
Il gruppo che controlla i marchi Alberta Ferretti, Moschino e Pollini ieri ha perso il 43,3%, toccando il minimo storico. La caduta dopo l’annuncio della richiesta di accesso alla composizione negoziata della crisi d’azienda.Il lusso italiano sembra un grande armadio da svuotare: ogni tanto cade un vestito, una borsa, un marchio. Questa volta tocca ad Aeffe, la maison che ha fatto sfilare sulle passerelle il sogno di Alberta Ferretti e la follia creativa di Moschino. Adesso, però, il sogno rischia di finire in saldo. Il titolo del gruppo che controlla i marchi Alberta Ferretti, Moschino e Pollini ha perso il 43,3% a fine seduta toccando un nuovo minimo storico a 0,25 euro. A innescare le vendite l’annuncio dell’azienda di chiedere l’accesso alla composizione negoziata della crisi d’impresa. Una procedura che serve alla protezione dai debitori sul modello dello «Chapter 11» del diritto Usa. In realtà ultimo tentativo prima di bussare alla porta del tribunale fallimentare. Cinquecento dipendenti su 600 già in cassa integrazione: un’azienda che fino a ieri vestiva dive e star internazionali oggi non ha più visibilità sul futuro. Una parabola che dice molto più di qualsiasi statistica: il lusso italiano è fragile, vulnerabile e - soprattutto - in vendita.La storia di Aeffe è anche una saga familiare. Da una parte Alberta, la stilista di abiti da sogno, da tappeto rosso. Dall’altra Massimo Ferretti, il fratello imprenditore. Uniti in un impero della moda, divisi poi da litigi e rancori che hanno portato alla spartizione dei beni come in un divorzio grigio. Lei con la creatività, lui la gestione. A luglio dell’anno scorso i due fratelli hanno diviso il patrimonio. La cassaforte Ffh (Fratelli Ferretti Holding) ha chiuso i battenti e il 61% di Aeffe è stato diviso in parti uguali fra i due fratelli Alberta Ferretti (con la società Colloportus) e Massimo Ferretti (con la società FQuattro) Risultato: un’azienda senza un’anima forte a guidarla. A settembre dell’anno scorso Alberta lascia la direzione creativa. I successori non sono all’altezza. I marchi si perdono. I conti precipitano. Nel 2024 i ricavi si sono fermati a 251 milioni, in calo del 21,2% rispetto ai 319 milioni del 2023. Nel primo trimestre del 2025 il fatturato è sceso ulteriormente rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso a 100 milioni (-27,8% sul 2024) e la perdita netta di gruppo è salita a 28,5 milioni (da -20,4 milioni), nonostante un miglioramento dell’indebitamento netto a 95,7 milioni (contro i 135,2 milioni di euro al 30 giugno 2024) e un patrimonio netto di 72 milioni. Ed eccoci al punto dolente: il made in Italy, da decenni motore di fascino globale, rischia di diventare l’outlet preferito dei colossi stranieri. Perché i marchi internazionali non vedono crisi: hanno i capitali, hanno i mercati, hanno la potenza di fuoco. L’Italia ha la creatività, certo, ma non basta più. Senza capitali, anche il talento finisce in saldo.Il paradosso è che proprio mentre Aeffe si arrampica sugli specchi per non farsi rottamare, nel cuore di Milano si muove un gigante. E non uno qualunque: Giorgio Armani. Il re Giorgio, colui che per decenni aveva respinto qualsiasi corteggiamento, chiudendo la porta in faccia a banche d’affari e multinazionali, ha lasciato scritto nel testamento che il futuro del gruppo passerà da un compratore straniero. Quasi certamente francese. E così, a poche settimane dalla sua scomparsa, la macchina si è già messa in moto.Reuters lo ha scritto, fonti lo hanno confermato: ci sono contatti con L’Oréal, partner storico per i profumi. Colloqui ancora preliminari, esplorativi, sotto la regia discreta di Rothschild. E qui la domanda è inevitabile: dopo Armani, chi resta? Quale baluardo del lusso tricolore potrà ancora resistere alla tentazione - o alla necessità - di vendere? Gucci è già francese. Valentino ha fatto la valigia anni fa. Fendi, Bulgari, Loro Piana: tutti parcheggiati nel garage di Lvmh. Persino Ferrari - che lusso non è, ma icona sì - ha sede sociale ad Amsterdam. Restano pochi marchi, ma il destino sembra scritto: l’Italia crea, il mondo compra.Certo, i comunicati parlano di «visioni comuni», di «partner strategici», di «orizzonti di lungo periodo». Ma la realtà è più semplice e meno patinata: senza soldi, nessun marchio può reggere la competizione globale. E così le nostre maison finiscono in saldo, mentre i colossi francesi o americani allungano le mani.La fotografia è crudele ma reale: da Rimini a Milano, il made in Italy non detta più legge, la subisce. Aeffe si salva (forse) con la composizione negoziata. Armani si apre (finalmente) a un socio industriale. Il resto è un rosario di cessioni che continueremo a recitare nei prossimi mesi.E allora la morale è questa: il lusso italiano, che per decenni ha vestito il mondo, oggi rischia di diventare lui stesso un abito logoro, appeso nell’armadio di qualcun altro. Il sipario si abbassa, ma non è la fine della sfilata: è solo l’inizio del grande saldi di stagione.E la prima, piccola ma storica fetta di Armani è già pronta per essere servita al banchetto globale.
Cibo italiano farlocco
Il market di Bruxelles vende imitazioni delle nostre specialità. Come la carbonara (in vasetto). Il ministro: «Subito verifiche».
Verrebbe da dire: Ursula, spiegaci questa. Perché nei palazzi dell’Ue si spaccia una poltiglia in vasetto definita Carbonara che è a metà strada tra un omogeneizzato e una crema da notte? Va bene che la baronessa von der Leyen pecca per abitudine in fatto di trasparenza - dai messaggini sui sieri anti-Covid con Albert Bourla della Pfizer costati una valanga di miliardi fino alla corrispondenza con i generali tedeschi, senza contare il silenzio sulla corruzione in Ucraina - ma arrivare a vendere nel «suo» supermarket il falso cibo italiano pare troppo. Anche se sappiamo da tempo che l’Ue è tutta chiacchiere e distintivo, in questo caso falso.
Il Parlamento europeo (iStock). nel riquadro, la copertina del libro di Gabriele Guzzi
Alcuni esponenti del centrodestra hanno cambiato registro: parlano come Elsa Fornero.
Eurosuicidio è il titolo di un gran bel libro scritto da Gabriele Guzzi con prefazione di Lucio Caracciolo sull’impatto dell’Unione europea rispetto alle crisi in corso. Un’analisi severa e puntuale, dove i dati reggono le tesi che conducono all’arrivo: l’Europa non è in crisi, è la crisi.
La Commissione rivede al ribasso la crescita dell’Italia nel 2025 (+0,4%) e gli «strilloni» anti-governo ghignano: «Fanalino». Ma le stime dei burocrati sono spesso fallaci. E il nostro Pil pro capite supera quelli della Germania e della Francia del debito.
Tutti a parlare del fatto che le previsioni di crescita per il 2025 relegano l’Italia a fanalino di coda. Ah, le previsioni arrivano dalla Commissione europea. Che quattro volte l’anno ci offre le sue analisi sul passato e le sue previsioni per il futuro. A febbraio sono pubblicate le previsioni invernali. A maggio quelle di primavera. A settembre quelle estive. E a novembre quelle di autunno. E sono queste quelle che molti quotidiani italiani hanno commentato ieri. Il faro era puntato sulla bassa crescita. Che è una realtà indiscutibile.
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Francesco Saverio Garofani, consigliere del presidente della Repubblica per gli Affari del Consiglio Supremo di Difesa, in un colloquio con il Corriere della Sera confessa: «Era una chiacchierata in libertà tra amici» e convinto di «non aver mai fatto dichiarazioni fuori posto, mai esibizioni di protagonismo» aggiunge di aver «letto e riletto Belpietro, senza capire in cosa consisterebbe il complotto».





