2025-05-28
Industriali e Meloni fanno fronte comune contro il Green deal e i dazi interni all’Ue
Giorgia Meloni all'assemblea di Confindustria a Bologna (Ansa)
Dal palco dell’assemblea, Orsini invoca un piano d’investimenti e meno vincoli. Il premier rincara la dose. Metsola fa da sponda.A Bologna, in occasione dell’assemblea di Confindustria, Emanuele Orsini ha alzato la palla e Giorgia Meloni ha schiacciato. Stop al Green deal, via i dazi interni all’Unione europea, basta burocrazia, revisione delle norme penalizzanti dell’automotive e uso dei fondi del Pnrr per favorire ciò che dovranno fare gli imprenditori: investire. Sembra scontato che il capo di Confindustria chieda ai suoi di mettere mano al portafogli e investire, ma nell’ultimo decennio non è stata certo una frase detta dal palco confindustriale. Forse però a fare da innesco alla miccia dell’esplosivo è il tanto vituperato vento che arriva dalla Casa Bianca. La minaccia di barriere tariffarie sta svegliando i produttori europei ed è l’occasione per il governo di smarcarsi ancora di più dalle lentezze e dalle indecisioni di Bruxelles.«Mi auguro che l’Europa abbia il coraggio di rimuovere i dazi interni che si è autoimposta in questi anni», ha detto Meloni in un passaggio del suo intervento all’assemblea annuale. «Il rilancio del mercato unico europeo è una priorità perché chiaramente consentirebbe di mettere l’Europa anche al riparo da scelte protezionistiche di altri Paesi. Come governo siamo pronti a fare la nostra parte», ha assicurato. D’altronde i numeri che mettono a confronto l’economia europea e quella americana sono abbastanza impietosi. L’Unione sta entrando in un tunnel alla cui estremità ci sarà il big bang. L’esplosione di un modello che per almeno 25 anni ha scelto di governare con la burocrazia i propri confini e i propri cittadini. Ignorando quello che stava succedendo fuori. All’esterno, nel resto del mondo. Per ben cinque lustri Bruxelles non ha mai incentivato gli investimenti, non ha speso in armi dimenticando il semplice e celebre motto latino: si vis pacem para bellum. Ha perso il controllo delle materie prime e travolta dalla propria mania di tutelare i diritti civili e l’ambiente ha perduto anno dopo anno le relazioni privilegiate con l’Africa. Non ha prodotto, insomma, alcuna novità. Né in tema di lavoro, né in ambito digitale e nemmeno sociale. Al contrario ha cercato di imporre regole persino agli altri, convinta che pure i Paesi extra Ue fossero assopiti. Basti pensare all’esempio prodotto da Frans Timmermans. Invece crescevano e crescevano e sono diventati ricchi. L’Ue è riuscita a combinare alti livelli di sviluppo umano con una disuguaglianza relativamente bassa, creando un mercato unico di 440 milioni di consumatori e 23 milioni di aziende che insieme rappresentano circa il 17% del Pil globale. Questa struttura economica è stata sostenuta da politiche sociali progressiste, un elevato livello di istruzione e standard sanitari e un forte impegno per la protezione ambientale. Nonostante queste basi, il divario nel Pil tra Ue e Usa si è ampliato in modo significativo, con l’economia statunitense in crescita a un ritmo più rapido. Anche il reddito disponibile reale pro capite dell’Ue è rimasto indietro, crescendo a quasi la metà del tasso Usa. In termini di parità del potere d’acquisto, il divario del Pil Ue-Usa è aumentato dal 15% nel 2002 al 30% nel 2024, mentre il divario del Pil pro capite è aumentato dal 31% al 34%. Queste cifre riflettono un problema più profondo all’interno della struttura economica europea: un ritardo significativo nella crescita della produttività. Tra il 2008 e il 2022, quasi il 30% degli unicorni europei, startup valutate oltre il miliardo, ha trasferito la propria sede all’estero, principalmente negli Stati Uniti. Così ieri dalla Fiera di Bologna, Orsini ha fatto presente che lo spostamento di investimenti verso gli Usa può avere un’accelerazione. Tradotto: altra deindustrializzazione per l’Europa e l’Italia. «Serve un piano industriale straordinario», hanno detto praticamente all’unisono il capo degli industriali e il premier. Il quale, di fronte a Roberta Metsola (estremamente aperturista e filo Meloni), ha ribadito che il Green deal ha anteposto l’ideologia alla neutralità tecnologica. «Il resto del mondo non condivide né i nostri standard, né i loro costi», ha chiosato Orsini, « e tutto ciò ci porta fuori mercato». Quindi norme contro il motore a scoppio, mercato degli Ets e Cbam vanno totalmente rivisti. Al primo punto c’è un piano per ridurre i costi dell’energia, stimolare gli investimenti e diminuire il gap di competitività delle aziende italiane, assieme al rilancio di una produttività ferma al palo. Un accordo con Donald Trump sui dazi è altrettanto urgente, così come la semplificazione del sovraccarico di direttive europee. Ma tutti coloro che sono saliti ieri sul palco di Bologna hanno mostrato di voler mettere maggiore accento sul pericolo dazi interni che che su quelli che potrebbero arrivare da Oltreoceano. C’è una consapevolezza che la congiuntura positiva non può durare troppo a lungo. Il Pil ha un buon andamento e l’occupazione tiene perché molte imprese trattengono i dipendenti nonostante il calo dell’attività. Il 2026 avrà un nuovo perimetro monetario e nuove sfide. La partita che impone la revisione del modello socialista Ue si gioca nei prossimi sei mesi. Certo, bisogna cogliere l’occasione di usare in modo diverso i fondi di coesione, così come prendere pezzi importanti di Pnrr e usarli per ciò che serve veramente. Ma il messaggio chiaro da far correre a livello di Consiglio Ue è che serve una doppia operazione. Magari consolidare il mercato e la dimensione delle aziende ma al tempo stesso chiedere a Bruxelles un passo indietro sulla morsa che vuole imporre sull’industria. Su questo serve semplicemente meno Europa.
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