2024-04-22
Matteo Lovisa: «Juve Stabia in B: il lavoro fa miracoli»
Matteo Lovisa (ufficio stampa Juve Stabia)
Il ds specializzato in promozioni: «L’obiettivo era la salvezza, ma passo dopo passo abbiamo alzato l’asticella. Il mio segreto? Zero social e 20 ore di lavoro al giorno. L’algoritmo serve, però è l’occhio a fare la differenza».«Non sono venuto a Castellammare per scaldare la sedia. L’obiettivo è la salvezza». Con queste poche e determinate parole pronunciate in conferenza stampa, Matteo Lovisa si era presentato alla Juve Stabia il 22 giugno 2023, quando la società campana decise di affidargli il ruolo di direttore tecnico prima e sportivo poi. Detto fatto. Anzi, superato. Otto mesi più tardi, infatti, dopo lo 0-0 dell’8 aprile contro il Benevento, le Vespe guidate dall’allenatore Guido Pagliuca hanno conquistato la matematica promozione in Serie B con addirittura tre giornate di anticipo.Tra gli artefici di quello che in molti hanno definito un «miracolo sportivo», c’è sicuramente Matteo Lovisa. Il ventottenne direttore sportivo originario di San Daniele del Friuli, però, non è né alla prima esperienza né alla prima promozione in cadetteria, visto che già nel 2019 aveva fatto centro con la squadra della sua città, il Pordenone, giunto alle porte della Serie A con la semifinale playoff nel 2020 e prima ancora, nel 2017, a un passo da un’impresa clamorosa come quella di eliminare l’Inter a San Siro agli ottavi di Coppa Italia, quando il sogno sfumò soltanto ai calci di rigore. L’esperienza con la squadra friulana, di cui il padre Mauro era presidente, purtroppo si è conclusa male con il fallimento della scorsa stagione. Ma è proprio da lì che il giovane Matteo ha saputo rimboccarsi le maniche, percorrere 800 chilometri da Nord a Sud e ricominciare altrove.Direttore, seconda promozione in Serie B a 28 anni. Niente male vero?«A dire il vero spero di aver già dato con la Serie C nella mia carriera» (ride). «Però diciamo che avere già due promozioni sicuramente è qualcosa di bello».Qual è il segreto?«Io cerco di trasferire la mentalità che ho, poi non sempre ci si riesce perché ovviamente un successo o un insuccesso non dipendono solo dal direttore o dall’allenatore o dal singolo giocatore. Ma posso dire che siamo riusciti a creare, sia cinque anni fa che quest’anno, due gruppi con grande mentalità vincente e con dei valori, sia tecnici che umani».A proposito, cosa pensa quando legge «miracolo Juve Stabia»?«Penso che la fortuna aiuti gli audaci, ma se sei primo in classifica fin dalla prima giornata non credo si tratti di fortuna, anche perché abbiamo sempre avuto un buon margine sulle inseguitrici. È vero, abbiamo avuto a disposizione un gruppo di ragazzi per bene e con grande dedizione, però non basta senza la qualità tecnica. Nel senso, si possono fare delle buone stagioni, ma se non hai qualità tecniche importanti non si vincono i campionati».Anche perché siete partiti con l’obiettivo della salvezza e siete andati ben oltre.«Sì assolutamente sì. L’entusiasmo era importante fin da subito, poi quello che si è venuto a creare durante l’anno è qualcosa di molto bello che ci rende orgogliosi».Ma in cuor suo ci credeva nel poter realizzare qualcosa del genere fin dall’inizio?«È chiaro che l’obiettivo iniziale non era vincere il campionato. Di settimana in settimana abbiamo spostato sempre un po’ più in alto l’asticella e da lì è stato un crescendo continuo».Che legame si è creato tra lei e la gente di Castellammare di Stabia?«Devo dire molto bello. Sicuramente da parte mia ha influito anche l’aver ricevuto tutti gli apprezzamenti, gli attestati di stima e l’entusiasmo che si è venuto a creare quando la società ha comunicato che avrei rinnovato per altri due anni il contratto. Questa piazza si merita di fare una categoria superiore».Significa che il progetto è a lungo termine?«Con il presidente era già da settimane che ne parlavamo, poi abbiamo temporeggiato per vedere come evolveva la stagione. A marzo le idee erano un po’ più chiare e quindi abbiamo deciso di portare avanti questo percorso».L’essere entrato in così poco tempo nel cuore dei tifosi cosa significa per lei?«È un motivo di orgoglio. Penso che la gente abbia apprezzato il fatto che lavoro veramente tanto. Le scelte non sono mai state fatto a caso, ma sempre con un minimo di idee e programmazione. È questo che i tifosi mi hanno chiesto a inizio stagione».È vero che va a tutti gli allenamenti?«A tutti quelli che posso. Diciamo che la mia vita è fatta di calcio. Anche la mia ragazza, che vive con me, lo sa bene» (ride). «In pratica vivo 20 ore al giorno di calcio perché è il mio lavoro e la mia passione».Anche per i giocatori immagino che sentire la presenza del direttore sia importante.«Io cerco di essere quotidianamente al campo sia per dare una parola di sostegno nei momenti negativi, sia per tenere tutti sul pezzo in quelli positivi. Perché non c’è solo una componente tecnica, ma anche una di gestione settimanale che secondo me oggi viene un po’ sottovalutata e che invece io ritengo fondamentale. E poi assistere agli allenamenti aiuta il direttore».In cosa?«Quest’anno con Guido Pagliuca ho imparato tante cose perché è un allenatore veramente bravo. È fondamentale capire il tipo di allenatore che hai per creargli una squadra funzionale per quello che vuole fare».A proposito, in che modo sceglie i giocatori?«C’è prima una parte video e poi una di campo che, solitamente, deve lasciarti qualcosa affinché tu scelga un calciatore piuttosto che un altro. Poi, certo, ogni giocatore lo parametri con delle caratteristiche in base al ruolo e ogni direttore ha i suoi di parametri».E cosa pensa della nuova scuola di ds che sceglie i calciatori in base agli algoritmi?«Penso che alla fine l’occhio umano sia sempre la cosa migliore, la sensazione che ti lascia un giocatore sul campo l’algoritmo non te la dà. È diverso rispetto a vedere un video o leggere dei numeri. Poi certo, banche dati e sistemi tecnologici possono aiutare, ma devono essere un valore aggiunto, non una discriminante».C’è un modello di ds a cui si ispira?«Beh, penso che ce ne sono parecchi che hanno fatto la gavetta. Il primo che mi viene in mente è Cristiano Giuntoli, partito dal basso e arrivato alla Juventus. Anche io sono partito dal basso e il mio obiettivo è provare ad arrivare il più in alto possibile, ma senza scordarmi da dove sono partito, perché non è che si arriva in Serie A per grazia ricevuta, ma solo tramite i risultati e il lavoro serio».Lei è partito da Pordenone, squadra da dove sono passati giocatori che oggi militano in Serie A: Di Gregorio, Pobega, Ciurria. Che effetto le fa?«Fa piacere vederli oggi a questi livelli perché sono ragazzi che hanno fatto un percorso con me e che hanno la testa sulle spalle. L’atteggiamento e una dedizione al lavoro importante sono i presupposti per arrivare in alto. Ed è quello che ricerco nei giocatori quando vado a prenderli, oltre alle qualità tecniche».A Pordenone qualcuno le aveva appiccicato l’etichetta scomoda di «figlio di papà». Le serviva fare un’esperienza diversa per staccarla?«Io l’ho sempre detto: penso solo a lavorare. Non ho social e niente di tutto ciò, mi concentro sul lavoro. Poi se arriverò in Serie A, B o C non lo so, lo dirà il campo. Ci vorrà un po’ di buona sorte sicuramente, però penso che dal punto di vista del lavoro nessuno può rimproverarmi nulla perché cerco sempre di fare il massimo. Poi le etichette mi interessano poco. Quel che conta è provare a vincere le partite e raggiungere gli obiettivi stabiliti a inizio stagione».Ma proprio a livello suo personale, sentiva questa necessità?«Sicuramente sì, ma più sotto gli occhi degli altri. Dal punto di vista mio cambia poco, anzi forse è più complicato farlo a casa che fuori».Da dove nasce la sua passione per il calcio?«Da ragazzino giocavo, poi siccome sono una persona molto ambiziosa e non vedevo la prospettiva di andare oltre il dilettantismo, ho deciso di fare altre scelte e quindi il direttore».Con discreti risultati.«Ho iniziato nove anni fa a 19 anni. Sono stato bravo e fortunato a ottenere due promozioni in Serie B. I risultati diciamo che sono venuti, poi certo ci sono stati anche i momenti negativi, che però sicuramente mi hanno fatto crescere, perché si impara soprattutto da quelli».Come si può praticare un calcio sostenibile oggi?«Penso che l’unica filosofia sia investire sui giovani, avere una rete di scouting buona, cercare quei giocatori che vengono da annate non positivissime e provare a rilanciarli».Sta già programmando la prossima stagione immagino.«Sì, perché penso che il lavoro si debba programmare di giorno in giorno. Non credo in un lavoro in cui si arriva a luglio e si dice ora che facciamo. Certo, dipende anche dal budget che si ha a disposizione e da molte altre situazioni, ma le idee in generale un direttore deve averle sempre».Anche perché lei ha già avuto un’esperienza in B.«Sì, so cosa serve. È un campionato totalmente diverso. Si alzano tutti i parametri, tecnici, economici, fisici e di organizzazione. La Juve Stabia ha una base solida, deve incrementare tutto e alzare il livello per non fare solo una comparsa, ma per rimanerci».Quindi obiettivo salvezza?«Assolutamente. Per la Juve Stabia salvarsi in Serie B sarebbe come vincere un campionato».Sognando, chissà, un triplo salto...«Non sono discorsi da affrontare a inizio anno. L’entusiasmo ci dev’essere, ma non deve mancare l’equilibrio perché sicuramente delle sconfitte arriveranno. Non dovremo farci travolgere dagli eventi perché la Serie B è lunga e dobbiamo restare sul pezzo».
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