2022-06-26
Tra fallimenti e Stato tirchio, autunno nero per le aziende
In autunno c’è il rischio tornino ad aumentare i fallimenti. Colpa della crisi. E della Pa che non versa ai privati i 55 miliardi dovuti.In autunno c’è il rischio torni ad aumentare il numero di fallimenti delle imprese. Colpa della crisi, di norme poco chiare che condizionano il superbonus del 110%, e del debito monstre della Pa nei confronti dei privati: 55,6 miliardi. In aumento. Il rischio che dal prossimo autunno torni ad aumentare in misura preoccupante il numero di fallimenti delle imprese è alquanto probabile. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre nel suo consueto report del weekend diffuso ieri. I numeri offrono un utile - e preoccupante - antipasto di quello che accadrà a ottobre, quando le ferie saranno finite e comincerà l’autunno più freddo per le imprese italiane. E non solo perché rischiano di rimanere a corto di gas e luce. Cosa prevede la Cgia per il prossimo futuro? Innanzitutto, che molte attività commerciali e produttive rischiano di dover portare i libri in tribunale.Colpa del deterioramento del quadro economico generale, ascrivibile al caro energia/carburante e all’impennata dell’inflazione, ma non solo. Perché a questi «cigni neri» se ne aggiungono due altrettanto pericolosi per le aziende che però sono una specie, ahinoi, tutta italiana: l’impossibilità di cedere i crediti acquisiti con il superbonus 110%, che ammontano a circa 4 miliardi, e i mancati pagamenti della pubblica amministrazione nei confronti dei propri fornitori, che secondo l’Eurostat sono almeno 55,6 miliardi. Per molte di queste imprese la chiusura definitiva non sarà causata dall’impossibilità di pagare i propri debiti, ma per crediti inesigibili, insolvenze in grandissima parte imputabili alle inadempienze della nostra Pa. Se guardiamo la serie storica degli ultimi dieci anni, il picco massimo delle chiusure è stato raggiunto nel biennio 2014-2015, ovvero 1,5-2 anni dopo la crisi del debito sovrano che ha colpito pesantemente il nostro Paese. «Pertanto, come in tutte le recessioni, gli effetti si esplicitano successivamente», sottolinea la Cgia. covid e guerraCosì dopo le difficoltà causate dal Covid nel biennio 2020-2021 e a seguito degli effetti negativi riconducibili alla guerra in Ucraina scoppiata verso la fine di febbraio, a partire dal prossimo autunno il numero dei fallimenti potrebbe tornare a crescere e subire una brusca impennata nel corso del 2023. Negli ultimi dieci anni il numero massimo di fallimenti si è registrato nel 2014 (14.735 casi). Dopodiché, c’è stata una progressiva riduzione che si è arrestata nel 2020 (7.160 casi). Questo dato - viene precisato nel rapporto - è stato sicuramente condizionato dalla particolarità di quell’anno: a causa del lockdown, infatti, anche i tribunali fallimentari sono stati chiusi per molti mesi, influenzando negativamente la produttività degli uffici, anche in termini di sentenze. Nel 2021, infine, il dato ha iniziato a risalire e alla fine dell’anno si è attestato a 8.498 unità.Con norme incerte e poco chiare che da mesi stanno condizionando negativamente l’applicazione del superbonus del 110 per cento, gli intermediari finanziari (banche, istituti finanziari, eccetera.) hanno praticamente bloccato gli acquisti del credito. Attualmente sono oltre cinque i miliardi di euro di crediti in attesa accettazione; di questi, circa quattro si riferiscono a prime cessioni o sconti in fattura. A fronte di questa situazione, le imprese del comparto casa (come gli edili, imbianchini, installatori impianti, falegnami) non sono più in grado di fare gli sconti in fattura. E - spiega sempre la Cgia - con crediti fiscali già acquisiti e non cedibili, che in molti casi ammontano a centinaia di migliaia di euro per singola azienda, molte realtà si trovano in crisi di liquidità e sul punto di sospendere i cantieri, non essendo più in grado di pagare i fornitori. Ma la situazione più problematica - si legge - rimane lo stock dei debiti commerciali di parte corrente in capo alla pubblica amministrazione che continua ad aumentare. Nel 2021, infatti, i mancati pagamenti ammontavano a 55,6 miliardi. Ciò vuol dire che le imprese che lavorano per la Pa non hanno ancora incassato una cifra spaventosa che è pari al 3,1% del Pil. Un dato peggiore a qualsiasi paese Ue. Rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, anche nei primi cinque mesi di quest’anno il numero dei fallimenti è in calo (-20,6%). Riassumendo: oltre allo stop delle cessioni dei crediti (superbonus), lo Stato ha di nuovo smesso di pagare i suoi fornitori. I debiti della Pa sono tornati a lievitare di circa 10 miliardi sfiorando ora i 56 miliardi di euro. A questo aggiungiamo il fatto che molte catene della grande distribuzione non hanno ancora fatto i conti con il vero choc sugli approvvigionamenti di microchip e tecnologia, che lasciano presagire un peggioramento nello shortage di materiali hardware nei prossimi mesi oltre a un forte incremento dei costi. Ma il paradosso è che mentre ci si impunta sul chiedere un price cap sul gas e si stanziano miliardi coi bonus per calmierare le bollette e i prezzi alla pompa di benzina, perdendo peraltro tempo prezioso, le accise e le imposte come l’Iva restano al 60% su tutto ciò che è energia. Se non fosse ancora chiaro: lo Stato continua a incassare ma nel frattempo non paga.
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)