2021-04-10
Macché gaffe: Draghi punge Erdogan per avere un mandato Usa in Libia
Recep Erdogan (Alexis Mitas/Getty Images)
La frase che ha fatto infuriare Ankara non è casuale: il premier italiano si pone sulla scia inaugurata da Joe Biden e mira a un nuovo protagonismo mediterraneo, anche a costo di scontentare le cancellerie di Parigi e Berlino.No, non è stata una gaffe quella di Mario Draghi su Recep Erdogan come «dittatore». Si può naturalmente discutere sull'efficacia in prospettiva della sortita del premier italiano: ma sembra ragionevole ipotizzare che Draghi stia cercando di perseguire alcuni precisi obiettivi di politica estera (ne enunceremo quattro), di cui quella battuta rappresenta un segnale, un indicatore. Dunque, sgombriamo subito il campo da equivoci e da evenienze del tutto casuali: la vicenda della terza seggiola mancante tra Erdogan, il belga Charles Michel e la tedesca Ursula von der Leyen, diventa un elemento marginale, un pretesto che ha occasionato la dura considerazione pubblica di Draghi. Ma la sostanza è altrove.Il primo obiettivo di Draghi è un pressoché totale allineamento con gli Usa di Joe Biden. I primi passi dell'amministrazione Usa sono ancora da decifrare: pesa la sensazione di una certa debolezza del presidente, non solo per fattori anagrafici; pesa il fatto di non aver ancora trovato verso la Cina la robustezza di toni che era stata propria di Donald Trump; pesa un atteggiamento che pare eccessivamente morbido verso Teheran; e pesa infine l'incognita su come Washington vorrà muoversi rispetto al teatro mediorientale (c'è da sperare che non sia smontata l'eredità positiva degli Accordi di Abramo, centrati sul protagonismo di Gerusalemme e Riad). Ma, pur dentro queste rilevantissime incognite, Biden ha dato alcune prime indicazioni, a partire da un linguaggio di inusitata durezza verso Mosca (il «killer» Vladimir Putin). Piaccia o no, Draghi sembra volersi collegare alle scelte strategiche della nuova Casa Bianca. Il secondo obiettivo (senza bisogno di evocare una sorta di «do ut des») è strettamente collegato al primo. Roma punta a una sorta di «mandato» Usa sulla Libia, e il recente assai scenografico viaggio di Draghi in quel Paese ne sarebbe la prima testimonianza. Intendiamoci: proprio per le ragioni citate, e cioè le altre priorità sul tavolo di Washington, la Libia non è la prima urgenza per Biden. Che però, a maggior ragione, vorrebbe che qualcuno seguisse il dossier. L'Italia di Draghi vuole essere il paese di riferimento, e questo ha voluto plasticamente significare la missione in Nord Africa. Va interpretata così anche la battuta sferzante del premier italiano contro Erdogan, che nei mesi passati ha pesantemente esercitato la sua influenza in quel teatro: adesso la vicenda libica avrà al centro un player chiamato Italia, che lancia segnali precisi a chi ha fatto la voce grossa nell'area fino ad ora, e cioè per un verso alla Turchia, e per altro verso - sul fronte opposto - alla Russia. Naturalmente questi obiettivi sono assai più facili da enunciare che da realizzare. Posto che il «mandato» Usa ci sia, altra cosa sarà dimostrare che Roma riuscirà a portarlo a compimento. E le stesse intese per le grandi opere, come quelle petrolifere, richiedono come presupposti pace e sicurezza: in mancanza, tutto rischia di diventare un inferno. Né è scontato mettere fuori gioco la Turchia. Lo ha spiegato bene un acuto analista come Dario Fabbri (Limes). Erdogan, consapevole del fatto che la sua aggressiva strategia di influenza (in Medio Oriente, nei Balcani, in Nord Africa) preoccupi gli Usa, si prepara a offrire a Washington una contropartita, giocando la carta di un nuovo canale (canale di Istanbul), in prospettiva svincolato dai limiti fissati dai trattati esistenti (la convenzione di Montreux, difesa non a caso da dieci ammiragli turchi appena fatti arrestare da Erdogan). Da parte dell'autocrate turco, si tratterebbe di una mossa sgradita ai russi (le regole attuali consentono alle navi militari dei paesi esterni al Mar Nero di entrarvi solo per 21 giorni) e invece graditissima a Washington. La stessa posizione della Turchia nella Nato rende poi difficile regolare definitivamente i conti con Ankara. Come si vede, la partita di Draghi è ad altissimo tasso di difficoltà, e punta sull'ipotesi che, nonostante tutto ciò che abbiamo scritto, Washington scelga noi. Il terzo elemento, strettamente collegato al teatro libico, ha a che fare con le ambizioni francesi: l'esito della storica competizione tra Eni e Total non è mai scontato, né è pensabile che Emmanuel Macron sia entusiasta della prospettiva di cedere il passo a Draghi. Il quarto elemento è legato al tramonto della leadership di Angela Merkel e all'ambizione di Draghi di ritagliarsi un ruolo decisivo nella futura Ue, tema su cui ha recentemente riflettuto in un editoriale il direttore Maurizio Belpietro. Proprio l'affaire turco offre a Draghi un terreno su cui i tedeschi non possono muoversi con facilità, anche a causa della forte presenza turca in Germania, a maggior ragione in un anno elettorale in cui il voto dei turchi con passaporto tedesco peserà non poco. Dunque, Draghi si muove mentre Berlino ha le mani più legate, e contemporaneamente offre agli Usa la sponda che cercano sul Mediterraneo. Partita ad alto rischio, ma assolutamente da seguire.