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2018-09-06
«Ma quali profughi da soccorrere. L’Europa abusa del diritto di asilo»
Ansa
Il caos libico, al di là delle cause contingenti dell'ultima crisi, ripropone prepotentemente in agenda il tema del futuro dell'Africa, del resto già affacciatosi in modo eloquente alla cronaca con l'emergenza immigratoria degli ultimi anni.
Giunge allora benvenuta la traduzione italiana di un libro decisamente controcorrente, di cui peraltro ci eravamo già occupati sulla Verità nel maggio scorso, allorché Emmanuel Macron vi aveva fatto riferimento in un suo discorso. Parliamo del saggio La ruée vers l'Europe, di Stephen Smith, uscito in questi giorni per Einaudi col titolo Fuga in Europa. Professore di studi africani alla Duke University, Smith ha già parlato di Africa prima sulle colonne di Libération, poi su quelle, altrettanto politicamente corrette, di LeMonde. Non esattamente un pericoloso populista propalatore di fake news al soldo di Putin, quindi. Eppure, le sue tesi sono piuttosto dirompenti. Smith calcola infatti che, nel 2050, su un totale di 10 miliardi di abitanti della terra, almeno il 25% sarà africano. Nel 2100, su un totale di 11 miliardi, gli abitanti del Continente nero saranno il 40%.
Il rapporto tra le due masse umane separate fra loro dal Mediterraneo, del resto, è eloquente: oggi 510 milioni di europei osservano impotenti 1,3 miliardi di africani che scalpitano. Tra 35 anni, saremo in 450 contro 2,5 miliardi. In tutto il continente, del resto, il 40% della popolazione ha meno di 15 anni. Insomma, se pensate che i flussi di questi anni siano un esodo biblico, avete completamente sbagliato le proporzioni del fenomeno: la verità è che l'Africa non ha ancora cominciato a muoversi. Soprattutto quella subsahariana. La popolazione di questa parte del Continente nero è passata da 230 milioni nel 1960 a un miliardo nel 2015. Nella stessa zona, fino a qualche anno fa troppo povera per partire (che gli immigrati siano spinti dalla miseria ormai lo credono solo i gonzi, la verità è che si sposta chi se lo può permettere), sta ora crescendo una classe media che ha le conoscenze, l'ambizione e i fondi per decidere di rifarsi una vita nel «primo mondo». Numeri che fanno spavento. Ma non è tutto.
Smith contesta duramente l'idea dell'«obbligo demografico», ovvero l'idea che gli immigrati siano necessari per rimpolpare la popolazione attiva in grado di mantenere quella inattiva. Insomma, il caro vecchio «ci pagano le pensioni». Tuona l'autore: «In verità non esiste alcun obbligo, l'immigrazione massiva di giovani africani non è né necessaria né utile per una ragione imperativa: la loro venuta non migliorerà affatto l'indice di dipendenza sul Vecchio Continente. Certo, i migranti adulti integreranno la popolazione attiva e aiuteranno, grazie ai loro contributi, a finanziare il sistema pensionistico, ma tenendo conto che le loro famiglie sono in media più numerose, il guadagno sulle pensioni sarà compensato dal costo per scolarizzare, formare e curare i loro bambini». Nei fatti, aggiunge Smith, «il cosiddetto obbligo demografico è una mistificazione».
Ma il giornalista va ancora oltre. Citando i dati, che ben conosciamo, sull'altissimo indice di domande d'asilo rigettate, circa l'80% in Unione Europea, Smith scrive senza preoccuparsi di misurare le parole in senso buonista: «L'evidente abuso del diritto d'asilo è minimizzato» dalla grande stampa «mettendosi “nei panni di queste povere persone"». Certo, si dirà, noi abbiamo delle responsabilità storiche nei confronti di queste popolazioni. Se sono messe così, sentiamo affermare spesso, è colpa del cattivo uomo bianco, del colonialismo, dello sfruttamento perpetrato dall'Europa.
Ora, a parte il fatto che sfruttamento, conquista e schiavitù erano di casa in Africa anche prima che l'uomo bianco vi mettesse piede, a parte il fatto che non si capisce perché Paesi che non hanno avuto mezza colonia, come per esempio la Svezia, debbano quindi riempirsi di immigrati, c'è anche un altro discorso da fare: è possibile leggere la storia di un continente millenario solo alla luce del pur duro e cruciale periodo coloniale? Scrive Smith: «Il colonialismo è durato solo 80 anni nel Sud del Sahara e, a meno di azzerare la storia africana prima e dopo, non può certo definire il continente ad infinitum».
Quindi, che fare? Smith invoca alcuni scenari possibili per il futuro. Il primo è l'Eurafrica: l'Europa smette semplicemente di esistere e apre le porte ai popoli africani venuti per «ringiovanirla». Secondo: la «Fortezza Europa», che tuttavia l'autore (con troppa fretta) definisce una battaglia persa in partenza. Il terzo scenario è inquietante e prevede una saldatura, peraltro già effettivamente in corso, tra mafie africane e mafie autoctone, con un orizzonte di guerra civile dietro l'angolo.
Poi, però, l'autore infrange un altro tabù e propone il «ritorno al protettorato»: «Di fronte allo tsunami migratorio percepito come minaccia esistenziale, l'Europa potrebbe ritrovare il vecchio riflesso di “tagliare il male alla radice"». Ovvero: «In cambio di visti di libera circolazione in Europa per i suoi uomini d'affari, artisti e membri dell'élite dirigente, in cambio di un aiuto allo sviluppo senza controllo sul suo uso, i paesi “cooperativi" diventerebbero i protettorati dell'Europa in un duplice senso: i suoi regimi sarebbero immuni da interferenze esterne disturbanti mentre la loro sovranità sarebbe amputata quanto necessario alla difesa dell'Europa». Terribile? Cinico? No, è realpolitik. E ne abbiamo un disperato bisogno.
Adriano Scianca
Il futuro della Libia si deciderà in Italia
La tregua in Libia regge, ma l'equilibrio su cui si basa è fragilissimo. L'accordo per il cessate il fuoco è stato raggiunto con la mediazione dell'inviato delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salameh. Il bilancio delle vittime dei nove giorni di combattimenti tra i ribelli della Settima brigata, costituita per lo più da ex militari reduci del regime del colonnello Gheddafi, e le milizie del governo di accordo nazionale libico, stando a quanto hanno affermato fonti dell'ospedale di Tripoli, è di 61 morti, 159 feriti e 12 dispersi.
Ieri pomeriggio, il presidente del governo di accordo nazionale, Fayez Al Serraj, ha invitato i cittadini a ritornare alle loro attività abituali. Gli attacchi della Settima brigata contro le forze governative sono stati rintuzzati grazie all'arrivo a Tripoli di rinforzi provenienti da Misurata, che hanno consentito a Serraj di liberare le milizie «Rada», fedeli al governo, e di posizionarle nella zona sud di Tripoli, dove hanno fronteggiato i ribelli, costringendola ad arretrare.
Tregua appesa a un filo, quindi, e non a caso ieri non sono mancate schermaglie a colpi di obice tra le fazioni in lotta. L'Italia segue con apprensione l'evolversi della situazione, e tenta di mantenere il ruolo fondamentale che storicamente svolgiamo e abbiamo svolto in passato in Libia. Il governo guidato dal premier Giuseppe Conte ieri ha fatto sapere che la conferenza sulla Libia, i cui preparativi sono in corso in queste ore, dovrebbe svolgersi tra il 10 e il 22 novembre in una località ancora da definire: si parla di Roma o della Sicilia (Sciacca o Palermo). L'Italia, che sostiene il governo di Serraj, è una delle quattro nazioni ad avere una presenza militare in Libia: le altre sono Francia (che invece appoggia le milizie del generale Khalifa Haftar), Stati Uniti e Inghilterra. Il ricambio dei vertici dei servizi segreti italiani, Aise e Dis, di cui La Verità ha parlato nei giorni scorsi, è stato congelato dal governo fino al vertice del prossimo novembre.
Il braccio di ferro tra Italia e Francia sul terreno libico resta incandescente. Parigi sta tentando di sostituirsi a Roma nel ruolo di nazione più influente in Libia, sia per interessi geopolitici che economici: la nostra Eni e la francese Total si contendono il petrolio e il gas degli immensi giacimenti. Lo scorso 29 maggio a Parigi, al termine della conferenza officiata dal presidente francese Emmanuel Macron, le fazioni in lotta hanno stabilito la data del 10 dicembre per le elezioni presidenziali e legislative, appuntamento che la Francia vuole confermare a tutti i costi e che l'Italia, invece, vorrebbe rinviare.
Dopo le accuse a Macron da parte del vicepremier Matteo Salvini per l'escalation di tensione in Libia, ieri sulla vicenda è intervenuto il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. «Dopo giorni di combattimenti a Tripoli», ha scritto la Trenta su Facebook, «in Libia, ieri è stato concluso, con successo, un intervento chirurgico presso il nostro ospedale da campo a Misurata. Un ferito aveva bisogno di cure e il personale italiano specializzato, civile e militare, gli ha prestato soccorso. Un lavoro che i nostri uomini e le nostre donne portano avanti da tempo in Libia, e che in queste ore si sta intensificando. Un lavoro», ha aggiunto la Trenta, «che deve renderci orgogliosi come Paese, che testimonia il grande impegno dell'Italia nella stabilizzazione dell'aerea. Perché la sicurezza della Libia, oggi, equivale a mettere in sicurezza anche il nostro territorio! Ribadisco, a nome del governo, l'invito dell'Italia a un cessate il fuoco e il pieno sostegno all'avvio di un processo di pace che deve essere, innanzitutto, intralibico. Solo i libici», ha aggiunto il ministro, «possono decidere il loro futuro e l'Italia resta al fianco di chi sceglie la pace, la democrazia e la stabilità. Tre strade che porteranno maggiore sicurezza anche nel Mediterraneo, la fine del traffico di esseri umani e un conseguente stop dei flussi incontrollati di migranti verso le nostre coste!».
Ieri, intervistato da Repubblica, il colonnello Naser Ali Aoun, del comando della Settima brigata, ha previsto che «la tregua non reggerà». «Lo vedrete nei prossimi giorni», ha detto Aoun, «è un accordo nato debole». Il colonnello ha smentito che dietro gli attacchi ci sia la Francia: «Parigi», ha sottolineato Aoun, «è contro la nostra operazione. Ma la Francia ha una strategia di lungo termine e da molto tempo cerca di creare problemi al governo Serraj. Gli interessi della Francia sono molto diversi dai nostri, sono esclusivamente economici. Mentre la Francia è attivissima», ha aggiunto il colonnello, «l'Italia è assente. Per tradizione, vicinanza e amicizia avrebbe un ruolo importante con il nostro Paese e invece è immobile. Dovrebbe cambiare l'approccio del suo dialogo con la Libia proponendo programmi sociali, sanitari, interessandosi ai problemi che affliggono migliaia di cittadini libici». Il timore è che la tensione in Libia possa produrre una impennata nelle partenze di migranti diretti verso le coste italiane.
Carlo Tarallo
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In uscita anche in Italia il libro politicamente scorretto di Stephen Smith, nel quale vengono demoliti i miti sull'accoglienza: «Gli stranieri non ci pagano le pensioni. Non escludiamo il ritorno ai protettorati».A novembre si terrà nel nostro Paese una conferenza di pace sulla situazione nello Stato nordafricano. Solo dopo il summit il governo metterà mano al cambio dei vertici dei servizi. Intanto, persino le milizie dicono: «Qui Parigi c'è, voi invece no».Lo speciale contiene due articoliIl caos libico, al di là delle cause contingenti dell'ultima crisi, ripropone prepotentemente in agenda il tema del futuro dell'Africa, del resto già affacciatosi in modo eloquente alla cronaca con l'emergenza immigratoria degli ultimi anni.Giunge allora benvenuta la traduzione italiana di un libro decisamente controcorrente, di cui peraltro ci eravamo già occupati sulla Verità nel maggio scorso, allorché Emmanuel Macron vi aveva fatto riferimento in un suo discorso. Parliamo del saggio La ruée vers l'Europe, di Stephen Smith, uscito in questi giorni per Einaudi col titolo Fuga in Europa. Professore di studi africani alla Duke University, Smith ha già parlato di Africa prima sulle colonne di Libération, poi su quelle, altrettanto politicamente corrette, di LeMonde. Non esattamente un pericoloso populista propalatore di fake news al soldo di Putin, quindi. Eppure, le sue tesi sono piuttosto dirompenti. Smith calcola infatti che, nel 2050, su un totale di 10 miliardi di abitanti della terra, almeno il 25% sarà africano. Nel 2100, su un totale di 11 miliardi, gli abitanti del Continente nero saranno il 40%. Il rapporto tra le due masse umane separate fra loro dal Mediterraneo, del resto, è eloquente: oggi 510 milioni di europei osservano impotenti 1,3 miliardi di africani che scalpitano. Tra 35 anni, saremo in 450 contro 2,5 miliardi. In tutto il continente, del resto, il 40% della popolazione ha meno di 15 anni. Insomma, se pensate che i flussi di questi anni siano un esodo biblico, avete completamente sbagliato le proporzioni del fenomeno: la verità è che l'Africa non ha ancora cominciato a muoversi. Soprattutto quella subsahariana. La popolazione di questa parte del Continente nero è passata da 230 milioni nel 1960 a un miliardo nel 2015. Nella stessa zona, fino a qualche anno fa troppo povera per partire (che gli immigrati siano spinti dalla miseria ormai lo credono solo i gonzi, la verità è che si sposta chi se lo può permettere), sta ora crescendo una classe media che ha le conoscenze, l'ambizione e i fondi per decidere di rifarsi una vita nel «primo mondo». Numeri che fanno spavento. Ma non è tutto. Smith contesta duramente l'idea dell'«obbligo demografico», ovvero l'idea che gli immigrati siano necessari per rimpolpare la popolazione attiva in grado di mantenere quella inattiva. Insomma, il caro vecchio «ci pagano le pensioni». Tuona l'autore: «In verità non esiste alcun obbligo, l'immigrazione massiva di giovani africani non è né necessaria né utile per una ragione imperativa: la loro venuta non migliorerà affatto l'indice di dipendenza sul Vecchio Continente. Certo, i migranti adulti integreranno la popolazione attiva e aiuteranno, grazie ai loro contributi, a finanziare il sistema pensionistico, ma tenendo conto che le loro famiglie sono in media più numerose, il guadagno sulle pensioni sarà compensato dal costo per scolarizzare, formare e curare i loro bambini». Nei fatti, aggiunge Smith, «il cosiddetto obbligo demografico è una mistificazione».Ma il giornalista va ancora oltre. Citando i dati, che ben conosciamo, sull'altissimo indice di domande d'asilo rigettate, circa l'80% in Unione Europea, Smith scrive senza preoccuparsi di misurare le parole in senso buonista: «L'evidente abuso del diritto d'asilo è minimizzato» dalla grande stampa «mettendosi “nei panni di queste povere persone"». Certo, si dirà, noi abbiamo delle responsabilità storiche nei confronti di queste popolazioni. Se sono messe così, sentiamo affermare spesso, è colpa del cattivo uomo bianco, del colonialismo, dello sfruttamento perpetrato dall'Europa. Ora, a parte il fatto che sfruttamento, conquista e schiavitù erano di casa in Africa anche prima che l'uomo bianco vi mettesse piede, a parte il fatto che non si capisce perché Paesi che non hanno avuto mezza colonia, come per esempio la Svezia, debbano quindi riempirsi di immigrati, c'è anche un altro discorso da fare: è possibile leggere la storia di un continente millenario solo alla luce del pur duro e cruciale periodo coloniale? Scrive Smith: «Il colonialismo è durato solo 80 anni nel Sud del Sahara e, a meno di azzerare la storia africana prima e dopo, non può certo definire il continente ad infinitum».Quindi, che fare? Smith invoca alcuni scenari possibili per il futuro. Il primo è l'Eurafrica: l'Europa smette semplicemente di esistere e apre le porte ai popoli africani venuti per «ringiovanirla». Secondo: la «Fortezza Europa», che tuttavia l'autore (con troppa fretta) definisce una battaglia persa in partenza. Il terzo scenario è inquietante e prevede una saldatura, peraltro già effettivamente in corso, tra mafie africane e mafie autoctone, con un orizzonte di guerra civile dietro l'angolo. Poi, però, l'autore infrange un altro tabù e propone il «ritorno al protettorato»: «Di fronte allo tsunami migratorio percepito come minaccia esistenziale, l'Europa potrebbe ritrovare il vecchio riflesso di “tagliare il male alla radice"». Ovvero: «In cambio di visti di libera circolazione in Europa per i suoi uomini d'affari, artisti e membri dell'élite dirigente, in cambio di un aiuto allo sviluppo senza controllo sul suo uso, i paesi “cooperativi" diventerebbero i protettorati dell'Europa in un duplice senso: i suoi regimi sarebbero immuni da interferenze esterne disturbanti mentre la loro sovranità sarebbe amputata quanto necessario alla difesa dell'Europa». Terribile? Cinico? No, è realpolitik. E ne abbiamo un disperato bisogno.Adriano Scianca<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ma-quali-profughi-da-soccorrere-leuropa-abusa-del-diritto-di-asilo-2602290561.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-futuro-della-libia-si-decidera-in-italia" data-post-id="2602290561" data-published-at="1765025396" data-use-pagination="False"> Il futuro della Libia si deciderà in Italia La tregua in Libia regge, ma l'equilibrio su cui si basa è fragilissimo. L'accordo per il cessate il fuoco è stato raggiunto con la mediazione dell'inviato delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salameh. Il bilancio delle vittime dei nove giorni di combattimenti tra i ribelli della Settima brigata, costituita per lo più da ex militari reduci del regime del colonnello Gheddafi, e le milizie del governo di accordo nazionale libico, stando a quanto hanno affermato fonti dell'ospedale di Tripoli, è di 61 morti, 159 feriti e 12 dispersi. Ieri pomeriggio, il presidente del governo di accordo nazionale, Fayez Al Serraj, ha invitato i cittadini a ritornare alle loro attività abituali. Gli attacchi della Settima brigata contro le forze governative sono stati rintuzzati grazie all'arrivo a Tripoli di rinforzi provenienti da Misurata, che hanno consentito a Serraj di liberare le milizie «Rada», fedeli al governo, e di posizionarle nella zona sud di Tripoli, dove hanno fronteggiato i ribelli, costringendola ad arretrare. Tregua appesa a un filo, quindi, e non a caso ieri non sono mancate schermaglie a colpi di obice tra le fazioni in lotta. L'Italia segue con apprensione l'evolversi della situazione, e tenta di mantenere il ruolo fondamentale che storicamente svolgiamo e abbiamo svolto in passato in Libia. Il governo guidato dal premier Giuseppe Conte ieri ha fatto sapere che la conferenza sulla Libia, i cui preparativi sono in corso in queste ore, dovrebbe svolgersi tra il 10 e il 22 novembre in una località ancora da definire: si parla di Roma o della Sicilia (Sciacca o Palermo). L'Italia, che sostiene il governo di Serraj, è una delle quattro nazioni ad avere una presenza militare in Libia: le altre sono Francia (che invece appoggia le milizie del generale Khalifa Haftar), Stati Uniti e Inghilterra. Il ricambio dei vertici dei servizi segreti italiani, Aise e Dis, di cui La Verità ha parlato nei giorni scorsi, è stato congelato dal governo fino al vertice del prossimo novembre. Il braccio di ferro tra Italia e Francia sul terreno libico resta incandescente. Parigi sta tentando di sostituirsi a Roma nel ruolo di nazione più influente in Libia, sia per interessi geopolitici che economici: la nostra Eni e la francese Total si contendono il petrolio e il gas degli immensi giacimenti. Lo scorso 29 maggio a Parigi, al termine della conferenza officiata dal presidente francese Emmanuel Macron, le fazioni in lotta hanno stabilito la data del 10 dicembre per le elezioni presidenziali e legislative, appuntamento che la Francia vuole confermare a tutti i costi e che l'Italia, invece, vorrebbe rinviare. Dopo le accuse a Macron da parte del vicepremier Matteo Salvini per l'escalation di tensione in Libia, ieri sulla vicenda è intervenuto il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. «Dopo giorni di combattimenti a Tripoli», ha scritto la Trenta su Facebook, «in Libia, ieri è stato concluso, con successo, un intervento chirurgico presso il nostro ospedale da campo a Misurata. Un ferito aveva bisogno di cure e il personale italiano specializzato, civile e militare, gli ha prestato soccorso. Un lavoro che i nostri uomini e le nostre donne portano avanti da tempo in Libia, e che in queste ore si sta intensificando. Un lavoro», ha aggiunto la Trenta, «che deve renderci orgogliosi come Paese, che testimonia il grande impegno dell'Italia nella stabilizzazione dell'aerea. Perché la sicurezza della Libia, oggi, equivale a mettere in sicurezza anche il nostro territorio! Ribadisco, a nome del governo, l'invito dell'Italia a un cessate il fuoco e il pieno sostegno all'avvio di un processo di pace che deve essere, innanzitutto, intralibico. Solo i libici», ha aggiunto il ministro, «possono decidere il loro futuro e l'Italia resta al fianco di chi sceglie la pace, la democrazia e la stabilità. Tre strade che porteranno maggiore sicurezza anche nel Mediterraneo, la fine del traffico di esseri umani e un conseguente stop dei flussi incontrollati di migranti verso le nostre coste!». Ieri, intervistato da Repubblica, il colonnello Naser Ali Aoun, del comando della Settima brigata, ha previsto che «la tregua non reggerà». «Lo vedrete nei prossimi giorni», ha detto Aoun, «è un accordo nato debole». Il colonnello ha smentito che dietro gli attacchi ci sia la Francia: «Parigi», ha sottolineato Aoun, «è contro la nostra operazione. Ma la Francia ha una strategia di lungo termine e da molto tempo cerca di creare problemi al governo Serraj. Gli interessi della Francia sono molto diversi dai nostri, sono esclusivamente economici. Mentre la Francia è attivissima», ha aggiunto il colonnello, «l'Italia è assente. Per tradizione, vicinanza e amicizia avrebbe un ruolo importante con il nostro Paese e invece è immobile. Dovrebbe cambiare l'approccio del suo dialogo con la Libia proponendo programmi sociali, sanitari, interessandosi ai problemi che affliggono migliaia di cittadini libici». Il timore è che la tensione in Libia possa produrre una impennata nelle partenze di migranti diretti verso le coste italiane. Carlo Tarallo
Il governatore della banca centrale indiana Sanjay Malhotra (Getty Images)
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.
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Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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