2025-11-04
        Baffino riscrive la storia per aiutare i cinesi
    
 
D’Alema, il primo ex comunista a Palazzo Chigi che appoggiò la Nato nei bombardamenti in Serbia, ora fa il terzomondista. Glissa sulla vicenda delle armi alla Colombia (e il «Corriere» gli dà manforte) e poi tira le solite stoccate contro la Meloni.Anche secondo Massimo D’Alema aveva ragione Massimo D’Alema. L’incredibile ammissione è contenuta in un’intervista di Massimo D’Alema al Corriere della Sera di ieri. Non era quantomeno singolare la sua presenza alla parata militare di Pechino, in compagnia dei più fieri autocrati dell’universo? «A Pechino era rappresentato, ci piaccia o meno, l’80% del genere umano», ribatte il primo ex comunista salito a Palazzo Chigi. Comunque affascinante questa nuova legge dei grandi numeri per la quale se uno guida una nazione si legittima in base ai milioni di persone che governa (anche opprimendoli). Con questo metro dalemiano, un Enrico Berliguer avrebbe dovuto partecipare all’incoronazione di Bokassa (in Repubblica Centrafricana). Il problema è che anche se Mao non c’è più, l’uomo che da premier fece sognare la Nato bombardando Belgrado, ormai è un fan incontenibile della Cina. Una nazione che secondo D’Alema è pacifica perché «i cinesi non bombardano nessuno».Ai primi di settembre l’ineffabile Baffino spuntò in collegamento da Pechino su un telegiornale, spiegando che la parata militare per gli 80 anni della fine della Seconda Guerra mondiale era «un messaggio di pace». Era praticamente l’unico leader occidentale a stare lì con le bandierine, ospite del presidente Xi Jinping, insieme ad altri preclari allievi del Mahatma Gandhi come Vladimir Putin, Kim Jong-un, Aleksandr Lukashenko e l’iraniano Masoud Pezeshkian. Oltre a tutto, non risultava che D’Alema avesse avvertito la Farnesina. Insomma, come sempre, ha fatto l’ambasciatore di se stesso e della sua fondazione, che per uno scherzo del destino si chiama «Italianieuropei», quando il suo cuore batte ormai da anni per Pechino, Mosca e Bogotà e andrebbe quindi ribattezzata «Sinocolombiani». L’intervistatore, Aldo Cazzullo, parte proprio chiedendo conto di quella missione. L’ex premier se la cava così: «Sono andato a festeggiare gli ottant’anni della vittoria del popolo cinese nella sua liberazione, e la vittoria della guerra contro il fascismo e il nazismo». Poi regala la prima perla: «Così era scritto sull’invito». Dopo aver inventato la concezione tipografica della politica estera (e dei diritti umani) viene costretto ad affrontare il tema della compagnia. Ed è più preparato di un principe del foro: «Putin è stato ricevuto con maggiori onori negli Stati Uniti che in Cina (…) C’era Kim Jong-un ma anche il presidente del Parlamento sudcoreano (…)». Poi sale in cattedra: «I leader occidentali hanno commesso un errore. A Pechino era rappresentato, ci piaccia o no, l’80% del genere umano. Isolare l’80% dell’umanità è un’impresa difficile». Quello che più sta a cuore a D’Alema e convincerci che la Cina è buona. Quando gli chiedono se è un pericolo, risponde con un sillogismo: «I cinesi non fanno guerre, non bombardano nessuno». Che esistano le guerre commerciali ed economiche (non solo cinesi, è ovvio) e lo strangolamento economico delle nazioni più deboli non è evidentemente qualcosa in grado di impressionare uno come D’Alema, che il suo vino lo piazza ovunque. Ma è una strana logica semplicistica, quella usata per proteggere Pechino, specie se sbandierata da chi al governo bombardò la Serbia. «Rigore è quando arbitro fischia», diceva l’allenatore di calcio Vujadin Boskov (serbo), «Guerra è quando governo bombarda», ci rivela oggi D’Alema. Ma soprattutto, per andare a Palazzo Chigi, D’Alema fu più allineato degli allineati. Oggi che abbiamo l’invasione russa in Ucraina, guarda la Nato e si disallinea. Il fascino di Xi Jinping, però, non tramonta mai sulle vigne di D’Alema. Che spiega così la sua presenza sul palcoscenico mondiale: «La Cina ha una sua agenda: costruire l’egemonia sul Sud del Mondo. I cinesi ragionano sui tempi lunghi della Storia». Quella, semmai, era la Chiesa cattolica, ma D’Alema è cresciuto in un’altra chiesa, quella comunista, dove alla sola parola «egemonia» gli occhi si inumidiscono e il pugno si chiude. Purtroppo, su questo tema D’Alema non si è concesso più di tanto, ma sarebbe interessante sapere se anche quella di Donald Trump e degli Stati Uniti sia per lui una politica tesa all’«egemonia», oppure non abbia questo rango e si tratti di volgare re bieco imperialismo. Interessante anche la visione sul conflitto in Ucraina: «Anche qui spicca l’assenza dell’Europa, che ha sostenuto la guerra contro la Russia da una posizione irrealistica, sulla pelle degli ucraini». A differenza dei suoi amici del Pd, D’Alema non ha problemi a riconoscere che anche Emmanuel Macron ha commesso errori e perora un accordo a 360 gradi tra Europa e Russia, non solo su Kiev. Poi, certo, l’ego di D’Alema non è inferiore a quello del presidente francese. Così ricorda che «ai suoi tempi» l’Italia contava nei Balcani e in Libano, mentre «Giorgia Meloni in sostanza s’infila nelle foto». Che è poi quello che ha fatto lui a Pechino due mesi fa. La lunghissima intervista si conclude con Cazzullo che gli ricorda un po’ delle sue vecchie magagne, dalla barca Ikarus al rapporto con il denaro, «all’intermediazione con la Colombia». D’Alema se la cava in maniera apodittica: «A parte la barca, di cui sono stato socio, è tutto falso». Non è esatto, anche se l’intervistatore gliela fa passare. Sulla vendita di armi alla Colombia, D’Alema è stato archiviato penalmente, ma come ha svelato questo giornale si è dato da fare. Cazzullo si è anche dimenticato lo scandalo Affittopoli e la casa di Trastevere. Ma sono davvero piccolezze, quando si è al cospetto di un leader che frequenta «l’80% del mondo».
        (Ansa)
    
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