio. Sono talmente tanto fantasiose al punto che Chigi ribadisce quanto già evidenziato il giorno prima dal ministero di Giorgetti: «Il testo della norma è stato messo a punto dal Mef in piena sintonia con l’intero governo e approvato in modo unanime dal Consiglio dei ministri». Chiarimento a parte è però innegabile che sul tema nella maggioranza ci siano delle sensibilità diverse. Così com’è innegabile che la presa di posizione della Meloni rappresenti anche un altolà e una presa di distanza da Forza Italia. Soprattutto dalla Forza Italia più vicina alle istanze della famiglia Berlusconi. Quella che nell’immediato post provvedimento aveva parlato di cambiamenti in Parlamento e la cui posizione ieri è stata ribadita dal presidente dei deputati di Forza Italia, Paolo Barelli: «Il tasso di interesse chiesto dalle banche soffre la decisione della Bce di aumentare il costo del denaro, decisione mai condivisa da Forza Italia», ha spiegato, «Il governo italiano ha deciso di tassare i profitti delle banche: questo ha creato disagio nella Borsa, nei mercati finanziari, tra i piccoli risparmiatori. La credibilità di un paese dipende dalla solidità e dalla affidabilità del suo sistema bancario». Se non è un mea culpa, ci somiglia tanto. E sarebbe un mea culpa che la Meloni considererebbe doppiamente «ingiusto».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/meloni-spiega-tassa-banche-2663124923.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="con-il-tetto-annunciato-da-giorgetti-impatto-morbido-per-gli-istituti" data-post-id="2663124923" data-published-at="1691639076" data-use-pagination="False"> Con il tetto annunciato da Giorgetti impatto «morbido» per gli istituti La vicenda dell’imposta straordinaria sulle banche - del cui approdo in Gazzetta Ufficiale non si hanno ancora notizie - ieri si è rivelata per quello che è. Un’improvvida uscita agostana buona per animare le chiacchiere sotto l’ombrellone o nelle baite e catturare l’attenzione mediatica che l’opposizione stava conquistando, incalzando il governo su salario minimo e reddito di cittadinanza. Insomma, qualcosa di simile al famoso «a brigante, brigante e mezzo». Ma, soprattutto quando si parla di società quotate che gestiscono il risparmio e i pagamenti degli italiani, è un metodo che non paga, anzi, crea danni. Annunciare in conferenza stampa lunedì sera un’imposta del genere, senza farla uscire in Gazzetta Ufficiale la sera stessa - come fece Giuliano Amato quando nel luglio 1992 prelevò il sei per mille dai conti correnti degli italiani - non può che seminare incertezza tra gli investitori che non sanno più quale sarà il carico fiscale che abbatterà gli utili e quindi il valore di Borsa delle azioni delle banche coinvolte. La certezza giuridica è tutto in questi casi. Invece nulla, oltre al comunicato stampa del Consiglio dei ministri terminato alle 20.31 di lunedì. E così per tutta la giornata di martedì le azioni delle banche hanno registrato pesanti ribassi che hanno portato l’indice settoriale ad arretrare del 6% circa perdendo 900 punti. Quando poi martedì alle 19.55 è giunto il comunicato del Mef che ha aggiunto l’essenziale tassello, di cui non c’era traccia appena 24 ore prima, costituito dal tetto all’importo che poteva gravare su ogni singola banca (0,1% dell’attivo), ieri i calcoli hanno cominciato ad essere più fattibili e definiti, e quello che sembrava l’esibizione muscolare di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri si è ridimensionata, con impatti non catastrofici sui conti delle banche. Infatti ieri sera l’indice settoriale ha mostrato un recupero del 3% circa, recuperando poco meno della metà della perdita di martedì. Ma ormai la frittata era fatta e, come prevedibile, per tutta la giornata Financial Times e Bloomberg hanno imperversato parlando di «confusione», «marcia indietro», «perdita di credibilità». Addirittura prospettando scenari di crisi di governo. Non attendevano altro, e il governo ha offerto maldestramente il fianco. Abbiamo fatto una simulazione sui conti di Credem, una delle banche più solide e redditizie d’Europa, con un perimetro sostanzialmente nazionale più facile da analizzare (anche se è parzialmente fuorviante analizzare i dati del bilancio consolidato), e abbiamo stimato che, se nel secondo semestre 2023 il margine di interesse fosse pari a quello del primo, la sovraimposta graverebbe per 216 milioni. Ma con il tetto, estratto come un coniglio dal cilindro dal ministro Giancarlo Giorgetti, si scende a circa 65 milioni. Poco meno della metà delle imposte gravanti sul gruppo nel 2022 e una frazione dei 299 milioni di utile netto del primo semestre 2023. Banca Generali, per fare un altro esempio, ha dichiarato un impatto di poco meno di 20 milioni. Eppure c’erano tutte le premesse per fare bene. Infatti è un dato oggettivo che le banche abbiano beneficiato, a partire dal secondo semestre 2022, di un eccezionale incremento del margine di interesse perché hanno potuto da subito adeguare i tassi dei loro prestiti e nicchiare nell’aumentare i tassi corrisposti sui depositi. Il risultato è negli annunci delle semestrali di questi ultimi giorni, in cui gli utili netti delle principali banche italiane sono aumentati dal 40% al 100% rispetto al primo semestre 2022. Ma il confronto va fatto tra 2023 ed il 2021 (è improbabile che il confronto tra 2022 e 2021, pure possibile, restituisca valori superiori) e quindi l’imposta non è retroattiva, pur violando comunque l’articolo 4 dello Statuto del contribuente. In questo modo è stato superato uno dei difetti del «contributo straordinario» a carico delle imprese del settore energetico varato dal governo Draghi nel marzo 2022, con gettito disastroso rispetto alle previsioni, calcolato su periodi pregressi. Positiva anche la scelta del margine di interesse (dato esposto in bilancio e non da calcolarsi ex novo) come base di calcolo, invece dell’improbabile ricorso ai dati Iva fatto nel 2022. Restano invece tutte da superare le obiezioni poste dalla Corte costituzionale nel 2015, giudicando la Robin Hood Tax introdotta dal governo Berlusconi nel 2008. Perché in astratto è possibile derogare al principio di capacità contributiva e uguaglianza e istituire un’imposta, seppure temporanea, che agisca sui profitti in eccesso (cosiddetti guadagni «immeritati»), ma ci deve essere un’adeguata motivazione, riconducibile a situazioni eccezionali di carattere esogeno (come una guerra). Qui invece siamo in presenza di effetti di un fenomeno normale, come quello dei tassi che salgono e scendono (ricordate i tassi negativi?) in relazione alla congiuntura economica. Secondo la Corte «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione». È inoltre tutto da dimostrare che l’eccedenza del margine rispetto al 2021 sia idonea misura del profitto in eccesso. Infatti, dove sta scritto che il 2021 è stato un anno di redditività «normale», come richiesto dalla Corte? Ricordiamo infatti che le banche pagavano per depositare la loro liquidità presso la Bce o investire in titoli di Stato a breve e non hanno mai applicato tassi negativi sulla raccolta presso i risparmiatori. Sono nodi che verranno al pettine. Nel frattempo, sotto l’ombrellone non ci si annoierà.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggere
Riduci
Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
Continua a leggere
Riduci
Getty Images
Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
Continua a leggere
Riduci