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2018-05-26
Il Colle fa muro su Savona. Qui rischia di saltare tutto
Alle 17.55 di ieri, il premier incaricato Giuseppe Conte sale al Quirinale per incontrare il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Riserva sciolta? Lista dei ministri pronta? Giuramento in vista? Macché: nulla di tutto questo. L'incontro tra Conte e Mattarella è informale: il «quasipremier» informa il capo dello Stato sull'andamento delle trattative per la formazione del governo, dopo un lungo summit con Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La lista dei ministri è praticamente pronta, e per l'Economia la designazione resta quella di Paolo Savona. Conte sa che Mattarella, su quel nome, non è d'accordo. Sa che se si presentasse con quel nome al momento di sciogliere la riserva, il presidente della Repubblica, come avvenuto molte volte in passato, potrebbe dire «no», mettendo il premier pentastellato di fronte a un'alternativa politicamente drammatica: rinunciare all'incarico o accettare la controproposta del Quirinale, con il risultato di far sfilare la Lega dall'accordo un istante dopo.
I minuti trascorrono interminabili: la notizia del colloquio tra Conte e Mattarella prende tutti di sorpresa. Si tratta di un evento irrituale: il «quasipremier» e il presidente della Repubblica avrebbero dovuto incontrarsi ma in maniera ufficiale, per sciogliere la riserva e discuter dei ministri. I più ottimisti pensavano che già ieri potesse finalmente nascere il «governo del cambiamento», e lo stesso Mattarella si era tenuto libero, annullando la partecipazione alla Coppa delle Nazioni del Concorso Ippico di Piazza di Siena, a villa Borghese. Invece, nulla da fare: Conte ha bisogno di parlare con Mattarella, probabilmente per confermare la assoluta indisponibilità di Matteo Salvini a rinunciare a Paolo Savona come ministro dell'Economia.
Conte è tra due fuochi: spiega con estrema chiarezza la situazione a Mattarella, con il quale ha stabilito una buona armonia. «Presidente, senza Savona salta tutto», dice il prof. Il capo dello Stato è impassibile, ricorda a Conte quante volte, nel corso del loro primo incontro, aveva sottolineato i poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica. Mattarella rilegge l'articolo 92 della Carta: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Non è disposto ad accettare diktat, Mattarella, come aveva detto l'altro ieri, attraverso una nota, fatta trapelare dal Quirinale, dai toni durissimi nei confronti di Salvini.
Il colloquio termina alle 18, è durato un'ora. I palazzi della politica tremano, l'incubo delle elezioni anticipate incombe di nuovo sui parlamentari, di tutti i partiti, che avevano sperato, pensato, creduto che tutto fosse a posto. Agitazione, nervosismo: i cellulari sono incandescenti. Giuseppe Conte torna alla Camera, riferisce a Luigi Di Maio e Matteo Salvini i contenuti dell'incontro con Mattarella. Diventa evidente la difficoltà di un (quasi) presidente del Consiglio privo della minima autonomia, che ha bisogno di interpellare i leader dei due partiti di maggioranza prima di prendere qualunque decisione.
Non solo: tra la Lega e il M5s cresce la reciproca diffidenza. Luigi Di Maio nei giorni scorsi ha provato a convincere il suo «gemello diverso», Matteo Salvini, a trovare un'alternativa a Savona. Giancarlo Giorgetti, braccio destro di Salvini, poteva essere indicato per il ministero dell'Economia al posto di Savona e Mattarella avrebbe dato l'ok. Ma il leader del Carroccio ha tenuto duro: «O Savona, o niente». Tanto che in serata sbotta su Facebook, con un post sibillino: «Sono davvero arrabbiato», subito condiviso dall'alleato Luigi Di Maio. Mossa che sembra cancellare il sospetto, ventilato tutto il giorno, che Salvini voglia mandare tutto a monte per tornare alle elezioni con il centrodestra. Anche molti leghisti, del resto, nutrono perplessità sull'atteggiamento del M5s. Pensano che tra Di Maio e Mattarella ci sia un accordo di ferro, benedetto dall'Unione europea e dal dipartimento di Stato americano, con l'obiettivo di depotenziare il Carroccio, di diluirne l'euroscetticismo e la posizione filorussa nel liquido insapore e incolore del M5s, sostanza che si colora di rosso, verde, blu a seconda delle convenienze del momento.
Il problema, ormai, non è Savona, che in mattinata aveva risposto «sì che lo penso» a chi gli chiedeva se avesse sentore di veti sul suo nome. Il problema è che Mattarella non è disposto a farsi mettere ko da Salvini, e continua a ritenere che un presidente del Consiglio privo di autonomia decisionale possa rappresentare un problema. «La preoccupazione del Colle», aveva fatto trapelare Mattarella, 24 ore prima, «è che si stia cercando di limitare l'autonomia del presidente del Consiglio incaricato e, di conseguenza, del presidente della Repubblica nell'esercizio delle loro prerogative». Oggi sapremo se la nave del cambiamento salperà, o resterà ancorata nel porto di Savona.
Il prof «rivoluzionario»? No, ha solo buon senso
«Se mai c'è stata una cattiva idea, questa è l'unione monetaria», scriveva Rudiger Dornbusch, autore di uno dei libri di testo più in uso nelle facoltà economiche italiane, nel 1996. Cioè 22 anni fa, e prima che nascesse l'euro. Solo nell'incredibile canea scatenatasi sul caso di Paolo Savona poteva passare il concetto più incredibile di tutti: ovvero che le idee e i pensieri economici dell'ex ministro siano «incendiari», «rivoluzionari», «eretici». Savona esprime, con cultura, standing, capacità e credibilità analisi sui limiti funzionali dell'eurozona perfettamente allineate con la migliore scienza economica mondiale da qualche decennio.
Che la moneta unica aumenti gli squilibri all'interno dell'area euro, penalizzi i Paesi debitori e rappresenti una voragine nella domanda mondiale è un'evidenza complessa da occultare. Per questo il processo a Savona è inspiegabile se guardato dal lato delle tesi espresse. Che dice l'economista, il cui pensiero abbiamo riassunto ieri in due pagine? Che l'euro penalizza i deboli e premia i forti, e politicamente i forti non hanno interesse a sanare la situazione. Cosa dice, per esempio, il Nobel Joseph Stiglitz? «Esiste un divario dei tassi di interesse (lo spread) che riflette il diverso giudizio del mercato in merito al rischio e alla capacità delle banche di ciascun Paese di erogare credito alle imprese nazionali. Le economie più povere dovranno pagare tassi di interesse più elevati e lo stesso varrà per le imprese di questi Paesi, soprattutto a causa dell'intreccio tra banche e governi nell'attuale struttura dell'eurozona. In termini di competitività, questo mette il singolo Paese e le sue imprese in una situazione di svantaggio che porta a un'ulteriore divergenza» (L'euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa, Einaudi 2017).
Cosa propone Savona? Una messa in comune dei debiti. Cosa dice Stiglitz nel testo citato? «Esiste una soluzione: un sistema comune di assicurazione dei depositi per tutte le banche dell'eurozona. Verrebbero meno gli incentivi che provocano il deflusso di denaro dai paesi deboli verso quelli forti». Ma Berlino non vuole.
Cos'ha destato scalpore in alcune frasi di Savona sul passato della Germania? Il richiamo all'ostinazione storica di un Paese poco incline, diciamo così, a cambiare idea. Cos'ha scritto Stiglitz?
«La Germania resta aggrappata con le unghie e con i denti all'idea che i paesi debbano vivere con i loro mezzi, e che se solo si attenessero a questa norma tutto andrebbe bene». Savona arriva a porre il tema, inevitabile, di qualità della democrazia in un sistema in cui la politica esce completamente delegittimata. Ancora Stiglitz: «Anche se pochi sarebbero disposti ad ammetterlo, il dibattito - o la contesa - sull'euro è molto più una questione di potere e democrazia, di ideologie in contrasto fra loro, di una diversa visione del mondo e della natura della società che non di denaro o di economia».
Paul Krugman, altro Nobel, nel 1998 - quattro anni prima dell'introduzione dell'euro - scriveva: «L'Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per fare contenta la Germania; per garantire una severa disciplina antinflazionistica da sempre desiderata da Berlino, e che sempre vorrà in futuro». Quasi vent'anni dopo, sul New York Times, siamo ancora lì: «Durante l'euroforia, quando i capitali fluivano in maniera apparentemente sicura nelle economie del Sud, quelle economie hanno sperimentato una moderata inflazione, che ha permesso alla Germania di maturare un vantaggio competitivo senza deflazionare. Poi la fiducia e l'afflusso di capitali sono collassati, e ciò di cui ci sarebbe bisogno sarebbe stata una forte reflazione tedesca, che avrebbe di fatto restituito il favore all'Europa del Sud, consentendole di recuperare competitività senza macinare deflazione con i relativi problemi sul debito».
Savona, a confronto, pare più cauto.
Martino Cervo
Un punto fermo: Giorgetti premier ombra
«Starà nel suo habitat naturale, sotto il pelo dell'acqua con pinne e maschera». Rappresentato così dai suoi amici per la discrezione, Giancarlo Giorgetti si prepara all'avventura nel nuovo governo come un punto fermo della Lega, l'uomo degli equilibri e delle garanzie. Il ruolo è ritagliato su misura come un abito sartoriale: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il politico con le chiavi di Palazzo Chigi in tasca. Ma non sarà lì perché fedelissimo di Giuseppe Conte (come fece Luca Lotti con Matteo Renzi, di cui fu segretario e parafulmine), bensì per tutelare gli interessi dell'altra metà del cielo, quella non grillina. Non essendo previsti vicepremier, il suo potere sarà immenso.
La soluzione è pronta e ha un obiettivo: rassicurare Silvio Berlusconi, farlo uscire da sotto la tenda di Achille nella quale si è rifugiato con sdegno e indurlo a essere meno ostile nei confronti dell'esecutivo. Giorgetti premier ombra (quanto a competenza e a relazioni istituzionali) potrebbe limare numerosi spigoli che affliggono Forza Italia e consentire agli azzurri di garantire, di volta in volta, l'astensione se non il voto favorevole nella giungla vietnamita del Senato, dove è facile individuare trappole dietro ogni scranno. Con soli sei voti di maggioranza, il governo rischia di cadere anche sulle divise dei portalettere. Garante del mondo finanziario dai tempi di Umberto Bossi, abituato a sedere in cda e board di fondazioni, Giorgetti è la sponda preferita dell'ambasciata americana, ma anche un riferimento per la Russia putiniana, con la quale ha intessuto stretti rapporti nel periodo in cui ha fatto parte della delegazione italiana nella Nato ed è stato vicepresidente della commissione Affari esteri. Bocciato come premier da Luigi Di Maio in persona con una frase lapidaria («È troppo potente, sposterebbe da solo il governo a destra»), l'ex sindaco di Cazzago Brabbia rappresenta la bussola sull'arca di Noè pronta a salpare per il futuro.
Quasi per uno sbaffo da artista, oltre che sottosegretario sarà anche ministro dello Sport, esattamente come Lotti a suo tempo. Giorgetti ama il calcio e tifa disperatamente Southampton. Nei giorni caldi del totonomine diceva mentendo: «L'unico posto a cui ambisco è quella panchina». La sua passione albionica ha sempre divertito il milanista Roberto Maroni: «Se fosse un vero leghista tiferebbe almeno il Northampton».
C'è un solo intoppo al progetto, l'impuntatura del capo dello Stato sul nome dell'economista Paolo Savona. Nel caso in cui Salvini e Di Maio fossero costretti a cedere, l'unico nome spendibile per l'Economia o il Tesoro sarebbe ancora quello di Giorgetti, che è stato relatore della manovra economica del governo Berlusconi nel 2011. Quando Gene Gnocchi lo definisce «famosissimo economista che ha inventato la mini-Irpef per i Minions, ma loro si sono rifiutati di pagarla», lui incassa con il sorriso appena accennato da giocatore di poker.
Gli altri posti a tavola sono più meno distribuiti. Salvini è confermato al ministero dell'Interno per supervedere le politiche relative a sicurezza e ridimensionamento degli sbarchi, cavalli di battaglia del popolo leghista. Di Maio sarà numero uno di un superdicastero che comprende Lavoro Welfare e Sviluppo economico per agevolare la realizzazione del reddito di cittadinanza, alla base della vittoria elettorale soprattutto al Sud. Un ruolo chiave avrà anche il padre della flat tax, Armando Siri, per il quale è prevista la poltrona di sottosegretario allo Sviluppo economico (una sorta di controllore di Di Maio), a meno che il braccio di ferro su Savona non lo costringa a cambiare indirizzo.
Il governo Conte prevede un nuovo ministero, quello del Made in Italy che accorpa Turismo e Agricoltura per sottolineare l'importanza delle eccellenze italiane. Sarà affidato a Gianmarco Centinaio, attuale capogruppo al Senato della Lega. Ancora leghista sarà il ministero degli Affari Regionali, affidato a Lorenzo Fontana o a Roberto Calderoli perché strategico nella partita delle autonomie richieste da Lombardia e Veneto con i referendum. Nessuna nuova fibrillazione, dopo i niet berlusconiani, sul grillino Alfonso Bonafede alla Giustizia, mentre per il ministero della Difesa è in pole position un'altra pentastellata, Elisabetta Trenta.
Ultima raffica, come nel calciomercato. Arianna Lazzarini (Lega) è indicata per il ministero della Famiglia e delle Disabilità, richiesto dalla parte cattolica della coalizione e ben visto da Forza Italia. Incertezza sulle Infrastrutture, dove Giuseppe Bonomi in quota Lega non è sicuro. Più imbullonati Emilio Carelli ai Beni culturali e l'ex ambasciatore Pasquale Salzano agli Esteri. All'Istruzione il grillino Salvatore Giuliano, che è preside. Dopo Valeria Fedeli e il suo curriculum, questa è un'emozione.
Giorgio Gandola
Continua a leggereRiduci
Dopo aver visto Luigi Di Maio e Matteo Salvini, Giuseppe Conte va al Quirinale, sempre fermo sul no all'economista anti Ue al Tesoro. L'interessato: «Veto su di me». Il leghista sbotta su Facebook: «Sono davvero arrabbiato». E Di Maio è con lui.Nessuna eresia: l'ex ministro ricalca le analisi dei premi Nobel.L'ipotesi che sia sottosegretario alla presidenza del Consiglio non disturba i grillini e piace molto anche a Silvio Berlusconi. Sarebbe l'uomo perfetto per calmare le acque al Senato. Quotazioni in salita per Emilio Carelli alla Cultura, incertezza Infrastrutture.Lo speciale contiene tre articoli.Alle 17.55 di ieri, il premier incaricato Giuseppe Conte sale al Quirinale per incontrare il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Riserva sciolta? Lista dei ministri pronta? Giuramento in vista? Macché: nulla di tutto questo. L'incontro tra Conte e Mattarella è informale: il «quasipremier» informa il capo dello Stato sull'andamento delle trattative per la formazione del governo, dopo un lungo summit con Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La lista dei ministri è praticamente pronta, e per l'Economia la designazione resta quella di Paolo Savona. Conte sa che Mattarella, su quel nome, non è d'accordo. Sa che se si presentasse con quel nome al momento di sciogliere la riserva, il presidente della Repubblica, come avvenuto molte volte in passato, potrebbe dire «no», mettendo il premier pentastellato di fronte a un'alternativa politicamente drammatica: rinunciare all'incarico o accettare la controproposta del Quirinale, con il risultato di far sfilare la Lega dall'accordo un istante dopo. I minuti trascorrono interminabili: la notizia del colloquio tra Conte e Mattarella prende tutti di sorpresa. Si tratta di un evento irrituale: il «quasipremier» e il presidente della Repubblica avrebbero dovuto incontrarsi ma in maniera ufficiale, per sciogliere la riserva e discuter dei ministri. I più ottimisti pensavano che già ieri potesse finalmente nascere il «governo del cambiamento», e lo stesso Mattarella si era tenuto libero, annullando la partecipazione alla Coppa delle Nazioni del Concorso Ippico di Piazza di Siena, a villa Borghese. Invece, nulla da fare: Conte ha bisogno di parlare con Mattarella, probabilmente per confermare la assoluta indisponibilità di Matteo Salvini a rinunciare a Paolo Savona come ministro dell'Economia.Conte è tra due fuochi: spiega con estrema chiarezza la situazione a Mattarella, con il quale ha stabilito una buona armonia. «Presidente, senza Savona salta tutto», dice il prof. Il capo dello Stato è impassibile, ricorda a Conte quante volte, nel corso del loro primo incontro, aveva sottolineato i poteri che la Costituzione attribuisce al presidente della Repubblica. Mattarella rilegge l'articolo 92 della Carta: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Non è disposto ad accettare diktat, Mattarella, come aveva detto l'altro ieri, attraverso una nota, fatta trapelare dal Quirinale, dai toni durissimi nei confronti di Salvini.Il colloquio termina alle 18, è durato un'ora. I palazzi della politica tremano, l'incubo delle elezioni anticipate incombe di nuovo sui parlamentari, di tutti i partiti, che avevano sperato, pensato, creduto che tutto fosse a posto. Agitazione, nervosismo: i cellulari sono incandescenti. Giuseppe Conte torna alla Camera, riferisce a Luigi Di Maio e Matteo Salvini i contenuti dell'incontro con Mattarella. Diventa evidente la difficoltà di un (quasi) presidente del Consiglio privo della minima autonomia, che ha bisogno di interpellare i leader dei due partiti di maggioranza prima di prendere qualunque decisione.Non solo: tra la Lega e il M5s cresce la reciproca diffidenza. Luigi Di Maio nei giorni scorsi ha provato a convincere il suo «gemello diverso», Matteo Salvini, a trovare un'alternativa a Savona. Giancarlo Giorgetti, braccio destro di Salvini, poteva essere indicato per il ministero dell'Economia al posto di Savona e Mattarella avrebbe dato l'ok. Ma il leader del Carroccio ha tenuto duro: «O Savona, o niente». Tanto che in serata sbotta su Facebook, con un post sibillino: «Sono davvero arrabbiato», subito condiviso dall'alleato Luigi Di Maio. Mossa che sembra cancellare il sospetto, ventilato tutto il giorno, che Salvini voglia mandare tutto a monte per tornare alle elezioni con il centrodestra. Anche molti leghisti, del resto, nutrono perplessità sull'atteggiamento del M5s. Pensano che tra Di Maio e Mattarella ci sia un accordo di ferro, benedetto dall'Unione europea e dal dipartimento di Stato americano, con l'obiettivo di depotenziare il Carroccio, di diluirne l'euroscetticismo e la posizione filorussa nel liquido insapore e incolore del M5s, sostanza che si colora di rosso, verde, blu a seconda delle convenienze del momento.Il problema, ormai, non è Savona, che in mattinata aveva risposto «sì che lo penso» a chi gli chiedeva se avesse sentore di veti sul suo nome. Il problema è che Mattarella non è disposto a farsi mettere ko da Salvini, e continua a ritenere che un presidente del Consiglio privo di autonomia decisionale possa rappresentare un problema. «La preoccupazione del Colle», aveva fatto trapelare Mattarella, 24 ore prima, «è che si stia cercando di limitare l'autonomia del presidente del Consiglio incaricato e, di conseguenza, del presidente della Repubblica nell'esercizio delle loro prerogative». Oggi sapremo se la nave del cambiamento salperà, o resterà ancorata nel porto di Savona. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mattarella-si-impunta-su-savona-ora-rischia-di-saltare-tutto-quanto-2572096132.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-prof-rivoluzionario-no-ha-solo-buon-senso" data-post-id="2572096132" data-published-at="1765022692" data-use-pagination="False"> Il prof «rivoluzionario»? No, ha solo buon senso «Se mai c'è stata una cattiva idea, questa è l'unione monetaria», scriveva Rudiger Dornbusch, autore di uno dei libri di testo più in uso nelle facoltà economiche italiane, nel 1996. Cioè 22 anni fa, e prima che nascesse l'euro. Solo nell'incredibile canea scatenatasi sul caso di Paolo Savona poteva passare il concetto più incredibile di tutti: ovvero che le idee e i pensieri economici dell'ex ministro siano «incendiari», «rivoluzionari», «eretici». Savona esprime, con cultura, standing, capacità e credibilità analisi sui limiti funzionali dell'eurozona perfettamente allineate con la migliore scienza economica mondiale da qualche decennio. Che la moneta unica aumenti gli squilibri all'interno dell'area euro, penalizzi i Paesi debitori e rappresenti una voragine nella domanda mondiale è un'evidenza complessa da occultare. Per questo il processo a Savona è inspiegabile se guardato dal lato delle tesi espresse. Che dice l'economista, il cui pensiero abbiamo riassunto ieri in due pagine? Che l'euro penalizza i deboli e premia i forti, e politicamente i forti non hanno interesse a sanare la situazione. Cosa dice, per esempio, il Nobel Joseph Stiglitz? «Esiste un divario dei tassi di interesse (lo spread) che riflette il diverso giudizio del mercato in merito al rischio e alla capacità delle banche di ciascun Paese di erogare credito alle imprese nazionali. Le economie più povere dovranno pagare tassi di interesse più elevati e lo stesso varrà per le imprese di questi Paesi, soprattutto a causa dell'intreccio tra banche e governi nell'attuale struttura dell'eurozona. In termini di competitività, questo mette il singolo Paese e le sue imprese in una situazione di svantaggio che porta a un'ulteriore divergenza» (L'euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa, Einaudi 2017). Cosa propone Savona? Una messa in comune dei debiti. Cosa dice Stiglitz nel testo citato? «Esiste una soluzione: un sistema comune di assicurazione dei depositi per tutte le banche dell'eurozona. Verrebbero meno gli incentivi che provocano il deflusso di denaro dai paesi deboli verso quelli forti». Ma Berlino non vuole. Cos'ha destato scalpore in alcune frasi di Savona sul passato della Germania? Il richiamo all'ostinazione storica di un Paese poco incline, diciamo così, a cambiare idea. Cos'ha scritto Stiglitz? «La Germania resta aggrappata con le unghie e con i denti all'idea che i paesi debbano vivere con i loro mezzi, e che se solo si attenessero a questa norma tutto andrebbe bene». Savona arriva a porre il tema, inevitabile, di qualità della democrazia in un sistema in cui la politica esce completamente delegittimata. Ancora Stiglitz: «Anche se pochi sarebbero disposti ad ammetterlo, il dibattito - o la contesa - sull'euro è molto più una questione di potere e democrazia, di ideologie in contrasto fra loro, di una diversa visione del mondo e della natura della società che non di denaro o di economia». Paul Krugman, altro Nobel, nel 1998 - quattro anni prima dell'introduzione dell'euro - scriveva: «L'Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per fare contenta la Germania; per garantire una severa disciplina antinflazionistica da sempre desiderata da Berlino, e che sempre vorrà in futuro». Quasi vent'anni dopo, sul New York Times, siamo ancora lì: «Durante l'euroforia, quando i capitali fluivano in maniera apparentemente sicura nelle economie del Sud, quelle economie hanno sperimentato una moderata inflazione, che ha permesso alla Germania di maturare un vantaggio competitivo senza deflazionare. Poi la fiducia e l'afflusso di capitali sono collassati, e ciò di cui ci sarebbe bisogno sarebbe stata una forte reflazione tedesca, che avrebbe di fatto restituito il favore all'Europa del Sud, consentendole di recuperare competitività senza macinare deflazione con i relativi problemi sul debito». Savona, a confronto, pare più cauto. Martino Cervo <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mattarella-si-impunta-su-savona-ora-rischia-di-saltare-tutto-quanto-2572096132.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="un-punto-fermo-giorgetti-premier-ombra" data-post-id="2572096132" data-published-at="1765022692" data-use-pagination="False"> Un punto fermo: Giorgetti premier ombra «Starà nel suo habitat naturale, sotto il pelo dell'acqua con pinne e maschera». Rappresentato così dai suoi amici per la discrezione, Giancarlo Giorgetti si prepara all'avventura nel nuovo governo come un punto fermo della Lega, l'uomo degli equilibri e delle garanzie. Il ruolo è ritagliato su misura come un abito sartoriale: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il politico con le chiavi di Palazzo Chigi in tasca. Ma non sarà lì perché fedelissimo di Giuseppe Conte (come fece Luca Lotti con Matteo Renzi, di cui fu segretario e parafulmine), bensì per tutelare gli interessi dell'altra metà del cielo, quella non grillina. Non essendo previsti vicepremier, il suo potere sarà immenso. La soluzione è pronta e ha un obiettivo: rassicurare Silvio Berlusconi, farlo uscire da sotto la tenda di Achille nella quale si è rifugiato con sdegno e indurlo a essere meno ostile nei confronti dell'esecutivo. Giorgetti premier ombra (quanto a competenza e a relazioni istituzionali) potrebbe limare numerosi spigoli che affliggono Forza Italia e consentire agli azzurri di garantire, di volta in volta, l'astensione se non il voto favorevole nella giungla vietnamita del Senato, dove è facile individuare trappole dietro ogni scranno. Con soli sei voti di maggioranza, il governo rischia di cadere anche sulle divise dei portalettere. Garante del mondo finanziario dai tempi di Umberto Bossi, abituato a sedere in cda e board di fondazioni, Giorgetti è la sponda preferita dell'ambasciata americana, ma anche un riferimento per la Russia putiniana, con la quale ha intessuto stretti rapporti nel periodo in cui ha fatto parte della delegazione italiana nella Nato ed è stato vicepresidente della commissione Affari esteri. Bocciato come premier da Luigi Di Maio in persona con una frase lapidaria («È troppo potente, sposterebbe da solo il governo a destra»), l'ex sindaco di Cazzago Brabbia rappresenta la bussola sull'arca di Noè pronta a salpare per il futuro. Quasi per uno sbaffo da artista, oltre che sottosegretario sarà anche ministro dello Sport, esattamente come Lotti a suo tempo. Giorgetti ama il calcio e tifa disperatamente Southampton. Nei giorni caldi del totonomine diceva mentendo: «L'unico posto a cui ambisco è quella panchina». La sua passione albionica ha sempre divertito il milanista Roberto Maroni: «Se fosse un vero leghista tiferebbe almeno il Northampton». C'è un solo intoppo al progetto, l'impuntatura del capo dello Stato sul nome dell'economista Paolo Savona. Nel caso in cui Salvini e Di Maio fossero costretti a cedere, l'unico nome spendibile per l'Economia o il Tesoro sarebbe ancora quello di Giorgetti, che è stato relatore della manovra economica del governo Berlusconi nel 2011. Quando Gene Gnocchi lo definisce «famosissimo economista che ha inventato la mini-Irpef per i Minions, ma loro si sono rifiutati di pagarla», lui incassa con il sorriso appena accennato da giocatore di poker. Gli altri posti a tavola sono più meno distribuiti. Salvini è confermato al ministero dell'Interno per supervedere le politiche relative a sicurezza e ridimensionamento degli sbarchi, cavalli di battaglia del popolo leghista. Di Maio sarà numero uno di un superdicastero che comprende Lavoro Welfare e Sviluppo economico per agevolare la realizzazione del reddito di cittadinanza, alla base della vittoria elettorale soprattutto al Sud. Un ruolo chiave avrà anche il padre della flat tax, Armando Siri, per il quale è prevista la poltrona di sottosegretario allo Sviluppo economico (una sorta di controllore di Di Maio), a meno che il braccio di ferro su Savona non lo costringa a cambiare indirizzo. Il governo Conte prevede un nuovo ministero, quello del Made in Italy che accorpa Turismo e Agricoltura per sottolineare l'importanza delle eccellenze italiane. Sarà affidato a Gianmarco Centinaio, attuale capogruppo al Senato della Lega. Ancora leghista sarà il ministero degli Affari Regionali, affidato a Lorenzo Fontana o a Roberto Calderoli perché strategico nella partita delle autonomie richieste da Lombardia e Veneto con i referendum. Nessuna nuova fibrillazione, dopo i niet berlusconiani, sul grillino Alfonso Bonafede alla Giustizia, mentre per il ministero della Difesa è in pole position un'altra pentastellata, Elisabetta Trenta. Ultima raffica, come nel calciomercato. Arianna Lazzarini (Lega) è indicata per il ministero della Famiglia e delle Disabilità, richiesto dalla parte cattolica della coalizione e ben visto da Forza Italia. Incertezza sulle Infrastrutture, dove Giuseppe Bonomi in quota Lega non è sicuro. Più imbullonati Emilio Carelli ai Beni culturali e l'ex ambasciatore Pasquale Salzano agli Esteri. All'Istruzione il grillino Salvatore Giuliano, che è preside. Dopo Valeria Fedeli e il suo curriculum, questa è un'emozione. Giorgio Gandola
Il governatore della banca centrale indiana Sanjay Malhotra (Getty Images)
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.
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Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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