
La storica femminista: «La legge sottopone le opinioni all'arbitrio delle toghe ed esige il rispetto delle categorie anziché delle persone. L'errore? Volere trasformare i desideri in pretese. Dal Vaticano nessuna ingerenza».Storica, professoressa di storia contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, Lucetta Scaraffia è membro del Comitato nazionale di bioetica. Da anni scuote l'establishment accademico e culturale per le sue posizioni tanto acute, quanto refrattarie ai dogmi del pensiero unico. Femminista, ma anche cattolica, risoluta oppositrice di certe derive dell'ideologia arcobaleno. Qualche giorno fa, ha suscitato vivo interesse un suo editoriale sul Quotidiano Nazionale, in cui difendeva il diritto della Chiesa d'intervenire sulla delicata e divisiva questione del ddl Zan.Professoressa, erano anni che non si sentivano più lamentele sull'«ingerenza» del Vaticano negli affari politici italiani. Crede che la nota verbale sulla legge contro l'omotransfobia fosse legittima?«Sì, perché era una nota di tipo giuridico e diplomatico. E aveva a che fare solo ed esclusivamente con il rapporto tra due Stati. Qualcuno, invece, l'ha erroneamente scambiata per una nota di tipo morale».È un problema il fatto che si stia cercando di conferire sanzione normativa a una concezione filosofica e antropologica - l'identità di genere?«Sì, secondo me è un problema. Soprattutto se poi vengono puniti quelli che non condividono quest'ideologia. Perché, semmai, è proprio la libertà di pensiero ed espressione a costituire la base di tutti i diritti».Esiste, quindi, il pericolo che, in virtù del ddl Zan, si sottopongano le opinioni a una sorta di scrutinio giudiziario?«A mio avviso, sì. Questo pericolo esiste».In una recente intervista, lo stesso Alessandro Zan, nel tentativo di sottrarre la legge a questa obiezione, ha praticamente dettato al sacerdote ciò che può dire e non può dire durante un'omelia.«Non ricordo questo episodio in particolare, ma è una cosa che non mi meraviglia».No?«Nell'articolo 4 del ddl Zan, c'è una clausola che ribadisce la punibilità delle opinioni che integrerebbero il “concreto pericolo" che si compiano discriminazioni o violenze».Quindi?«Decidere cos'è che incita alla violenza e cosa no rimane una prerogativa del magistrato. E questo è molto pericoloso».Sembra che, nonostante le forti resistenze del Pd di Enrico Letta, si stia aprendo uno spiraglio di mediazione politica. Italia viva, ad esempio, propone di convergere su un testo che elimini i riferimenti all'identità di genere, cassi l'articolo 4 e, quanto alla giornata sull'omotransfobia, che andrebbe celebrata nelle scuole, ribadisca l'autonomia degli istituti. Crede sia un compromesso accettabile?«Mi sembra di sì, perché si eliminerebbero i rischi più gravi. Dopodiché, io ho proprio una posizione diversa».Cioè?«Ho un'idea antica: penso che ai bambini si debba insegnare il rispetto dell'altro in generale: di ogni persona, di ogni essere umano».E invece, cosa si cerca di fare?«Qualcuno è convinto che si debba insegnare il rispetto per categorie: i disabili, gli omosessuali... Alcune categorie sono protette e vanno rispettate. E gli altri? La trovo un'idea profondamente sbagliata».I critici vanno oltre: sostengono che sia in atto un tentativo di manipolare i bambini e di conculcare la libertà educativa delle famiglie. Sono ansie giustificate?«Guardi, tutto sommato credo che nella realtà quotidiana queste cose non succedano così di frequente. Quelle sono posizioni ideologiche che, per fortuna, hanno poco a che fare con la realtà delle scuole».Esiste l'ideologia gender? Chi ne propugna i principi, al contempo, lo nega.«Esistono tante forme di questa ideologia. E alcune sono anche forme positive di attenzione all'appartenenza a un genere sessuale».Ad esempio?«Io sono una storica. Una volta si faceva storia senza distinguere gli uomini dalle donne. Adesso, oltre che studiare gli avvenimenti di cui erano protagonisti gli uomini, ci si deve interrogare anche su quale fosse la condizione femminile in quel dato periodo. Mi sembra buono e giusto».La «diversità» è diventata una specie di dogma. A ben vedere, però, promuovere l'annullamento delle differenze sessuali significa scivolare proprio dalla «diversità» alla «fluidità». Non sono due concetti antitetici?«Sì, sono due cose diverse. Ma anche in questo caso, ho la sensazione che siano elaborazioni teoriche che nella realtà della vita non hanno alcuna presa. Sono posizioni ideologiche a cui nessuno presta veramente attenzione».Nel suo editoriale sul Qn difendeva - cito - «una verità che è sotto gli occhi di tutti», ovvero, «che i desideri trovano un limite nella realtà». Intende dire che siamo esposti a una specie di dittatura del desiderio?«Senz'altro: ne sono convinta».E da cosa scaturisce?«È una forma tipica del nostro tempo. I desideri sono sollecitati continuamente per via del consumismo. E questa continua sollecitazione ci convince che abbiamo diritto a tutto».È da questo paradigma filosofico che originano anche pratiche come l'utero in affitto?«Sì. Tra l'altro, io sono una delle più impegnate contestatrici dell'utero in affitto. E ci ho scritto un libro contro, La fine della madre».Riflettiamoci su un secondo. I gay pride invocano il libero accesso a tutte le tecnologie riproduttive. In Francia è stata appena approvata una legge che consente la fecondazione eterologa a coppie lesbiche e donne single. In Spagna, la ley trans ha ridotto mamma e papà a persona «incinta» e individuo «non gravido». Non le pare sia in atto una rimozione della figura del padre?«Al contrario: a me sembra che si tratti piuttosto di una cancellazione della figura della madre».Perché?«Quello della madre diventa una specie di lavoro pagato, con uno spezzettamento tra la donna che vende gli ovuli, quella che vende l'utero e quella che paga per avere il bambino. È soprattutto una distruzione della figura della mamma».Ma chi è che spinge per quello che, a questo punto, è un vero e proprio sconvolgimento della natura umana? E perché?«La logica sottesa è sempre quella: la pretesa di avere tutto ciò che si desidera, anche quando non si è donne. È la volontà di appropriarsi della specificità delle donne: il loro potere generativo. E poi c'è un altro aspetto».Quale?«Mi sembra che l'obiettivo finale sia quello di distruggere le identità sessuali».In che modo?«Siccome l'identità femminile si fonda sulla maternità, se uno fa a pezzi la maternità, distrugge anche la femminilità».Si può trovare un punto di equilibrio tra l'ascolto del disagio di chi non si identifica con il proprio genere sessuale biologico e la necessità di difendere, in ogni caso, un'elementare verità antropologica, cioè che esistono uomini e donne?«Si può trovare benissimo. Basterebbe lasciare ogni persona libera di scegliere il comportamento sessuale che preferisce, senza che questo debba avere a che vedere con la sua identità sessuale. Al netto di quei casi patologici di confusione dell'identità sessuale, che sono rarissimi».Un'altra questione dibattuta è la transessualità infantile. Siamo su una china pericolosa?«Come sa, faccio parte del Comitato nazionale di bioetica e abbiamo scritto un documento proprio su questo tema: le cure ormonali sui ragazzi giovani che percepiscono un'incertezza quanto alla loro identità sessuale».Chiedete prudenza nei loro confronti?«Di più: fino alla maggiore età siamo contrari a queste terapie. Ma io stessa, nella mia esperienza personale, ho notato che c'è una preoccupante tendenza a intervenire molto precocemente con cure ormonali che possono danneggiare gravemente il loro sviluppo e la loro personalità».Ci sono commentatrici femministe secondo le quali il mondo Lgbt è misogino. È vero?«Credo di sì».Perché?«Be', in fondo, quella intorno alla maternità è una lotta per il potere, che è sempre costata molto alle donne - è costata l'oppressione. Chi non ha la capacità di generare la vita, cerca di toglierla anche a chi ce l'ha».Le persone Lgbt hanno sicuramente patito discriminazioni. Oggi, però, si stanno trasformando in soggetti prevaricatori, peraltro con l'appoggio del cosiddetto woke capitalism, del potere politico e dei media?«Questo è successo sempre nella storia. Non mi stupisce per niente».Le due cose, però, sono in contraddizione: se è perseguitata, una minoranza non può avere dalla sua il capitale, il potere politico e il mainstream mediatico.«Il fatto è che questi gruppi non accettano che la mentalità delle persone abbia bisogno di tempi lunghi per cambiare. La gente non cambia a comando. Se costoro usano quelle leve per forzare i cambiamenti, è perché non riescono a tollerare che per ottenerli serva del tempo».
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





