2020-09-12
L’unico puzzone capace di fare bella figura
Al re dei formaggi trentini, conosciuto come «spretz tzaori» e nato quasi per caso per sopravvivere ai disastri della grande guerra, fu cambiato nome, associandolo all'intenso odore. Anche nei documenti ufficiali. La componente artigianale è ancora dominante.Ci sono storie che a volte non è facile descrivere perché solo a leggerne il titolo uno dei due potenziali lettori potrebbe già sentirsi spinto ad andare oltre. Proporre un puzzone a tavola, poi, non rientra nei canoni indicati da monsignor Della Casa. Eppure anche Cenerentola, a suo tempo, divenne principessa. Il puzzone di Moena è uno dei migliori ambasciatori delle golose realtà dolomitiche. Il nome nato per caso, la tradizione frutto del paziente lavoro dei valligiani quando di ogni dono della natura bisognava far tesoro. Nella realtà valligiana il pascolo era fonte di sostegno per il resto dell'anno. Dal latte si cercava di monetizzare subito il burro, alimento indispensabile non solo nella domestica realtà quotidiana, ma anche nel mercato di scambio. Il formaggio realtà che si andava a conservare per il lungo inverno. Nella val di Fassa qualche malgaro, dopo i disastri seminati dalle trincee della grande guerra, cominciò a industriarsi. Scoprì che, potendo lavare periodicamente le forme di cacio con acqua e sale, queste iniziavano «a sudare», cioè affinavano la materia prima sotto la crosta e, venendo periodicamente ripulite, eliminavano sul nascere potenziali contaminazioni batteriche. In sostanza si ottimizzava la resa di quanto poteva offrire la stalla. Non solo, ma quando si apriva la forma, a parte la sensazione all'olfatto diversa dal solito, quanto andava sul piatto, generalmente patate e polenta, si arricchiva di un gusto diverso, più intrigante e, magia, ci si saziava consumandone meno. La quadratura del cerchio. Cominciarono a chiamarlo «nostrano». Poi scoprirono che, tra valli vicine, Fiemme e Primiero, i nostrani si assomigliavano parecchio. Li univano i pascoli d'altura, San Pellegrino, Lagorai, Val Venegia, Paneveggio, con l'acqua e la flora sostanzialmente simili. Fattrici le pazienti bovi, di razza grigio alpina o bruna, quelle che ci ha ben descritto nei suoi dipinti Giovanni Segantini, che da queste parti era di casa. Negli anni Settanta del Novecento la fama dei nostrani comincia a varcare i confini valligiani. Se ne parla anche via etere, con il battesimo radiofonico a una trasmissione della Rai regionale trentina. Nel dialogo con gli allevatori che presentavano orgogliosi il loro prodotto, al conduttore di allora scappò quasi per scherzo l'appellativo di «puzzone» riferito al carneade caseario uscito dall'ombra. In realtà il nome originale era intraducibile per i non residenti. «Spretz tzaori», che in ladino vuol dire formaggio saporito, che sta a puzzone come carnivoro a vegetariano. La spiegazione conseguente. Spretz equivale a spressa, cioè la massa casearia rappresa, pressata e spremuta dal grasso, ovvero il frutto della prima lavorazione. Ne rimaneva un prodotto povero di grassi e, quindi, poco saporito. L'intuizione del lavaggio periodico, nata probabilmente per caso più che per necessità, riuscì a favorire lo sviluppo di profumi intensi e molto caratteristici, tanto da identificare il nuovo nato non tanto all'olfatto, ma al gusto. Il termine «puzzone» iniziò a diventare identificativo del prodotto. Tanto da comparire poi anche nei documenti ufficiali, ad esempio quando, nel 1984, vinse la medaglia di bronzo al concorso internazionale dei formaggi di montagna, a Grenoble. Il resto conseguente. Le tre valli fecero squadra e ora sono quattro i caseifici sociali che danno la garanzia alle tredicimila forme prodotte annualmente. Puzzone più di nome che di fatto, anche perché chi mette veramente a dura prova le nari olfattive degli spiriti più delicati sono i formaggi erborinati, pensiamo al nostro gorgonzola, al casu marzu sardo, per non parlare del cabrales delle Asturie o del camembert d'oltralpe, dove l'iniezione dei principi attivi è esterna. Con il puzzone tutto è assolutamente naturale. A cominciare dalla rigida disciplinare che lo ha visto premiato con la Dop nel 2013 e il plus di rientrare nella cerchia dei Presidi slow food, laddove il marchio M, impresso sulla forma, testimonia la loro origine specifica in maghe selezionate. Non solo la dieta d'alpeggio è rigorosamente controllata ma anche, una volta tornati a valle, le balle di fieno devono essere conservate come un tempo, evitando imballaggi di nylon che, in qualche modo, potrebbero alterare i delicati equilibri di natura che la tradizione ha conservato. Vi sono altre caratteristiche che lo rendono originale. Rientra nella categoria dei formaggi a pasta lavata, tecnica molto diffusa in Francia, dove però il prodotto finale è a pasta molle. Il nostro formaggio alpino, invece, è a pasta dura. Non solo. Per la tecnica descritta, all'interno della forma, si favorisce lo sviluppo dell'acido propionico, responsabile delle sue caratteristiche organolettiche. È lo stesso principio attivo che caratterizza anche fontina ed emmenthal, altre eccellenze delle valli alpine, ma è proprio la differenza della flora delle specifiche realtà che ne distingue poi l'unicità anche se, dei tre, il puzzone è quello in cui la componente artigianale è ancora dominante. Al dettaglio lo si ritrova in quattro varianti, a seconda della stagionatura, che avviene su di un'altra eccellenza di queste valli, le tavole di legno di abete rosso, che a Paneveggio ha il suo regno, con la foresta dei violini, in quanto, da sempre, materia ricercata dei liutai per violini e violoncelli. Abete rosso quindi in grado di accordare le corde vocali dei golosi. Dopo 90 giorni si ha la variante fresca, caratterizzata da delicatezza di profumi, sentori di burro e fieno di montagna. Per ottenere quello definito di malga è consigliabile un affinamento dai tre ai sei mesi. Si può anche andare oltre. Con lo stagionato, dal sapore intenso e complesso fino allo stravecchio, dieci mesi, da meditazione, assieme a un bel calice di lagrein, il rosso delle valli trentine. In cucina gli abbinamenti possono essere i più svariati. Come da tradizione, con la polenta, versato fuso o immesso a dadini, abbinato in maniera concia, con salsicce di cervo o maiale. Un grande classico con i canederli, sorta di gnocchi di montagna, anche qui abbinato all'impasto prima e poi versato sopra fuso, in abbinata con il gemello suino, ovvero lo speck. C'è chi si diverte a gemellarlo con il risotto, torte salate, finanche a entrare protagonista in tradizioni sudiste, come la pizza, assieme allo speck. Altro gemellaggio valligiano con la tosella, la regina del Primiero, un formaggio fresco che va in lambada golosa con il fratello maggiore in svariati modi. Anche i mestoli stellati non hanno … la puzza al naso nel trattare questa piccola pepita della loro terra. Ad esempio a Cavalese Alessandro Gilmozzi, un passato da Alain Ducasse e Ferran Adrià, spadella dei golosi fagottini di polenta concia e puzzone con chips di speck e cavolo cappuccio. Non è da meno il suo collega Paolo Donei che, a Moena, dopo un percorso tra i grandi classici, termina in gloria con un gelato al puzzone. Puzzone quindi che, a onta del nome un po' burlone che gli hanno affibbiato via etere, ha saputo resistere nel tempo, certificando una sua identità e il suo valore, al piatto, tanto che così lo ha magistralmente definito Bernardo Pasquali, una sottile e ironica penna gourmet: «C'è puzza e puzza, ma quella del puzzone di Moena è l'unica che si può portare in casa facendo sempre bella figura». Per chi volesse approfondire c'è anche manifestazione dedicata, ovviamente il Festival del Puzzone, dove potete scatenarvi senza timori di calorie, considerato che vi propongono un trekking e pure un E-bike tour tra le malghe puzzone giusto per smaltire al meglio il tutto.