2024-03-17
Macron e Putin sono ancora in affari nell’energia atomica
Vladimir Putin (Getty Images)
Malgrado le tensioni, Francia e Russia lavorano a un impianto per arricchire uranio in Germania e a un maxi reattore a fusione.Lo scacchiere internazionale ha due facce come la luna: quella visibile e quella oscura. In tal caso, quella delle minacce di guerra nucleare e quella della cooperazione sul nucleare. Che è anche una pericolosa dipendenza.Sì, l’afflato bellicista di Emmanuel Macron e le sue allusioni all’arsenale atomico stanno resuscitando l’incubo dell’apocalisse. Ma proprio mentre monsieur le président giura che farà di tutto perché Vladimir Putin perda in Ucraina, incluso spedire truppe al fronte, la sua Francia tiene in piedi gli accordi industriali con i colossi russi dell’energia nucleare.L’ha ricordato ieri Bloomberg, segnalando le crescenti preoccupazioni della Germania: Tvel fuel co., una controllata di Rosatom, compagnia che fa capo al Cremlino, prosegue infatti la joint venture con Framatome per realizzare a Lingen, nella Bassa Sassonia, un impianto di arricchimento di materiale fissile. Il «carburante» servirebbe soprattutto ad alimentare le centrali di Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia, che fanno largo impiego di tecnologia postsovietica e portano corrente a case, fabbriche e negozi di 100 milioni di persone. Parigi stessa importa in grande quantità prodotti russi. A settembre scorso, uno studio del think tank polacco Forum Energii ha svelato che i francesi sono i principali clienti Ue delle aziende di Putin: il giro d’affari, nel 2022, è arrivato a 720 milioni di euro. Un boom del 22% rispetto al 2021, l’anno prima dell’invasione dell’Ucraina.Circa 11.000 cittadini tedeschi si sono opposti alla creazione del sito franco-russo e hanno inviato rimostranze scritte ai loro rappresentanti nel Länder nordoccidentale. Anche il governo federale è perplesso: una commissione speciale, incaricata da Olaf Scholz di effettuare verifiche giuridiche, ha richiamato l’attenzione sul pericolo d’infiltrazione di spie al soldo dello zar. È l’ennesimo elemento di frizione tra Berlino e Parigi, oltre alla disputa sulla fornitura dei missili Taurus, l’insofferenza tedesca per il proposito di piazzare gli stivali sul terreno in Ucraina e i tentativi dell’Eliseo di ritagliarsi un ruolo egemonico in Europa, approfittando della crisi della Germania. Può darsi che anche la questione nucleare sia stata dibattuta nel bilaterale di venerdì, che il cancelliere ha tenuto con Macron, prima che al vertice del triangolo di Weimar si aggregasse Donald Tusk, il premier polacco.La collaborazione Framatome-Rosatom non è l’unica ad andare avanti, nonostante il grave stato di tensione tra i due Paesi. È tuttora attivo, ad esempio, il progetto Iter (International thermonuclear experimental reactor), che entro il 2025 dovrebbe portare all’attivazione di un reattore a fusione a Saint-Paul-lès-Durance, in Provenza. Tagliare i ponti con la Russia sarebbe stato esiziale per l’intero programma, che coinvolge non solo la Francia, ma pure l’Ue, la Cina, la Svizzera, il Regno Unito, l’India, il Giappone, la Corea del Sud, gli Usa, l’Australia, il Canada, la Thailandia e il Kazakistan. Peraltro, il consorzio è diretto da un ingegnere italiano, Pietro Barabaschi.Dopodiché, il dominio russo nelle capacità di arricchimento dell’uranio è un problema serissimo. L’ha confermato il capo dell’Aiea, Rafael Mariano Grossi, riferendo che Mosca è «il venditore numero uno al mondo di tecnologia nucleare». Come ha riportato a gennaio il Financial Times, Tenex, altra controllata di Rosatom, «detiene il monopolio sulle vendite di un tipo di uranio chiamato Haleu, o High-assay low-enriched uranium, che serve ad alimentare l’ultima generazione di reattori». Il 21 marzo, a Bruxelles, i capi di Stato europei si riuniranno proprio per definire una strategia idonea a rafforzare la catena di approvvigionamento dei materiali fissili, così da ridurre la cronica dipendenza dal Cremlino.Lo scorso ottobre, la compagnia francese Orano ha annunciato un investimento da 1,7 miliardi di euro per accrescere le proprie potenzialità di arricchimento dell’uranio. E anche l’America si sta muovendo. Fino agli anni Ottanta, infatti, la produzione domestica la faceva da padrona. Poi, com’è accaduto in molti altri settori, gli Stati Uniti si sono affidati alle supply chain globalizzate: ora, un quinto dei reattori Usa funziona grazie alle forniture russe. Un bando sull’import dei materiali, temono gli operatori economici, farebbe crescere i prezzi del «combustibile» del 13%. L’amministrazione Biden sta provando a uscire dal cul-de-sac, a colpi di sussidi e «friendshoring», gli acquisti da Paesi alleati. Ma intanto i russi (e i cinesi) lavorano alacremente alla costruzione di piccoli reattori modulari in nazioni estere - inclusa l’Ungheria - e consolidano le reti di influenza.È la dimostrazione che, almeno finché non si arriverà a uno scontro su larga scala, i legami con Mosca non potranno essere completamente recisi. La globalizzazione non è più un dogma; però, quasi ovunque, è un assetto che richiederà tempo per essere corretto. Già è stato faticoso, per i Paesi europei, limitare i flussi di gas dello zar; il petrolio, intanto, continuava ad arrivare grazie a triangolazioni e altri trucchetti; addirittura, nel 2023, l’Italia ha aumentato del 1.164% gli acquisti di grano russo. È ipocrita? Senza dubbio. È un male? Ci rende più deboli dinanzi ai nostri avversari. Ma forse è un motivo in più per non iniziare una guerra totale.
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