2022-09-24
        Il velo? Oppressivo in Iran, da promuovere in Europa. La sinistra va in confusione
    
 
        Proteste a Roma per la morte di Mahsa Amini (Getty Images)
Le proteste per la morte di Mahsa Amini emozionano l’Occidente. Ma a piangere sono gli stessi che qui sostengono l’islamizzazione.È sempre suggestivo osservare ciò che accade quando una causa diventa di moda. All’improvviso, schiere di attivisti se ne occupano, i giornali si fiondano a cavalcare il fenomeno, le tv sembra non abbiano altre immagini a disposizione. È un po’ quel che sta succedendo con le proteste in Iran. Come noto, nella nazione musulmana sciita sono in corso manifestazioni che, tra le protagoniste, contano anche varie donne. I tumulti si sono scatenati dopo la morte di Mahsa Amini, una ragazza di 22 anni che, a quanto risulta, sarebbe stata arrestata dalla «polizia morale» perché non indossava correttamente il velo. Percossa brutalmente, la giovane è venuta meno dopo tre giorni di coma. Secondo le autorità iraniane si sarebbe trattato di un decesso dovuto ad arresto cardiaco a seguito di quello che viene definito un tragico incidente, ma non appena la notizia ha iniziato a circolare si sono riversati per le strade manifestanti in protesta contro l’ayatollah Ali Khamenei, suprema guida religiosa dell’Iran. Sui media di tutto il mondo sono state pubblicate le fotografie di ragazze che si tolgono il velo per strada in segno di rivolta, ma a quanto sembra le manifestazioni sono andate molto oltre i gesti simbolici. Stando a diverse fonti, le sommosse sarebbero iniziare a Saqez, zona curda nel Nord-Ovest, terra d’origine di Mahsa Amini. Da lì, città dopo città, i cortei si sono allargati fino a Teheran, dove sono avvenuti scontri piuttosto duri con le forze dell’ordine. E mentre il governatore Mohsen Mansouri accusava i manifestanti di assalti premeditati e di distruzione del patrimonio pubblico, la stampa occidentale e la gran parte della politica hanno preso posizione a favore delle piazze in ebollizione. Lo ha fatto, platealmente, anche la notissima giornalista Christiane Amanpour, statunitense ma iraniana di origine, in quanto discendente di una famiglia dell’alta società che lasciò lo Stato non molto dopo la rivoluzione khomeinista. A margine dell’assemblea generale dell’Onu a New York, la giornalista vip (sposata fino al 2018 con un membro dell’amministrazione Clinton) avrebbe dovuto intervistare il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Il quale però, vedendo che la Amanpour non indossava il velo, ha disertato. Lei, per tutta risposta, ha pubblicato la foto della sedia dell’ospite vuota. In qualche modo, la cronista ha mimato ciò che fece Oriana Fallaci nel 1979, scoprendosi il capo di fronte all’ayatollah Khomeini in persona. Con la differenza che la Fallaci lo fece in Iran, non negli Usa.Comunque sia, la mossa della giornalista ha suscitato enorme entusiasmo presso la stampa italiana, soprattutto quella progressista. Il che suscita qualche riflessione. È curioso notare come questo revival dello scontro di civiltà attiri tanta attenzione, e soprattutto tale, unanime, consenso. Molto di più, se non altro, di quanto ne abbia mai suscitato il dibattito sul velo in casa nostra. Intendiamoci: se le ragazze iraniane ne hanno davvero le scatole piene del velo e vogliono rivoltarsi, è difficile restare indifferenti. Tuttavia, la generale solidarietà che riscuotono appare un filo pelosetta. L’Iran è uno «Stato canaglia», in fondo, e il fatto che sia un po’ destabilizzato ha pure i suoi vantaggi geopolitici. Inoltre, in questo caso si tratta di attaccare frontalmente una fede, cosa che gli intellettuali occidentali fanno sempre volentieri. Quando però c’è da parlare del velo qui, la faccenda si fa più complicata, e gli intellettuali tendono a dileguarsi. Per quale motivo? Semplice, perché discutere della presenza islamica in Europa significa affrontare la questione migratoria, e questo non piace ai progressisti illuminati sempre pronti a tifare per le minoranze. Da queste parti, di solito, il velo è presentato come un tratto culturale che va preservato, anche quando è un simbolo politico e identitario, ben poco legato alla religione. Qui sono bene accetti i drappi che coprono integralmente capelli e collo, e per anni abbiamo assistito a una sorta di promozione del velo. Che è ancora in corso, almeno in parte, tanto che - proprio in queste ore - il francese Eric Zemmour ha polemizzato per la scelta di una giovanissima ragazza velata come testimonial del programma Erasmus+ dell’Ue. Quante ne abbiamo viste di trovate simili? Fin troppe. Purtroppo abbiamo visto molte meno iniziative a favore del rispetto della donna o contro l’estremismo politico. Il velo, con tutto ciò che rappresenta, è - forse paradossalmente - un problema maggiore qui che in Iran, dove comunque mantiene una venatura tradizionale. La svalutazione del corpo femminile, di nuovo, è più problematica in Europa che in Oriente. Se qui casi come quello della povera Saman (di cui raccontiamo gli atroci benché scontati sviluppi) non dovrebbero verificarsi, e invece accadono a causa della migrazione di massa, che però sono davvero in pochi a osteggiare. È ora di togliere il velo, sì. Ma prima di tutto quello che copre da anni le nostre coscienze.
        
    (Ansa)
    
«Alla magistratura contabile voglio dire che sono rimasta francamente un po’ incuriosita di fronte ad alcuni rilievi, come quello nel quale ci si chiedeva per quale ragione avessimo condiviso una parte della documentazione via link, perché verrebbe voglia di rispondere “perché c’è internet”. Dopodiché il governo aspetta i rilievi, risponderà ai rilievi, sia chiaro che l’obiettivo è fare il ponte sullo Stretto di Messina, che è un’opera strategica, sarà un’opera ingegneristica unica al mondo». «Noi siamo eredi di una civiltà che con i suoi ponti ha meravigliato il mondo per millenni – ha aggiunto Meloni – e io non mi rassegno all’idea che non si possa più fare oggi perché siamo soffocati dalla burocrazia e dai cavilli».
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        (Ansa)
    
«È bene che la magistratura, come io auspico, esponga tutte le sue ragioni tecniche e razionali che possono meditare contro questa riforma. Ma per l’amor del cielo non si aggreghi – come effettivamente ha già detto, ammesso, e io lo ringrazio, il presidente Parodi – a forze politiche per farne una specie di referendum pro o contro il governo. Questo sarebbe catastrofico per la politica, ma soprattutto per la stessa magistratura». «Mi auguro che il referendum sulla separazione delle carriere venga mantenuto in termini giudiziari, pacati e razionali e che non venga politicizzato nell’interesse della politica ma soprattutto della magistratura. Non si tratta di una legge punitiva nei confronti della magistratura, visto che già prospettata da Giuliano Vassalli quando era nella Resistenza e ha rischiato la vita per liberare Pertini e Saragat».
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