
Gioacchino Cataldo è stato per decenni il «re» della tonnara di Favignana. Erede di una tradizione secolare, ha guidato le mattanze prima della chiusura dello stabilimento che fu dei Florio. Ancora in vita, la sua Sicilia lo inserì nel registro delle eredità immateriali.Per i giovani millennial (e oramai non più solo loro), il tonno altro non è che il contenuto di qualche scatoletta aperta al volo. Eppure, se si vanno a osservare con occhio curioso mercati siciliani ancora pulsanti di vita quali Catania o Palermo, si accende una curiosità che trova adeguata narrazione presso la tonnara dei Florio, ora divenuta museo, a Favignana, la regina della Egadi, definita non a caso, per le sue sinuose forme, «l’isola farfalla» da Salvatore Fiume.Figura iconica dell’isola sua è Gioacchino Cataldo, detto Jachino, l’ultimo ràis, ovvero il comandante dei tonnaroti, i pescatori dedicati a un’arte oramai scomparsa, sommersa nei ricordi dalle flotte dagli occhi a mandorla che sottraggono alla tradizione la pinnata creatura appena ha varcato lo stretto di Gibilterra. A Favignana ci si guadagnava da vivere essenzialmente in due modi: come cavatori di tufo, ragazzini spediti nelle profonde cavità dell’isola per una pietra ricercata per decorare le facciate dei nobili palazzi da Palermo a Trapani sino a Tunisi o Algeri, oppure dedicarsi alla pesca e alla lavorazione del tonno.È il destino del giovane Jachino, una figura ben descritta dal suo biografo Massimiliano Scudeletti: «Ci sono vite difficili da raccontare. Cerchi l’uomo e ti imbatti nel mito. Scegli il mito e trovi il ragazzino che sfugge al destino di cavatore di tufo» per fare il garzone danzando a piedi nudi sulle viscere dei tonni per spremerne gli eccessi e che, dopo una lunga parentesi operaia in terra tedesca, «torna per essere quello che aveva sempre voluto: il tonnaroto». Già l’esordio al cospetto del ragioniere capo nominato dai Parodi, subentrati ai Florio, ne fa intuire il talento. Jachino sta a occhi bassi, guardandosi le punte dei piedi. Il suo esaminatore lo testa in vari modi per capirne cosa si celi dietro quello sguardo. Supera l’esame a pieni voti. Con i suoi piedoni taglia 48 viene messo a pestare le interiora, con l’acqua marina, per ripulirne i visceri. Veniva ripagato in natura con delle scaglie di avanzi del tonno, non lavorabili dalle maestranze femminili, che portava a casa così che le abili mani della mamma le trasformassero in sostanziose polpette. Nella sua personale catena di smontaggio tonnato poteva anche capitare che, dai visceri spurgati, uscissero vari pesciolini, quelli dell’«ultima cena» del loro predatore, quindi ancora culinariamente utili, così da fornire ulteriore sostanza alla cucina di famiglia.Dopo un anno di questa palestra tonnarota, l’apprendista Jachino viene assunto in maniera stabile. È ancora un ragazzino e consegna alla mamma l’intera busta del salario. In cambio lei estrae alcune monetine che gli concede per prendersi il meritato gelato in compagnia degli amici sul lungomare di Favignana. Tuttavia le migliori soddisfazioni non sono tanto materiali, ma di ben altro genere. Quando attraversa a passo veloce i locali, rallenta progressivamente prima di entrare nella sala dell’olio, quello dove il tonno viene impregnato goccia a goccia prima di essere inscatolato per prendere le vie dei mercati. È l’arte delle giovani donne «che si muovono con movimenti lenti da statuina di carillon». Un linguaggio non verbale, ma ad alto tasso ormonale: loro che guardano lui e «sotto le ciglia abbassate. sorridono». A qualche amico che, ironicamente, gli faceva presente che «se continui a girarti così ti sviti la testa», la risposta arrivava conseguente: «Mi sento trafitto alla spalle dai loro sguardi».Il servizio militare a Pavia è una finestra aperta sul mondo che sta cambiando al ritmo di un boom economico che vede la sua Favignana non reggere il passo di fronte alle flotte di pescherecci arrivati dal Giappone. Si confida con il suo padre adottivo di tonnara, Salvatore Mercurio, storico ràis dei tonnaroti locali. Ha deciso di lavorare come metalmeccanico lassù al Nord, in terra crucca. Salvatore lo guarda, è come se fosse un figlio per lui, quel gigante dagli occhi buoni e il fisico da Nettuno. Estrae dalla tasca un’antica moneta romana che aveva trovato abbandonata sulle spiagge libiche, in gioventù. Vi era disegnata la sagoma di un tonno. «Se già a quel tempo dedicavano al tonno una moneta, vuol dire che era prezioso, al pari dei re o degli dei». Ma il saluto si conclude con ben altra riflessione: «La tonnara è qualcosa che bisogna avere dentro e tu ce l’hai». Nonostante il successo del suo porsi mediterraneo con le «bionde valchirie dagli occhi color del mare», il richiamo alle radici è irresistibile. Calamita è la telefonata di mamma sua, una sera: «Gioacchino, torna tra noi, qua c’è bisogno di un tonnaroto giovane e forte come te».Detto fatto. Esordisce nella sua nuova vita, quella che aveva desiderato da sempre, il primo aprile del 1975. Parte dal basso come faratico, cioè tra coloro che fanno un po’ di tutto, curando soprattutto la distribuzione delle reti per dare luogo alle otto camere della tonnara volante, ovvero quella sorta di gabbia posta sui fondali al largo dell’isola che, progressivamente, conduce i tonni nella camera della morte, quella che poi verrà issata alla superficie per far catturare i tonni. Un rito, quello della pesca, sostenuto dal ritmo delle cialome, sorta di litanie di origine araba che accompagnavano le mattanze, di cui la più nota era «ajamola, ajamola», ovvero alziamola, la preda dalle acque.Oramai il ràis, il comandante in capo era lui, il giovane Jachino divenuto adulto, ma con lo spirito rimasto quello di sempre, dove cuore ed emozioni dettavano legge, al di là dei tempi. Mirabile una sua intervista, ricercatissimo testimone di una tradizione destinata inevitabilmente all’oblio, quando ebbe a confrontarsi con un tonno dalla stazza ciclopica, di cinque quintali: «Non sentivo più la voce dei compagni che avevo accanto, ma solo il suo cuore battere al ritmo del mio». Mentre raccontava l’ennesimo episodio di una antologia di vita ricca di millanta altre storie veniva facile osservare, sotto la folta barba, un dente di squalo appeso alla collana d’oro, preda fuori programma lungo le rotte tonnarote.I Parodi cedono la loro attività ai Castiglione, ma la chiusura della tonnara è dietro l’angolo. Jachino, con alcuni compagni di resistenza marina, fonda la cooperativa La Mattanza, che cerca di unire la tradizione della pesca storica con il sempre più crescente turismo curioso di vivere in diretta queste storie. Oramai sono più le barche dei turisti, armati di fotocamere, che quelle dei pescatori armati di reti e fiocine. Nel 2007 cessa un’attività secolare ma Jachino, con la sua barca, diventa il Cicerone di Favignana, accompagnando i turisti a scoprirne le varie bellezze, comprese quelle in cucina. È lui a preparare delle golose polpette, ovviamente di tonno, per il saluto finale, cosa che farà anche in diverse apparizioni televisive. Venne a mancare nel 2018, non ancora ottantenne, ma già nel 2006, dalla Regione Sicilia, gli era stato riconosciuto il titolo di tesoro umano vivente, inserito nel registro delle eredità immateriali. Al saluto finale della sua comunità venne proclamato il lutto cittadino e, durante la funzione religiosa, i suoi colleghi intonarono la cialoma, estremo saluto all’amico e maestro di una vita. Gioacchino uomo sempre coerente, sino alla fine, tanto che il suo ultimo desiderio, espresso all’amata figlia Antonella, una campionessa della pallavolo a livello nazionale, fu quello di godersi in santa pace un buon piatto di tonno salato e pomodori della sua Favignana, l’isola «farfalla».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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