
Il grande musicista non si metteva in viaggio senza il sapore della sua terra. Portò lo strolghino, fatto con gli scarti del culatello, persino in Russia. E verdiani vengono catalogati anche la mariola e il gentile, da suini neri parmigiani scomparsi e oggi ritrovati.Nel dicembre 1861 la Forza del destino portò Giuseppe Verdi a San Pietroburgo. Il musicista, che non si metteva in viaggio senza portarsi appresso il calore e, soprattutto, il sapore della sua terra, partì da Busseto con i bagagli pieni - così assicura Claudio Mazzanti nell'Atlante dei salumi tipici - di «notevoli quantità» di strolghino. Il delizioso salume della Bassa Parmense, chiamato salame verdiano proprio perché il Maestro ne era ghiotto, lo avrebbe confortato durante il lungo inverno russo. Iniziamo con lo strolghino, salame misterioso già nel nome, l'ultima tappa del giro d'Italia dei salami curiosi, insoliti o dimenticati. L'etimologia del nome si rifà a strologo, l'astrologo. Lo strolghino, fatto con i lussuosi scarti del culatello, salame tradizionale da merenda contadina che si mangia fresco, è in grado di predire la futura bontà del baldacchino.«Qualche fetta di strolghino sul pane caldo e un bicchiere di Fortana, l'uva d'oro di cui Verdi era innamorato, vi farà sentire il Va' Pensiero», giura Luciano Spigaroli, colto profeta dei salumi tipici della Bassa parmense. Spigaroli riassume in una equazione lirico-salumiera il rapporto tra culatello e strolghino: «Il culatello sta alla Marcia dell'Aida come lo strolghino al Va' Pensiero». Un concetto per niente scandaloso: Luciano Spigaroli ha tutti i diritti e i titoli di accostare i capolavori della gastronomia emiliana con la sublime musica di Verdi: il bisnonno Carlo Spigaroli era il fattore del Cigno di Busseto ed era il suo masalén, il norcino. Verdi componeva, il fattore insaccava. Due artisti. Luciano e Massimo Spigaroli, bisnipoti ed eredi di quell'arte, producono nell'Antica Corte Pallavicina a Polesine Parmense culatelli famosi (anche per reali e principi europei) e salami verdiani - strolghino, mariola, gentile - da maiali di razza nera parmigiana. Una razza scomparsa che Massimo ha ritrovato battendo l'Italia e l'Europa in lungo e in largo.Dal Po della Bassa Parmense alle montagne dell'Oltrepò pavese. Siamo a Varzi, nella lombarda Valle Staffora, in un puzzle geografico che s'incastra tra Emilia, Piemonte e la poco lontana Liguria. Il salame di Varzi appartiene all'aristocrazia della norcineria italiana. Non solo perché ha la targa della Dop, la denominazione d'origine protetta, ma perché la sua storia allunga le fonti fino all'alto medioevo, ai Longobardi che occuparono la valle Staffora. Il maiale, allevato allo stato semibrado, era il cibo per eccellenza per quella popolazione che conosceva l'arte di conservare la carne. Tanto che un loro re, Rotari, nel famoso editto, ebbe un occhio di riguardo per il lavoro dei porcari. È storia che nel 12° secolo i marchesi Malaspina apprezzavano il salame della Valle Staffora, prodotto, tra l'altro, in un borgo che si chiamava Vicus Lardarius. I tagli nobili del suino usati per fare il salame - guanciale, coppa, pancetta, filetto e perfino il prosciutto -, la lunga stagionatura nel clima ideale della valle, gli hanno accresciuto la fama secolo dopo secolo. È un prodotto di nicchia che si trova nelle boutique dei salumi e nei migliori supermercati.Ai salami hunters in caccia di rarità consigliamo di percorrere la settantina di chilometri che divide Varzi da Sant'Olcese, in Liguria, dove potranno gustare un raro insaccato: il salame genovese di Sant'Olcese. Il salame che prende il nome da questo paese dell'alta val Polcevera, è molto particolare. È confezionato con carne suina (grassa e magra) e bovina in ugual percentuale. Vanno uniti all'impasto aglio, aromi e aceto. Insaccati in budello naturale i salami sono messi ad affumicare in stanze apposite e poi a stagionare. Il salame di Sant'Olcese vanta qualche secolo di storia. È uno dei pochissimi insaccati italiani che può vantarsi di aver navigato. Grazie all'affumicatura e gli ingredienti resisteva a lungo nelle cambuse.Piemonte. Sono tre i prodotti tipici del Monferrato Casalese: il Grignolino, i krumiri, biscotti la cui forma ricorda i baffi di Vittorio Emanuele II, e la muletta, squisito salame inserito da Slow Food tra i prodotti dell'Arca del Gusto: poco prodotto, rischia l'estinzione come l'orso bruno marsicano. Se si salverà dovrà ringraziare il poliedrico e simpaticissimo Pieralberto Miglietta, 71 anni, titolare dell'omonimo salumificio artigianale di Serralunga di Crea, paesotto ai piedi del Sacro Monte di Crea. L'uomo, studi classici alle spalle, sa di greco e di latino. Innamorato della muletta, sgombera il campo da ogni possibile equivoco. «Muli ed equini non c'entrano. Questo salame è suino al cento per cento, dalla carne al budello. L'impasto è fatto solo con le parti nobili del maiale: coscia, spalla, lonza, capocollo, pancetta. Condito con sale, pepe, aglio, profumo di noce moscata, la preparazione ha un tocco magico finale: un'innaffiata di ottima barbera invecchiata. Perché muletta? Perché è graziosa e rotonda come una bella ragazza triestina. Sono stati i soldati monferrini di ritorno dal fronte orientale a battezzarla così. Dai veneti hanno copiato la soppressa, dai triestini il nome delle ragazze floride: mule. Le fonti? Mia nonna, morta a 101 anni, e un vecchissimo menu dove si consigliava di accompagnarla con un ricciolo di burro».Prima la lingua, poi il palato. La ciuìga, salame tipico di San Lorenzo in Banale, nelle Giudicarie (Trentino), fatto con carne di maiale e rape pretende l'accento sulla seconda «i», ciuìga, e chiede rispetto: sarà anche un salume povero, ma in passato ha salvato la vita a generazioni di montanari stremati dalla fame. Oltre alla medaglia del gusto, meriterebbe anche quella d'oro al valore civile. Se ne produce poca, da inizio ottobre fin verso aprile, nel periodo delle rape. Fu un macellaio di San Lorenzo, Palmo Donati, a inventare la ciuìga nel1875 utilizzando carne e sangue di porco e rape. Donati non fece altro che tradurre in industria quello che le misere famiglie montanare facevano in casa: insaccare nel budello una grande quantità di rape per «allungare» la poca carne a disposizione, un espediente che permetteva loro di sopravvivere fino alla fine dell'inverno. La ciuìga è presidio Slow Food, un prodotto tipico da difendere e valorizzare. Solo che le ciuìghe d'oggi sono ricche. Il salame si confeziona con i tagli migliori del maiale: spalla, coppa, pancetta, gola. E se una volta c'erano nella ciuìga più rape (dal 60 al 70 per cento) che carne (dal 30 al 40 per cento) oggidì è il contrario.Piccoletta e stortignaccola com'è non sarà Miss salame, ma in quanto a bontà merita la fascia. La stortina veronese, piccolo salame della bassa pianura di Verona, di peso inferiore ai due etti, s'è presa le sue belle soddisfzioni dopo aver rischiato il dimenticatoio. Intanto è presidio Slow Food, come la ciuìga trentina, poi ha una passerella tutta sua sulla quale sfila orgogliosa: il Palio della stortina veronese che si tiene a Cerea da quasi 25 anni. C'è un altro aspetto di cui va fiera: è stata per generazioni il salvadanaio alimentare della famiglia contadina durante i lunghi inverni del passato. La tradizione, tramandata di progenie in progenie, insegna come conservarla: in pentole di terracotta sotto lardo in modo da mantenerla fresca per tutta la brutta stagione: uno strato di salamini, uno di lardo macinato e salato, salamini, lardo, e così via fino al cappello finale, l'ultimo strato di lardo. Chiusa con un coperchio la pentola veniva riposta in cantina o in un ripostiglio buio anche per mesi, fino al momento del consumo con il pane caldo o con il pane biscotto o con la polenta abbrustolita. Le stortine veronesi oggi sono fatte con le parti migliori del maiale: spalla, lombo, culaccia, pancetta. All'impasto va aggiunto aglio macerato in vino bianco.
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