2024-12-24
Massimo Scaglioni: «Il Cav e l’Auditel hanno cambiato i media»
Lo studioso della tv: «Lo storico duopolio nacque quando Berlusconi si mise d’accordo con la Rai per la misurazione degli ascolti. Nell’era digitale, la pervasività del piccolo schermo resta impareggiabile: metà del Paese guarda le trasmissioni di prima serata».Massimo Scaglioni, classe 1974, per i suoi 50 anni si è fatto un regalo. Ha curato per Il Mulino un volume sui 40 anni dell’Auditel, croce e delizia di quanti gravitano professionalmente (inserzionisti pubblicitari, dirigenti, conduttori, cronisti, critici, siti web, blogger) nell’orbita della tv. In realtà scrivendone - da solo o quattro mani con Giovanni Ceccatelli - quasi la metà. Del resto, se lo può permettere: è professore ordinario alla Cattolica di Milano, dove insegna Economia e marketing dei media e Storia dei media. E dove dirige anche il CeRTA, Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi. Insomma, in materia di studio e analisi delle dinamiche degli ascolti tv, un’autorità. Che ha avuto come mentore il decano dei critici tv Aldo Grasso, di cui è stato studente sempre in Cattolica. E con cui collabora tuttora per la rubrica che Grasso firma quotidianamente per il Corriere della Sera.Il libro - grazie ai contributi di numerose «firme», tra cui Giuseppe De Rita, Pier Luigi Celli, Lorenzo Sassoli de Bianchi, lo stesso Grasso - è una miniera di informazioni. Preziose, per chi - come me - coltiva il vizio della memoria. Come ad esempio non trovare spassose le parole di Corrado Augias del 14 luglio 1991 su Repubblica? «La famosa audience non è mai la misura della qualità di un programma, e semmai lo è in senso negativo. Più audience in genere equivale a meno qualità» (parliamone, ma soprattutto ne parli con il suo attuale editore a La7, Urbano Cairo, che proviene dal vituperato mondo della pubblicità). Oppure come non trovare antistorico l’invito alla rivolta vergato dal compianto Giovanni Sartori sulla Stampa del 29 gennaio 1998: Ribellatevi all’Auditel e alla sua «dittatura»?Il 2024: un anno pieno di ricorrenze, oltre al suo cinquantesimo genetliaco.«I 100 anni della radio, 1924. I 70 della Rai, 1954. I 40 dell’Auditel, 1984. E, oggi, la nascita della total audience».Che sarebbe?«La misurazione del” consumo” di contenuti every where, every time, every device, come ricorda nella sua introduzione l’ex presidente di Auditel Andrea Imperiali di Francavilla. Visto che ormai la fruizione avviene attraverso supporti tecnologici diversi, e non sempre in diretta, come si diceva una volta, ma anche on demand, in differita».Ovviamente per chi gli ascolti se li fa rilevare.«Sì. L’esempio è Dazn, che costituisce un precedente. Per la prima volta, infatti, i diritti tv sulle partite della serie A sono stati acquistati da una piattaforma streaming. Che è la prima a farsi monitorare tra i cosiddetti Ott, le imprese che forniscono contenuti video attraverso la rete».Ho capito: Netflix e Prime Video non pervenute. Quanti sono gli schermi attualmente in funzione nel nostro Paese?«Tra televisori, computer, smartphone, tablet, parliamo di 122 milioni di apparecchi, di cui 100 connessi».Cioè: ogni due device possiedono un italiano, parafrasando una delle tante vignette azzeccate di Altan. Ma è sempre la televisione a fare la parte del leone.«Due dati ci ricordano come al momento non ci sia ancora un altro medium così pervasivo, “egemonico”, trasversale come la tv. Se è vero che il numero degli smartphone ha superato quello dei televisori (categoria in cui le smart tv hanno superato quelli tradizionali), tutta la popolazione italiana che ha più di 18 anni dedica, nel corso di una giornata media, molto più tempo alla tv che a navigare sul Web: 4 ore e 32 minuti contro 2 ore e 2 minuti».Sono rimasto impressionato dal numero di televisori tuttora accesi in prime time, tra le 20.30 e le 22.30, che è poi anche quella più pregiata per la pubblicità.«Perché è quella di maggior ascolto. La media storica del consumo di televisione in quelle due ore è di quasi 24 milioni di individui. Per la precisione: 23 milioni e 800.000. Ciò significa che, ogni sera, in media quasi la metà del Paese ha un televisore acceso per quelle intere due ore».Prima di continuare, riavvolgiamo il nastro. Io sono un indegno figlio del maestro Manzi, di Settevoci, di Rintintin, di Canzonissima e di Belfagor, della tv in bianco e nero del monopolio Rai. Lei, vista l’anagrafe, immagino faccia parte della generazione che rispondeva al richiamo di Silvio Berlusconi: «Corri a casa in tutta fretta, c’è un Biscione che ti aspetta», tv commerciale, duopolio e schermo a colori.«Diciamo che la mia passione primigenia è stata il cinema: nel 1990, a 16 anni, sono andato per la prima volta al Festival di Venezia, e non ho più mancato un appuntamento». Ah, un cinéphile. Ecco perché si è premurato di ricordare come, nella seconda metà degli anni Ottanta, a farla da padrone fossero le prime visioni tv di blockbuster quali Balla coi lupi e Il nome della rosa.«Parliamo, nel caso di quei film, di medie da 14.000.000 di telespettatori a serata. Effetto della rivoluzione che, nell’ambito della tv generalista e del suo quarantennio d’oro, ha rappresentato l’avvento della concorrenza privata. I nuovi palinsesti dei network traboccano di film, perché le reti commerciali hanno bisogno di raccogliere platee sempre più vaste, e i film, come le prime serie tv (Dallas, Dinasty, Falcon Crest, Uccelli di rovo), hanno un’enorme forza attrattiva».Ma poi le pellicole anche di grande richiamo hanno perso la loro «forza propulsiva».«Negli anni Duemila il cinema, sfruttato in modo “intensivo”, riesce sempre meno a trasformarsi in evento, per lasciar posto alle fiction, vedi Il commissario Montalbano, oltre 11.000.000 di spettatori per le prime visioni negli anni 2017-2019». Dal 1954 a oggi siamo passati dal bianco e nero al colore, dal monopolio al mercato, da Carosello agli spot, dall’analogico al digitale, da 7 a 370 canali rilevati dall’Auditel...«Ovvero, mi lasci citare il mio maestro Aldo Grasso, si sono avvicendate quattro stagioni. 1954-1979: la Rai come servizio pubblico senza concorrenza. 1979-2000: l’irruzione e l’affermazione della tv commerciale. 2000-2010: la nascita e il consolidamento della pay tv. 2010-2020: le piattaforme in streaming e il moltiplicarsi dei device digitali».Se dico che gran parte di questa epopea è merito del genio visionario di Silvio Berlusconi, discutibile come politico, ma come imprenditore proprio no, bestemmio?«Non direi. Quando lui e Biagio Agnes, il potente direttore generale della Rai, si mettono d’accordo per dar vita all’Auditel, quell’atto fondativo certifica la nascita del duopolio, le tre reti pubbliche da una parte e il soggetto privato - prima Fininvest, poi Mediaset - del tutto speculare alla Rai grazie ad altrettante reti generaliste (Canale 5, Italia 1, Rete 4), quale poi sarà fotografato ex lege con la legge Mammì del 1990. L’Auditel ha avuto un’influenza decisiva non solo sullo sviluppo del mezzo televisivo, ma dell’intero sistema dei media. Di cui ha contribuito a ridisegnare i confini, per esempio nei rapporti con la stampa. Stampa che, oggettivamente, prima surclassava la tv degli albori, nei cui confronti aveva un approccio elitario, e poi - quando la tv si è imposta a suon di numeri espressi in milioni di telespettatori, e non in centinaia di migliaia di copie - si è ritrovata ad inseguirla». Senza dimenticare che Agnes nel 1987 diede Rai 3 e il Tg3 al Pci (visto che Rai 1 era targata Dc, e Rai2 profumava di chiodi di garofano socialisti), in nome di una Santa Alleanza che doveva arginare la crescita del «barbaro» di Cologno Monzese. Ma alla fine, come sempre, è stato il pubblico, cioè il mercato a decidere.«Esattamente come è successo - rimanendo nell’ambito delle tv lineari (quelle in cui la programmazione segue un palinsesto deciso dal broadcaster) - con il comparire de La7 prima, e di Discovery poi. Con il passaggio a Nove di Maurizio Crozza, di Fabio Fazio e di Amadeus, si è aggiunta una voce alla polifonia dell’offerta, che è sempre sintomo di vitalità di un sistema».Posso dirle, da vecchio studente della Cattolica, che mi ha fatto un certo effetto apprendere che Discovery, con tanto di presenza del suo amministratore delegato Alessandro Araimo e dello stesso Amadeus, ha presentato il suo palinsesto proprio nella prestigiosa aula magna dell’ateneo? M’inchino ovviamente allo spirito del tempo, ma non nego lo spiazzamento.«Premesso che noi abbiamo rapporti con tutti i soggetti dell’universo audiovisivo, che nostri ex studenti lavorano in tutte le tv, come da tutte le tv arrivano professionisti che insegnano nei nostri corsi, in realtà tutto è avvenuto nell’ambito della cerimonia di consegna dei diplomi della dodicesima edizione del master Fare Tv. Proprio come riconoscimento della forza che ha ancora la tv lineare qui da noi, facendo dell’Italia un Paese in controtendenza, visto che gli investimenti pubblicitari del comparto crescono».Siamo il Belpaese del Festival di Sanremo per sempre.«Anche perché è, quasi sempre, l’evento più visto dell’anno. Credo sia più appropriato chiamarlo “Festival della Rai”, come del resto ha fatto intendere lo stesso Pier Silvio Berlusconi, quando ha spiegato che “è un pezzo di Rai, lì dovrebbe restare”».
Jose Mourinho (Getty Images)