2023-05-28
Mattarella striglia il governo per i decreti d’urgenza anche se fa come Supermario
Il capo dello Stato contesta l’eccesso di emendamenti e la disomogeneità delle norme. L’esecutivo però segue la prassi del passato, figlia di un iter parlamentare farraginoso.Com’era prevedibile, al ritorno di un governo politico, per giunta di centrodestra, e comunque al tramonto dei governi ibridi e tecnocratici, torna puntuale la contestazione - curiosamente sospesa in presenza di altri esecutivi - contro l’uso e l’abuso dei decreti legge e la loro scarsa omogeneità per materia. Il richiamo - in termini generali - è venuto dal capo dello Stato, subito seguito da una compatta schiera di costituzionalisti (forse in vacanza negli ultimi anni), politici di sinistra (probabilmente omonimi di quelli che erano in maggioranza fino a un semestre fa) e naturalmente di quotidiani (che però avevano omesso per anni di occuparsi del tema).Il presidente della Repubblica - in particolare - si è rivolto ai presidenti delle due Camere segnalando il rischio che nell’iter di conversione dei decreti vengano inseriti emendamenti estranei per materia. Com’è noto, il decreto legge è un atto normativo di rango primario varato dal governo in casi di necessità e urgenza, quando cioè le circostanze impongano un intervento particolarmente tempestivo, e che tuttavia il Parlamento deve esaminare e trasformare in legge (si parla appunto di «conversione in legge») entro 60 giorni. Ora, se stiamo alla lettera delle osservazioni del Quirinale, e anche se consideriamo - sempre letteralmente - le contestazioni sollevate in questi giorni da costituzionalisti e commentatori, si tratta di rilievi non discutibili, astrattamente condivisibili. Esistono tuttavia almeno quattro argomenti che - in concreto - rendono per lo meno sospetta la campagna di stampa scatenata verso il governo Meloni e la sua maggioranza. Primo. Il governo attuale ha varato - se abbiamo fatto bene i conti - 27 decreti legge. La cosa può piacere o meno, ma è in linea, considerando la durata dei vari governi, con gli esecutivi che l’hanno preceduto: il governo Draghi ne varò 62 (in 17 mesi), il Conte bis 54, il Conte uno 30. Dunque, di che parliamo? Perché aprire ora (e solo ora) questa polemica?Se vogliamo contestare (vero) la tendenza dei governi a ricorrere ai decreti legge più che ai disegni di legge, sfondiamo una porta aperta. Ma onestà intellettuale imporrebbe di ricordare la pesantezza dell’iter di approvazione parlamentare di un disegno di legge: doppia approvazione tra Camera e Senato di un testo che deve essere assolutamente identico, necessità di un ulteriore passaggio a ogni singolo emendamento approvato nell’altro ramo del Parlamento, e così via. Sfido chiunque a governare un Paese dell’Occidente avanzato ricorrendo solo all’iter ordinario di un disegno di legge. Pura fantasia. Secondo. Per questa ragione, da sempre i governi prendono la scorciatoia del decreto legge. E - a partire dagli esecutivi a guida democristiana che al Quirinale dovrebbero ben ricordare - lo fanno con una serie notissima di anomalie: ricorso al decreto legge anche in casi in cui la necessità e l’urgenza sono discutibili; reiterazione del decreto se la conversione parlamentare non avviene nei tempi; e pratica dei cosiddetti decreti omnibus, cioè di provvedimenti in cui si infila un po’ di tutto, senza alcun riguardo all’omogeneità della materia trattata. La cosa è spiacevolissima, ma deriva dalla malattia che abbiamo descritto poco fa: se i treni dei disegni di legge sono fermi in stazione, mentre l’unica locomotiva che viaggia è quella del decreto legge, è impossibile resistere alla tentazione di agganciare a quella locomotiva qualche altro vagone. Terzo. Proprio questi sono i motivi che dovrebbero indurre tutte le persone ragionevoli a spingere per una riforma istituzionale seria che snellisca l’iter di approvazione delle norme, che ponga fine allo stato di cose per cui Camera e Senato fanno esattamente lo stesso mestiere (duplicando tempi e percorsi), che rafforzi la capacità di iniziativa normativa del governo. Peccato che in genere proprio tra coloro che hanno sollevato la polemica di questi giorni si trovino i più arcigni difensori dello status quo costituzionale. Per capirci: sono gli stessi che sparano a palle incatenate contro presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato forte. E allora che vogliono? Quarto. C’è la contestazione relativa agli emendamenti «estranei per materia» che vengono infilati dai parlamentari durante l’iter di conversione dei decreti. Vero: toccherebbe ai presidenti delle commissioni e poi, in seconda battuta, ai presidenti delle Camere uno scrutinio più severo sull’ammissibilità delle proposte emendative e sulla loro congruità rispetto al provvedimento a cui si riferiscono. Ma anche qui, evitiamo ipocrisie: è ovvio che un parlamentare cerchi di agganciarsi - pure lui - al treno che corre, anziché rimanere bloccato su una vettura ferma. E peraltro qui a essere in causa è il Parlamento, mica il governo: dunque, semmai, si tratta di un motivo di riflessione per chi - da decenni - ci infligge la cantilena sulla mitica «centralità del Parlamento». Lascino in pace Giorgia Meloni, dunque.