2021-10-10
Lungo il cammino si incontrano ruderi carichi di storie che vanno raccontate
Perdersi nei sentieri di montagna significa imbattersi in ciò che resta di antiche dimore, riconquistate dalla vegetazioneUn tempo la natura era…Quel che ricordo delle camminate in montagna, ora che per varie ragioni ne posso fare di meno, sono le distanze. E le abitazioni diroccate. Talora quando perdi la strada e inizi a girovagare senza meta, senza dover raggiungere quel determinato luogo, quel grande albero o quella baita, si incontrano abitazioni dimenticate. Stanno lì, disarmate, senza porte, finestre scomparse, tetti forati o addirittura vividi soltanto in un gioco ci proiezioni della fantasia che li sorreggono per pochi istanti. Magari dentro riesci a spiare, ad allungare qualche passo prima di sbattere le braccia contro i rami di un albero cresciuto prepotentemente in soggiorno. E magari c’è ancora l’intonaco su una parete, sebbene davvero duro, sporco, qualcuno ci ha anche scritto sopra, diversi anni fa. Le date talvolta sono incredibili: 4 marzo 1976, 8 luglio 2003, 14 gennaio 1967. Cosa accadeva al mondo il 4 marzo del 1976? E l’8 luglio del 2003? Il 14 gennaio 1967 non ero nemmeno nato, i miei genitori non si erano ancora conosciuti e men che meno amati. Mio padre a quel tempo era un ragazzino di 16 anni che andava già a lavorare a tempo pieno da quattro anni, la mattina si svegliava al canto del gallo, faceva colazione coi suoi fratelli e mia nonna, chissà poi che colazione, mica latte e biscotti, pane raffermo e sì, forse il latte. Poi si bardava, a gennaio fa freddino fuori, e se le strade non erano troppo cariche di neve e di ghiaccio inforcava la bicicletta e partiva per il paese accanto, camminando nel buio su una strada lunga e spersa nella nebbia e tra i gelsi spogli e cavernosi. Arrivava in falegnameria dove lo attendeva un giorno pieno di rumore e di lavoro. Mia madre aveva 15 anni e mezzo, poco più, era ancora una ragazzina spensierata che non aveva certo potuto continuare gli studi, la sua famiglia aveva scelto di mandarla a imparare un lavoro, ma non credo fosse una vita così opprimente. La bassa bergamasca allora era ancora una terra avara, ma si viveva nel semplice, nell’essenziale. Ma torniamo alle nostre dimore sventrate, alle foreste che se le stanno riprendendo dopo secoli di famiglie numerose che cercavano di barcamenare riscaldandosi la sera davanti al fuoco accesso nel camino o seduti accanto alla stufa di ghisa dove cuoceva la cena. Chi nasceva in questi orizzonti trattenuti sapeva che avrebbe lavorato tutta la vita, dai una mano, datevi una mano, aiuta papà, porta questo alla mamma, vai a prendere la legna, scendi in paese a fare questa compera, mentre torni da scuola fai questa commissione; sui banchi di scuola durante la settimana e a lavoro nell’orto o nei campi o nel bosco nei giorni e nelle ore rimanenti. Non esisteva la scelta, almeno finché non si raggiungeva la maggiore età. Potevi anche andartene ma non era facile poiché le famiglie facevano conto su quel che avresti potuto portare a casa. Andare a Parigi? A far che cosa? A studiare? A fare l’artista a Montmartre? A cercare fortuna e amore? Oggi ci sembra quasi scontato, anzi, lo è diventato, ma fino a pochi decenni fa era tutta fantasia. Chi ci andava o era disperato e allora ce lo spediva la famiglia, oppure non sarebbe mai più ritornato al paese. Quel mondo che è durato secoli e che ancora dura in altre geografie, l’Afghanistan ad esempio, oggi lo guardiamo di nuovo come se fosse un esperimento in via di fallimento, e forse lo sarà, forse le cose cambieranno molto presto, chissà, eppure lì la società non pare essere così diversa da quella che stiamo accarezzando questa domenica. E non credo sia molto diverso nei paesi andini del Sudamerica, in diversi stati africani, nelle isole del Pacifico. E la natura in tutto questo? La conservazione della natura? Che fine fa? C’è chi si occupa di salvare, di contenere, di non sperperare? Oppure le società sono così rannicchiate in sé stesse da non poter devastare così a fondo e in vastità quel mondo selvatico là fuori? Mi è ripassato tra le mani un romanzo che lessi alcune stagioni fa, alcuni passaggi mi lasciano sempre a pensare: Kurt di Koppigen (edito da Adelphi) del novelliere svizzero Jeremias Gotthelf (1797-1854). Ecco come l’autore definisce lo stato di natura di alcuni secoli prima della sua presenza, vale per la Svizzera ma direi anche per gli altri paesi continentali: «Non i monti soltanto erano selvaggi allora, ma anche la pianura; esigui erano i coltivi, e ancor più esigue le messi; tanto più vasta era la foresta, tanto più copiose erano le acque, che spesso non si sarebbe saputo come definire: se lago o palude, rivo o ruscello. Molta selvaggina popolava le foreste, pesci giganteschi nuotavano nelle acque; chi fosse il padrone del paese, se l’uomo o l’animale, non era ancora deciso: quante volte l’uomo distruggeva la tana dell’animale, infatti, altrettante l’animale distruggeva le colture dell’uomo». In un rovesciarsi continuo di priorità e sopravvivenza preservare la natura dall’uomo appare del tutto incoerente, assolutamente inutile, non richiesto, nemmeno opportuno. E infatti nell’antichità la conservazione non era affatto un problema, si pensi all’arte romana che non si poneva la questione per noi invece cruciale della falsificazione: andavi ad Atene e vedevi una statua che ti piaceva? Tornavi a Roma e la realizzavi, uguale uguale, all’incirca, non era una copia, non era un falso, era una statua di gusto classico. Pensiamo invece noi oggi quanto siamo ossessionati dal discorso dell’originalità a tutti i costi, dalla mistificazione che si ha del diritto di autore, della sensibilità assoluta dell’artista, eccetera eccetera. Allora chi avrebbe mai pensato che i lupi andavano protetti, che in Italia ci sarebbe stato un tempo in cui sarebbero stati addirittura estinti? I mari, così vasti, chi mai avrebbe potuto mettere a repentaglio la sopravvivenza dei cetacei e di tutti i grandi mostri marini? Chi mai avrebbe pensato che sarebbe stato urgente recintare pezzi di montagna, di vallate, di foreste per evitare che venissero tutte scavate, abbattute, sfruttate? Su, non scherziamo! Eppure oggi la scena è tutta diversa.
Giorgia Meloni al Forum della Guardia Costiera (Ansa)
«Il lavoro della Guardia Costiera consiste anche nel combattere le molteplici forme di illegalità in campo marittimo, a partire da quelle che si ramificano su base internazionale e si stanno caratterizzando come fenomeni globali. Uno di questi è il traffico di migranti, attività criminale tra le più redditizie al mondo che rapporti Onu certificano aver eguagliato per volume di affari il traffico di droga dopo aver superato il traffico di armi. Una intollerabile forma moderna di schiavitù che nel 2024 ha condotto alla morte oltre 9000 persone sulle rotte migratorie e il governo intende combattere. Di fronte a questo fenomeno possiamo rassegnarci o agire, e noi abbiamo scelto di agire e serve il coraggio di trovare insieme soluzioni innovative». Ha dichiarato la Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni durante l'intervento al Forum della Guardia Costiera 2025 al centro congresso la Nuvola a Roma.
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