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2019-03-21
M5s nei guai a Roma: «Mister legalità» in cella per mazzette sul nuovo stadio
Ansa
Uno schema corruttivo fisso, un «format» lo chiama il gip Maria Paola Tomaselli. Che consentiva a imprenditori e uomini d'affari di comprare il potere di influenza politica del presidente del Consiglio comunale di Roma capitale, Marcello De Vito (M5s), attraverso consulenze fittizie al suo «procuratore», l'avvocato Camillo Mezzacapo. Da ieri, sono entrambi in carcere nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta madre sul nuovo stadio della Roma che, nel giugno scorso, ha portato all'arresto del costruttore Luca Parnasi. Oggi di nuovo indagato, ma a piede libero, insieme agli imprenditori Pierluigi e Claudio Toti e all'immobiliarista Giuseppe Statuto, e a un nutrito gruppo di figure minori (Virginia Vecchiarelli, Paola Comito e Sara Scarpari). Per l'architetto Fortunato Pititto, legato a Statuto, e per il commerciante Gianluca Bardelli, titolare di una concessionaria d'auto, sono stati disposti invece i domiciliari. Le accuse a vario titolo sono di corruzione e traffico di influenze illecite.
Tre sono le operazioni finite al centro delle investigazioni dei pm per le quali si sarebbe speso De Vito, il big pentastellato più votato alle ultime amministrative. La prima è la costruzione, nella zona dell'ex Fiera di Roma, di un campo di basket e di un polo per la musica (di interesse di Parnasi). Struttura che avrebbe visto la luce superando i limiti dei «44.000 metri cubi» posti «dalla delibera Berdini» (ex assessore della giunta Raggi, ndr). La seconda è «l'approvazione del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali di Roma Ostiense» per la quale si stava adoperando la società Lamaro Appalti (gruppo Toti). Mentre la terza è la realizzazione di un hotel nell'ex stazione Trastevere ad opera dell'imprenditore Statuto (recentemente arrestato, peraltro, per bancarotta fraudolenta). Il gip Tomaselli parla apertamente di «asservimento della funzione esercitata agli interessi» dei privati che, di volta in volta, chiedono a De Vito un interessamento. Secondo gli inquirenti, la moneta di scambio erano sostanziosi incarichi professionali di facciata al di lui «socio» Mezzacapo (95.000 da Parnasi; 110.000 dal gruppo Toti; e 24.000 dalla holding Statuto che però ne aveva promessi altri 180.000) che venivano giustificati con false fatture e «dirottati» sui conti della cognata di Mezzacapo (l'avvocato Vecchiarelli) e su quelli di due società: la Ellevi srl e la Mdl srl. La prima, amministrata da Paola Comito, madre di Mezzacapo. La seconda, invece, da Sara Scarpari, segretaria dello studio legale. La società è stata definita dagli inquirenti la «cassaforte» di De Vito e Mezzacapo per la raccolta delle tangenti (sul conto ad oggi ci sono 61.000 euro). A saldare la ricostruzione accusatoria sono state le intercettazioni telefoniche e ambientali e il racconto dello stesso Parnasi durante gli interrogatori dopo il suo arresto. Agli atti dell'inchiesta ci sono i nomi di altri politici grillini (il capogruppo Paolo Ferrara e l'assessore Daniele Frongia, il capo di gabinetto dell'assessore Montuori, Gabriella Raggi) su cui il presidente del parlamentino della capitale (chiamato l'«amico potente» nelle intercettazioni) avrebbe dovuto esercitare la propria influenza per chiudere positivamente le pratiche per le quali erano state allungate le mazzette.
È sul rapporto con Luca Parnasi però che il gip si sofferma con maggiore attenzione nell'ordinanza. Per giustificare i pagamenti allo studio Mezzacapo, il costruttore avrebbe individuato quattro incarichi professionali: il «perfezionamento di una transazione tra Acea ed Ecogena» per un vecchio contenzioso commerciale; un accordo transattivo (non formalizzato, però) tra il suo gruppo Parsitalia e Roma Capitale da 10 milioni di euro; la promessa di un incarico legale per la definizione di una causa tra Parsitalia e Banca delle Marche; e lo spostamento della sede di Acea (ieri perquisita dai carabinieri) presso il Business Park del nuovo stadio della Roma.
De Vito è il secondo presidente del consiglio comunale di Roma, dopo Mirko Coratti (Pd) per Mafia Capitale, che finisce in manette. Nel 2013, a soli 38 anni aveva vinto le Comunarie e sfidato nella corsa a sindaco l'uscente Gianni Alemanno e Ignazio Marino, arrivando terzo con il 12 per cento. Nel 2016 aveva però ceduto la candidatura a Virginia Raggi raccogliendo, comunque, il record di 6.500 preferenze. Grillino della prima ora dell'ala ultra ortodossa, De Vito è stato cacciato dal Movimento da Luigi Di Maio appena un'ora dopo il trasferimento in cella: «Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico. Anche solo essere arrivati a questo, essersi presumibilmente avvicinati a certe dinamiche, per un eletto del Movimento, è inaccettabile». Una mossa che però non è servita a stemperare l'assedio. Hanno chiesto le dimissioni del sindaco Raggi i consiglieri comunali del Pd e quelli della Lega («Brutto colpo, M5s tragga le conseguenze») e di Fdi . La diretta interessata però prova a resistere: «Nessuno sconto a chi ha sbagliato». La difficoltà politica in Campidoglio è sempre più palpabile considerate anche le difese imbarazzate e contraddittorie del ministro Toninelli («De Vito si è messo a ragionare con un certo sistema, ma lo abbiamo cacciato in 5 minuti») e della senatrice Paola Nugnes, vicinissima al presidente della Camera Roberto Fico che fa la garantista («esiste la presunzione d'innocenza per tutti»). Intanto, sui social del politico è una pioggia di insulti soprattutto per quella vecchia fotografia che lo ritrae con un cesto di arance da consegnare in galera ai consiglieri del Pd sfiorati dall'indagine su Buzzi e Carminati. De Vito, sostituito alla guida dell'Aula dal collega Enrico Stefàno e primo grillino della storia a finire in manette per corruzione, sarà interrogato questa mattina a Regina Coeli.
«Congiunzione astrale irripetibile. Ci facciamo il prepensionamento»
La conversazione dello scorso 4 febbraio, si legge nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Maria Paola Tomaselli, è il paradigma della «collaborazione» tra l'avvocato Camillo Mezzacapo e Marcello De Vito, la seconda carica più alta del Campidoglio. «Fra molti anni a venire ne parleremo davanti un piatto… ma non credo si ripianificherà», dice Mezzacapo, «cioè, difficilmente si riverifica una congiunzione astrale dove oggi ristai al governo di Roma (…) e ristai al governo del Paese». Poi il fine del sodalizio viene divulgato in maniera esplicita: «Noi Marcè dobbiamo sfruttarla sta cosa secondo me». Già perché come tutti sanno il tempo fugge, dunque: «Ci rimangono due anni» conclude Mezzacapo. Il quale subito dopo chiama Gianluca Bardelli (commerciante d'auto finito agli arresti domiciliari) e gli riferisce della precedente discussione. «Qui noi abbiamo proprio un anno buono, gli ho proprio detto guarda c'è una… adesso c'è una congiunzione astrale (…). È la cometa di Halley (un fenomeno che avviene ogni 76 anni ndr) allora», prosegue il legale, «adesso hai un anno, se adesso non facciamo un cazzo in un anno però allora voglio dire mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti». L'obiettivo ultimo è presto detto: «Ci mettiamo tranquilli con una sigarettella, un sigarozzo là, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso».
Per l'accusa Luca Parnasi - il costruttore dal quale è nata tutta l'inchiesta, esplosa nel giugno 2018 - aggancia il presidente dell'assemblea capitolina perché «promette ed affida diverse remunerative consulenze all'avvocato Mezzacapo» che opera «quale espressione dello stesso De Vito». Infatti quest'ultimo «assicura che lui provvederà a parlare dell'operazione (progetto relativo all'ex Fiera di Roma, ndr) con il capogruppo in consiglio comunale Paolo Ferrara, così da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare».
Da un incontro a tre - Parnasi, De Vito e Mezzacapo - emerge a detta dell'imprenditore edile «il solito schema che conosciamo». La solita tradizione romana: la tangente che apre e manda avanti i cantieri dell'edilizia. Come ha confermato lo stesso Parnasi nel corso degli interrogatori.
Tra le carte non poteva mancare il nome del nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «Cioè noi abbiamo un presidente di Regione», si legge in un'intercettazione tra Luca Parnasi e Claudio Toti, «che è un cacasotto terrificante!». Insomma un giudizio, senza dubbio, tranchant.
Uno dei dialoghi più interessanti tra Mezzacapo e De Vito riguarda la ridistribuzione del denaro della presunta attività illecita. Il legale parla dei conti della Mdl: «60 e rotti sarebbero nostri… ci sarebbero i 10 di capitale… che è questo qui, gli iniziali… però voglio dire». A questo punto De Vito esorta il sodale: «Va beh, ma distribuiamoceli questi». Invito respinto al mittente da Mezzacapo: «Adesso non mi far toccare niente». Il motivo? «L'opportunità», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare, «di non generare flussi di denaro durante il mandato elettorale di De Vito».
Nonostante tutte le precauzione usate, ci sono anche gli immancabili commenti sull'utilizzo dei cellulari. «Il telefono», afferma Mezzacapo, riferendosi all'architetto Pititto, «gli ho detto di non usarlo». Sconsolato Bardellli, alias «l'amico Fritz», commenta laconicamente: «Ma tu pensa te».
Mezzacapo è loquace anche dopo l'arresto di Luca Parnasi, avvenuto lo scorso 13 giugno. E sempre a Pititto dice con chi ha stretto rapporti: «Io mi interfaccio con Raggi… che è quella che è stata contattata che già seguiva queste cose». Si riferisce a Gabriella Raggi, capo segreteria dell'assessore Luca Montuori. Donna che ha «rischiato il pensionamento». «Per fortuna», prosegue Mezzacapo, «l'hanno adesso prorogata e quindi sta ancora li».
Infine l'immancabile malcelata vanteria. «(…)Ho pure persone diciamo… adesso senza che facciamo», spiega Mezzacapo, «i nomi, tanto poi li sa Giuseppe, pure i politici che ci seguono sta cosa». Ma soprattutto: «C'è interesse a farlo».
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Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale, accusato di aver preso soldi da Luca Parnasi. Luigi Di Maio: «Espulsione immediata».Nelle intercettazioni il politico e il suo sodale si rallegrano: «Non si verifica più che governiamo Paese e capitale». Poi le cautele sui soldi ricevuti: «Adesso non toccarli».Lo speciale contiene due articoli.Uno schema corruttivo fisso, un «format» lo chiama il gip Maria Paola Tomaselli. Che consentiva a imprenditori e uomini d'affari di comprare il potere di influenza politica del presidente del Consiglio comunale di Roma capitale, Marcello De Vito (M5s), attraverso consulenze fittizie al suo «procuratore», l'avvocato Camillo Mezzacapo. Da ieri, sono entrambi in carcere nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta madre sul nuovo stadio della Roma che, nel giugno scorso, ha portato all'arresto del costruttore Luca Parnasi. Oggi di nuovo indagato, ma a piede libero, insieme agli imprenditori Pierluigi e Claudio Toti e all'immobiliarista Giuseppe Statuto, e a un nutrito gruppo di figure minori (Virginia Vecchiarelli, Paola Comito e Sara Scarpari). Per l'architetto Fortunato Pititto, legato a Statuto, e per il commerciante Gianluca Bardelli, titolare di una concessionaria d'auto, sono stati disposti invece i domiciliari. Le accuse a vario titolo sono di corruzione e traffico di influenze illecite.Tre sono le operazioni finite al centro delle investigazioni dei pm per le quali si sarebbe speso De Vito, il big pentastellato più votato alle ultime amministrative. La prima è la costruzione, nella zona dell'ex Fiera di Roma, di un campo di basket e di un polo per la musica (di interesse di Parnasi). Struttura che avrebbe visto la luce superando i limiti dei «44.000 metri cubi» posti «dalla delibera Berdini» (ex assessore della giunta Raggi, ndr). La seconda è «l'approvazione del progetto di riqualificazione degli ex Mercati Generali di Roma Ostiense» per la quale si stava adoperando la società Lamaro Appalti (gruppo Toti). Mentre la terza è la realizzazione di un hotel nell'ex stazione Trastevere ad opera dell'imprenditore Statuto (recentemente arrestato, peraltro, per bancarotta fraudolenta). Il gip Tomaselli parla apertamente di «asservimento della funzione esercitata agli interessi» dei privati che, di volta in volta, chiedono a De Vito un interessamento. Secondo gli inquirenti, la moneta di scambio erano sostanziosi incarichi professionali di facciata al di lui «socio» Mezzacapo (95.000 da Parnasi; 110.000 dal gruppo Toti; e 24.000 dalla holding Statuto che però ne aveva promessi altri 180.000) che venivano giustificati con false fatture e «dirottati» sui conti della cognata di Mezzacapo (l'avvocato Vecchiarelli) e su quelli di due società: la Ellevi srl e la Mdl srl. La prima, amministrata da Paola Comito, madre di Mezzacapo. La seconda, invece, da Sara Scarpari, segretaria dello studio legale. La società è stata definita dagli inquirenti la «cassaforte» di De Vito e Mezzacapo per la raccolta delle tangenti (sul conto ad oggi ci sono 61.000 euro). A saldare la ricostruzione accusatoria sono state le intercettazioni telefoniche e ambientali e il racconto dello stesso Parnasi durante gli interrogatori dopo il suo arresto. Agli atti dell'inchiesta ci sono i nomi di altri politici grillini (il capogruppo Paolo Ferrara e l'assessore Daniele Frongia, il capo di gabinetto dell'assessore Montuori, Gabriella Raggi) su cui il presidente del parlamentino della capitale (chiamato l'«amico potente» nelle intercettazioni) avrebbe dovuto esercitare la propria influenza per chiudere positivamente le pratiche per le quali erano state allungate le mazzette.È sul rapporto con Luca Parnasi però che il gip si sofferma con maggiore attenzione nell'ordinanza. Per giustificare i pagamenti allo studio Mezzacapo, il costruttore avrebbe individuato quattro incarichi professionali: il «perfezionamento di una transazione tra Acea ed Ecogena» per un vecchio contenzioso commerciale; un accordo transattivo (non formalizzato, però) tra il suo gruppo Parsitalia e Roma Capitale da 10 milioni di euro; la promessa di un incarico legale per la definizione di una causa tra Parsitalia e Banca delle Marche; e lo spostamento della sede di Acea (ieri perquisita dai carabinieri) presso il Business Park del nuovo stadio della Roma.De Vito è il secondo presidente del consiglio comunale di Roma, dopo Mirko Coratti (Pd) per Mafia Capitale, che finisce in manette. Nel 2013, a soli 38 anni aveva vinto le Comunarie e sfidato nella corsa a sindaco l'uscente Gianni Alemanno e Ignazio Marino, arrivando terzo con il 12 per cento. Nel 2016 aveva però ceduto la candidatura a Virginia Raggi raccogliendo, comunque, il record di 6.500 preferenze. Grillino della prima ora dell'ala ultra ortodossa, De Vito è stato cacciato dal Movimento da Luigi Di Maio appena un'ora dopo il trasferimento in cella: «Mi assumo io la responsabilità di questa decisione, come capo politico. Anche solo essere arrivati a questo, essersi presumibilmente avvicinati a certe dinamiche, per un eletto del Movimento, è inaccettabile». Una mossa che però non è servita a stemperare l'assedio. Hanno chiesto le dimissioni del sindaco Raggi i consiglieri comunali del Pd e quelli della Lega («Brutto colpo, M5s tragga le conseguenze») e di Fdi . La diretta interessata però prova a resistere: «Nessuno sconto a chi ha sbagliato». La difficoltà politica in Campidoglio è sempre più palpabile considerate anche le difese imbarazzate e contraddittorie del ministro Toninelli («De Vito si è messo a ragionare con un certo sistema, ma lo abbiamo cacciato in 5 minuti») e della senatrice Paola Nugnes, vicinissima al presidente della Camera Roberto Fico che fa la garantista («esiste la presunzione d'innocenza per tutti»). Intanto, sui social del politico è una pioggia di insulti soprattutto per quella vecchia fotografia che lo ritrae con un cesto di arance da consegnare in galera ai consiglieri del Pd sfiorati dall'indagine su Buzzi e Carminati. De Vito, sostituito alla guida dell'Aula dal collega Enrico Stefàno e primo grillino della storia a finire in manette per corruzione, sarà interrogato questa mattina a Regina Coeli.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/m5s-nei-guai-a-roma-mister-legalita-in-cella-per-mazzette-sul-nuovo-stadio-2632293966.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="congiunzione-astrale-irripetibile-ci-facciamo-il-prepensionamento" data-post-id="2632293966" data-published-at="1765498049" data-use-pagination="False"> «Congiunzione astrale irripetibile. 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Il quale subito dopo chiama Gianluca Bardelli (commerciante d'auto finito agli arresti domiciliari) e gli riferisce della precedente discussione. «Qui noi abbiamo proprio un anno buono, gli ho proprio detto guarda c'è una… adesso c'è una congiunzione astrale (…). È la cometa di Halley (un fenomeno che avviene ogni 76 anni ndr) allora», prosegue il legale, «adesso hai un anno, se adesso non facciamo un cazzo in un anno però allora voglio dire mettiamoci il cappelletto da pesca, io conosco un paio di fiumetti». L'obiettivo ultimo è presto detto: «Ci mettiamo tranquilli con una sigarettella, un sigarozzo là, con la canna e ci raccontiamo le storie e ci facciamo un prepensionamento dignitoso». Per l'accusa Luca Parnasi - il costruttore dal quale è nata tutta l'inchiesta, esplosa nel giugno 2018 - aggancia il presidente dell'assemblea capitolina perché «promette ed affida diverse remunerative consulenze all'avvocato Mezzacapo» che opera «quale espressione dello stesso De Vito». Infatti quest'ultimo «assicura che lui provvederà a parlare dell'operazione (progetto relativo all'ex Fiera di Roma, ndr) con il capogruppo in consiglio comunale Paolo Ferrara, così da avere dalla loro parte la maggioranza consiliare». Da un incontro a tre - Parnasi, De Vito e Mezzacapo - emerge a detta dell'imprenditore edile «il solito schema che conosciamo». La solita tradizione romana: la tangente che apre e manda avanti i cantieri dell'edilizia. Come ha confermato lo stesso Parnasi nel corso degli interrogatori. Tra le carte non poteva mancare il nome del nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti. «Cioè noi abbiamo un presidente di Regione», si legge in un'intercettazione tra Luca Parnasi e Claudio Toti, «che è un cacasotto terrificante!». Insomma un giudizio, senza dubbio, tranchant. Uno dei dialoghi più interessanti tra Mezzacapo e De Vito riguarda la ridistribuzione del denaro della presunta attività illecita. Il legale parla dei conti della Mdl: «60 e rotti sarebbero nostri… ci sarebbero i 10 di capitale… che è questo qui, gli iniziali… però voglio dire». A questo punto De Vito esorta il sodale: «Va beh, ma distribuiamoceli questi». Invito respinto al mittente da Mezzacapo: «Adesso non mi far toccare niente». Il motivo? «L'opportunità», si legge nell'ordinanza di custodia cautelare, «di non generare flussi di denaro durante il mandato elettorale di De Vito». Nonostante tutte le precauzione usate, ci sono anche gli immancabili commenti sull'utilizzo dei cellulari. «Il telefono», afferma Mezzacapo, riferendosi all'architetto Pititto, «gli ho detto di non usarlo». Sconsolato Bardellli, alias «l'amico Fritz», commenta laconicamente: «Ma tu pensa te». Mezzacapo è loquace anche dopo l'arresto di Luca Parnasi, avvenuto lo scorso 13 giugno. E sempre a Pititto dice con chi ha stretto rapporti: «Io mi interfaccio con Raggi… che è quella che è stata contattata che già seguiva queste cose». Si riferisce a Gabriella Raggi, capo segreteria dell'assessore Luca Montuori. Donna che ha «rischiato il pensionamento». «Per fortuna», prosegue Mezzacapo, «l'hanno adesso prorogata e quindi sta ancora li». Infine l'immancabile malcelata vanteria. «(…)Ho pure persone diciamo… adesso senza che facciamo», spiega Mezzacapo, «i nomi, tanto poi li sa Giuseppe, pure i politici che ci seguono sta cosa». Ma soprattutto: «C'è interesse a farlo».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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