2023-08-21
Luca Ricolfi: «Sul clima come sul Covid esprimere dubbi è vietato»
Il sociologo: «Chi sostiene tesi contrarie al potere dominante viene subito demolito, anche se magari è un premio Nobel. L’utero in affitto? Interessa una minoranza».Luca Ricolfi, editorialista, sociologo, nonché docente di analisi dei dati all’Università di Torino. Mi tengo alla larga dal caso Vannacci. Perché abbiamo tantissimi argomenti. A partire dal salario minimo. Lei si è dimostrato moderatamente scettico o sbaglio?«Io sono scettico sul salario minimo “legale”, non su un intervento contro le situazioni di sfruttamento. Nel mio libro La società signorile di massa ho denunciato la presenza di una “infrastruttura para-schiavistica” di 3,5 milioni di addetti. Figuriamoci se non sono favorevole a interventi che aggrediscano queste situazioni. Il difficile è trovare un modo di intervenire che non sia controproducente». Trova sensato coinvolgere il Cnel in questa vicenda, come ha deciso di fare il premier?«In realtà il Cnel si è già espresso, ma lo ha fatto con una relazione alquanto generica, e fondamentalmente scettica sul salario minimo legale. Temo che, per la sua composizione, non sarà in grado di fare una proposta chiara e direttamente applicabile. Alla fine, sarà Giorgia Meloni a fare una proposta e cercare i voti in Parlamento».La povertà di chi lavora secondo lei ha una spiegazione: non tanto il salario basso quanto le poche ore lavorate. Ho compreso bene?«Sì, ma non è l’unica spiegazione. Oltre al part time non volontario, c’è anche il lavoro nero, fortemente sottopagato, specie in settori come edilizia, agricoltura, trasporto e magazzinaggio. E l’arcipelago delle cooperative, in cui la busta paga del lavoratore è spesso ben sotto i nove euro l’ora». È corretto secondo lei parlare di povertà in senso lato? Oltre ai lavoratori anche molte imprese del tanto decantato terziario non hanno conti economici solidi.«Con il Covid, la povertà ha colpito innanzitutto quella che io chiamo la “società del rischio”, ossia l’arcipelago delle piccole e piccolissime imprese, con i loro imprenditori, artigiani e dipendenti. I ceti deboli sono anche lì, ed è stato un grave errore della sinistra storica lasciarne la rappresentanza alla destra e, in parte, al Movimento 5 stelle».In Italia abbiamo quasi gli stessi abitanti della Francia ma 10 milioni di lavoratori in meno. Più o meno. È questo il problema italiano?«Sì, lo è diventato a partire dagli anni Settanta. Prima il nostro tasso di occupazione era simile a quello delle altre economie avanzate. Oggi, per essere un Paese normale, ci occorrerebbero 6-7 milioni di posti di lavoro aggiuntivi, per lo più concentrati nel Mezzogiorno, che è la principale fonte dell’anomalia italiana. Ma oggi c’è una complicazione in più».Quale?«Che la crescita dell’occupazione – da almeno un decennio chiodo fisso di Giorgia Meloni – gli ostacoli non li trova dal lato della domanda di lavoro (le imprese, ndr), che è piuttosto vigorosa, bensì da quello dell’offerta (i lavoratori, ndr). Mancano molti tipi di figure professionali, specialmente tecniche, ed è sempre maggiore la rigidità dei candidati a un posto, soprattutto in materia di orario, ferie, fine settimana libero». La fondazione Hume di cui lei è fondatore ha espresso in passato posizioni critiche sulle politiche anti Covid come lockdown, obblighi vaccinali e green pass. Le chiusure possono aver contribuito a distruggere l’offerta di lavoro nel terziario? Tanto che oggi non si trovano pizzaioli o camerieri?«La Fondazione Hume ha ospitato interventi di ogni tipo, compresi quelli che non condividevo, proprio per contrastare il clima di intimidazione e mancanza di libertà che si è instaurato con il Covid prima e con la guerra in Ucraina poi. Quanto alle chiusure, mi sembra che gli effetti principali siano stati due. Il primo è di distruggere base produttiva, specie nel settore dei servizi, con la chiusura di svariati tipi di attività, dai grandi alberghi ai pubblici esercizi. Qualche volta si è trattato di veri e propri fallimenti. In altri di autopensionamenti anticipati, all’insegna del “chi me lo fa fare di continuare con tutti questi ostacoli?”».E l’altro effetto?«Il secondo effetto, che ai miei colleghi sociologi piace chiamare Great Resignation (o dimissioni di massa), è stato uno spostamento complessivo della curva di offerta di lavoro, trascinato da un genuino cambio delle preferenze. Nel giro di pochissimi anni, il valore relativo del tempo libero rispetto al consumo si è modificato drasticamente, con effetti negativi sui consumi e sull’offerta di lavoro. In parole semplici: molte persone hanno preferito lavorare meno, rinunciando a qualche consumo pur di disporre più liberamente del proprio tempo. Con ovvie conseguenze sul tasso di occupazione, sulla crescita, e pure sui conti pubblici». Reddito di cittadinanza. Proviamo a fare un bilancio asettico dei suoi quasi quattro anni di vita?«L’aumento delle famiglie in povertà assoluta richiedeva una risposta. In questo senso il reddito di cittadinanza è stato una misura giusta. Però ci sono due gravi temi. Il primo è che si è fatto pochissimo per evitare le truffe, come ora sta venendo pienamente a galla. Il secondo è che gli occupabili non sono stati né formati, né avviati al lavoro, né impiegati in lavori socialmente utili». La strategia usata dal governo per abbandonarlo è ineccepibile?«Non direi, perché la gamba delle “politiche attive” non pare ancora pronta. Però è importante aver mandato il segnale che lo Stato non dilapida i soldi dei contribuenti per mantenere chi potrebbe lavorare». Molti intellettuali di sinistra gridano allo scandalo per il fatto che la maggioranza voglia rendere impossibile agli italiani di ricorrere all’utero in affitto. Lei controintuitivamente sostiene che tutto questo non è affatto illiberale. Perché?«La lotta contro l’utero in affitto (o Gpa: gestazione per altri) sarebbe illiberale, e magari accusabile di ritorno allo “Stato etico”, se incidesse solo sulla libertà delle donne di disporre del proprio corpo. Ma non è così, perché la Gpa coinvolge anche il bambino, che viene strappato alla madre biologica, ed esposto ai turbamenti connessi alla genitorialità plurima. E poi c’è la questione di fatto: salvo rari casi, la Gpa instaura una relazione asimmetrica: possiamo almeno chiamarla così? Fra il committente - di solito ricco - e la gestante - di solito povera».Con aborto e divorzio la maggioranza dell’opinione pubblica non era in sintonia con la maggioranza politica, che però votava. Tanto che le voltava le spalle rivolgendosi ai radicali. Potrebbe essere lo stesso in materia di utero in affitto?«No, è l’esatto contrario. Ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto l’opinione pubblica stava con i radicali e contro il governo. Mentre oggi la maggioranza degli elettori è contro la Gpa e la pensa come il governo. E c’è anche un’altra differenza: la battaglia sul divorzio interessava potenzialmente tutti, maschi e femmine. Quella sull’aborto le donne in generale. Quella sull’utero in affitto interessa una minoranza, che riesce a farsi sentire solo grazie al megafono dei media progressisti».Si è molto parlato di strage di Bologna. L’opposizione ha fatto quadrato. Quella è una strage neofascista. Lei ha usato invece un altro termine: strage di Stato. E ha espresso scetticismo contro questa mancanza di dubbi a proposito della sentenza. Perché?«Per vari motivi. Perché non mi era chiaro come mai decine di politici, giornalisti, intellettuali, studiosi, persino membri della Commissione stragi, che avevano sollevato dubbi in passato, erano di colpo diventati silenti. Poi, perché le prove nei confronti di Mambro e Fioravanti sono ben lontane dal dimostrarne la colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Infine, perché definire neofascista una strage orchestrata da loggia P2 e servizi segreti mi pare una forzatura lessicale: quando mai la matrice di una strage non si individua in base ai mandanti, ma in base al credo dei (presunti) esecutori materiali?»Si è molto parlato di cambiamento climatico e riscaldamento globale. Chi contesta l’origine antropica viene ghettizzato come «negazionista». Trova analogie con il dibattito ai tempi del Covid?«Sì, fortissime. Ormai il clima è diventato il terzo ambito, dopo Covid e guerra in Ucraina, in cui è impossibile esercitare il dubbio. Ma, attenzione, il punto non è che certi dubbi non si possono esprimere, il punto è che se lo si fa si perde la propria reputazione, per quanto alta possa essere stata in passato. È una drammatica inversione della catena dell’autorevolezza: un tempo erano le affermazioni a trarre vigore dall’autorevolezza di chi le enunciava. Oggi è l’autorevolezza di chi parla che viene compromessa dal contenuto più o meno corretto delle sue affermazioni. Puoi anche essere un premio Nobel, un grande scienziato, un’autorità morale, ma se metti in dubbio le verità che il pensiero dominate considera irrinunciabili, scatta una sistematica demolizione della tua persona e delle tue credenziali». L’insieme di politiche economiche e industriali che l’Occidente intende implementare per fronteggiare i danni del cambiamento climatico la convincono?«No, la penso come Jonathan Franzen, che nel pamphlet E se smettessimo di fingere? (Einaudi 2020) consiglia di fronteggiare le conseguenze del cambiamento climatico, anziché coltivare l’illusione di poterlo governare».Rispetto a 20 anni fa l’Occidente inteso anche come sistema di valori e non solo come luogo geografico se la passa meglio o peggio?«Meglio che negli anni Cinquanta, ai tempi della guerra fredda. Ma molto peggio che negli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando tanti pensavano – con Francis Fukuyama – che la storia fosse finita, e che il modello occidentale si sarebbe imposto in tutto il mondo».