
Ripubblicato il volume con gli articoli in cui lo scrittore, nel 1939, racconta la vita nell'impero coloniale italiano. E spiega: «Questo non è il Continente nero con i cannibali e i coccodrilli, in questa terra c'è già la base per edificare una nuova civiltà».Fin dal primo giorno che ho messo piede in Eritrea ho l'impressione di trovarmi in un Paese che appartiene al mondo della mia cultura, al mondo del mio greco e del mio latino. Il retroterra dell'Etiopia non è l'Africa: ma l'Europa. Un'Europa antica e futura, quella compresa nell'arco che va da Micene a Manhattan. E il linguaggio con cui mi vien fatto naturalmente di parlare dell'Eritrea è quello stesso che adoprerei visitando la Grecia o l'America del Nord. Così vorrei che il mio viaggio in Etiopia fosse della specie di quello dell'Ampère in Grecia, o del viaggio di Siegfried negli Stati Uniti. Poiché l'Etiopia non ha mai avuto e non ha nulla in comune con l'Africa convenzionale, quale la intendevano le Società geografiche dell'Europa vittoriana, e i ministeri delle Colonie di quel tempo. Non fa parte, né in quanto alla storia, né in quanto alla geografia e all'etnografia, del Continente Nero, dell'Africa tenebrosa di Livingstone, di Stanley e, neanche, di Cecchi, di Bottego, o di padre Massaia: coperta d'immense foreste intatte, fradice e buie, popolate di scimmie tisiche, di poveri animali feroci e di uomini selvaggi. Un'Africa, cioè, non molto dissimile, su per giù, da quella che ci han descritta i geografi e gli esploratori di tutti i tempi, da Erodoto ai mercanti medioevali, ai cartografi liguri, veneziani, majorchini, agli autori della mappa di Hereford e di quella di Ebstorf: i quali favoleggiavano di mostri, di piante umane, di liberi antropofagi, di coccodrilli in forma d'orsi squamosi, che nuotavan nei fiumi con in groppa neri pigmei, di cavalli cornuti dalla coda di elefante e dalle mascelle di capra, di uccelli dal viso di donna, e di prati dove cresceva, come erba, la carne cruda. [...] L'Etiopia non è mai stata, non è, e non sarà mai, un paese «coloniale»: non è, voglio dire, un Paese «senza storia». Chi percorresse l'altopiano abissino, le alte terre degli Amara, senza accorgersi di porre il piede sullo stesso substrato storico, sociale e morale, sul quale è fondata la civiltà cristiana d'Europa, (o meglio, attraverso Bisanzio, Gerusalemme e l'Arabia, la civiltà dell'Europa mediterranea), non potrebbe capire che, dal punto di vista storico e morale, l'Etiopia è già matura per servir da fondamento alla creazione di una grande civiltà bianca, né potrebbe, perciò, rendersi conto dell'enorme importanza che il suo possesso rappresenta non soltanto per l'Italia, ma per il destino della civiltà bianca in Africa e nel prossimo Oriente. Poiché non si tratta di far dell'Impero una copia «coloniale» dell'Italia: bensì un paese assolutamente nuovo, che avrà senza dubbio in tutta l'Africa e nel bacino del Mar Rosso, se non forse più oltre, la stessa funzione dell'America del Nord nell'Atlantico e nel Pacifico, e del Giappone nell'Asia estrema. La conferma di quanto son venuto dicendo si ha, lasciata Massaua, appena si pone il piede sull'altopiano eritreo. L'Asmara ci appare subito, negli aspetti e nello spirito, simile a certe città del centro degli Stati Uniti: del Middle West, ad esempio. Le strade ampie, diritte, la disposizione e lo stile degli edifici, la intensità del traffico, l'incredibile quantità di lussuose macchine che percorrono veloci e silenziose i suoi grandi viali fiancheggiati di case candide, dalle linee pure, moderne, di palazzi di vetro e di cemento, dignitosi e intelligenti, il contegno stesso degli abitanti, i modi e il ritmo della loro attività, tutto rivela chiaramente l'intimo spirito di questa città sorta in soli quattro anni, – dico in soli quattro anni, – le linee del suo avvenire, le idee e la volontà che presiedono al suo sviluppo, alla sua funzione, al suo destino. Chi ha visto l'Asmara prima del 1935, chi l'abbia vista anche soltanto nel 1937, oggi non la riconoscerebbe più. Dov'è la piccola città di provincia, l'Asmara «coloniale» di quattro, di cinque anni or sono? Tranquilla, ordinata, sonnolenta, posata sull'orlo dell'altopiano come un vaso di fiori su un davanzale? Dov'è l'antica, borghese capitale di una colonia povera e gretta, dov'è l'Asmara di un tempo, dalle grazie inutili, dall'orizzonte senza sfondo? «Ci si viveva bene», dicono coloro che la conobbero prima del 1935. Ed hanno l'aria di scusarla: ma è questa la solita scusa della borghesia italiana, ogni volta che si tratta di giustificare la propria insufficienza, la propria grettezza. Ci si viveva bene: e poi? Era uno specchio, l'Asmara di quel tempo: lo specchio coloniale dell'Italia borghese. Quell'età è ormai morta, altre età sono nate. Quel che subito colpisce in Eritrea è il senso di una inconsueta ampiezza di vedute: una generosità e una larghezza d'idee e di propositi, di cui l'architettura, le strade, il traffico non sono che le testimonianze esteriori, non perciò le più trascurabili. Sebbene temperati dalla naturale prudenza e parsimonia degli italiani, dal loro ostinato buon senso, dal loro accorto e semplice realismo, gli atti e le ambizioni loro respirano in un orizzonte assai più ampio, di quello in cui d'ordinario si svolge la loro storia personale. E sebbene io sappia che la petrosa e assetata Eritrea è povera, che è forse la più povera regione di tutto l'Impero, sebbene io sappia che gli italiani vi si guadagnano la vita con duro lavoro, non posso tuttavia difendermi dalla precisa e insistente impressione di trovarmi in un paese ricco. È ormai tramontata la breve stagione della guerra, in cui il guadagno era facile e il denaro abbondante: passata la febbre del 1935 e del 1936, tutto rientra nell'ordine. Ma non è l'ordine antico, il consueto e avaro ordine coloniale. Per quanto possa apparire strano, è un fatto che lo sviluppo organico dell'Eritrea ha avuto inizio non con la guerra, ma dopo il 1936. Quella che pareva dover essere la regione più sacrificata del nuovo assetto seguito alla conquista dell'Etiopia, dal suo trovarsi all'improvviso, da un giorno all'altro, alla retroguardia politica e geografica dell'Impero, quella che pareva l'unica regione dell'A.O.I. destinata a veder marcire i suoi cantieri, le sue baracche, le sue improvvisate città di legno e di lamiera, è oggi la regione dove più chiaramente l'Impero prende forma, più rapidamente perde i suoi caratteri coloniali, rivela il suo definitivo carattere di Impero bianco. Ma più che dall'Asmara, il nuovo destino dell'Eritrea nel quadro imperiale dell'A.O.I. si giudica da Decamerè, fino a tre anni or sono emporio provvisorio di baracche, caotico ammasso di autorimesse, di officine per riparazioni meccaniche, di serbatoi d'olio e di benzina, di depositi di gomme, di pezzi di ricambio, di asfalto, di travi di ferro, di materiali da costruzione, ed oggi modernissima città di vetro e di cemento, che regola il suo traffico tumultuoso in ampie strade di geometrico disegno, e profila nell'aria tersa, di contro alle purpuree colline di Mai Edaga, le torri dei suoi silos e le sue ciminiere fumanti.
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